Pietro D’Agostino, Carta da viaggio/Alight. Un’opera aperta

di G. Regnani

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Pietro D’Agostino, Carta da viaggio/Alight. Un’opera aperta

 

Il libro Carta da viaggio/Alight, di Pietro D’Agostino, è un progetto inconsueto a vedersi e non facile da definire e/o da collocare in una qualche possibile categoria di appartenenza. Il lavoro, tra l’altro, non è stato concepito come un’opera d’arte tradizionale, e pertanto riproducibile solo in tiratura limitata, nonostante si presenti con l’apparenza di un piccolo volume d’artista (termine forse a lui poco gradito, per lo meno in questa circostanza), ma come un prodotto seriale, nell’accezione migliore del termine, non intendendosi quindi un prodotto riservato solo a pochi, esclusivi, fruitori/utilizzatori (che, d’ora innanzi, chiamerò “destinatari/o”). Il libro, edito nella collana editoriale Benway Series a cura di Mariangela Guatteri, è fruibile sia dal recto sia dal verso (caratteristica di tutta la collana editoriale) e ha l’interno composto da una serie di fogli di carta fotografica “nuda”, non ancora “rivelata” né fissata, privi di qualsiasi segno o figura, ancorati e separati su/tra loro da inserti di cartoncino e carta velina, entrambi di colore nero. Ciascun foglio costituisce, di fatto, un’opera a sé stante (come riaccennerò ulteriormente anche in seguito), ognuna definita utilizzando un neologismo coniato dall’autore: “cartafoto” (d’ora in poi “cf ”). Analogamente al volume, anche le cf sono un prodotto di serie, nell’accezione positiva già espressa per il libro e, quindi, con una potenziale tiratura similmente illimitata. L’autore si limita ad assumersene la sola paternità originaria, ma non si spinge oltre come “tutore”, perché immagina che poi, nelle mani del destinatario – temporaneo o finale che sia – le cf possano vivere un proprio percorso autonomo, assumendo le veci di uno strumento atto a “documentare” l’esperienza dei loro viaggi di ricerca espressiva ideali. Si augura, inoltre, che questi anonimi ricercatori lo facciano “usando” ciascuna pagina di questo libro/quaderno analogamente a quelle di un comune taccuino di appunti. Per tale ragione, le cf possono anche essere viste come una sorta di medium, cruciale per esplorare/indagare i luoghi, reali o immaginari, che questi sconosciuti destinatari incroceranno durante il proprio percorso di ricerca in direzione di un altrove magari non definito né, tanto meno, statico e invariabile. In altre parole, le cf possono assumere la veste di paradigmatici portali, strategici per la realizzazione di veri e propri “attraversamenti”. Transiti, dunque, più o meno temporanei, compiuti dall’ignoto destinatario di turno tramite le cf che cooperano alla sua ricerca come un utensile qualsiasi, sebbene caratterizzato da un equilibrio precario e instabile per costituzione, in altri termini: un (s)oggetto, come evidenzia l’autore, in “trasformazione continua”.

Ciascuna cf può inoltre richiamare alla mente, anche per la duplice natura di testo e, al tempo stesso, di metatesto insita in ognuna di esse, due possibili prospettive di lettura, tra le diverse plausibili; due angolazioni interpretative, in qualche misura ispirate dallo stesso autore. Una prima più tecnica e prevalentemente semiotica, benché l’autore non abbia immaginato il suo lavoro propriamente in quest’ottica, plausibilmente in relazione alla scarna struttura materiale di queste opere e/o per la loro connaturata “instabilità” appena accennata. Una seconda maggiormente incline, invece, ad una dimensione più emozionale e poetica, per quanto, almeno a prima vista, possa forse non sembrare affatto verosimile, considerando il minimalismo essenziale di questi fogli spogli. Entrambe le dimensioni non sembrano comunque né esclusive né propriamente nette, anzi, alquanto sfumate e intersecate, in un amalgama continuo tra di loro.

Nella prima prospettiva, quella prevalentemente tecnico/semiotica, oltre alla possibilità delle cf di essere “lette” come un testo e insieme un metatesto – capace, cioè, di riflettere anche su sé stesso – sembra inoltre richiamata l’idea di un’opera aperta, apparentemente provocatoria e iconoclasta. Un’opera aperta e in evoluzione, inoltre, da intendersi come un contenitore poliedrico che, per la sua natura potenzialmente multiforme, stimola una varietà interpretativa, con il contributo, altrettanto eterogeneo, oltre a quello dell’autore, di sconosciuti soggetti cooperatori, incarnati, di volta in volta, da coloro che “usano” il libro, ovvero le cf che contiene. Anche un testo, dunque – da intendersi, in senso lato, come un contenitore (anche) di senso – che, non è da escludere, possa persino favorire l’eventuale emergere di ulteriori ipotetici nuovi linguaggi. Un testo, inoltre, da non considerare come una sorta di un monolite vuoto ma, piuttosto, come una combinazione sinergica e aperta, composta di elementi di senso dinamici e in continua interazione, non solo interna.

Dall’esterno, sarà infatti il temporaneo destinatario che, al pari di appunti annotati sulla pagina di un diario di viaggio, valuterà eventualmente se considerarli completi e decidere, quindi, se fissare o meno definitivamente uno o più fogli di cf non ancora fissata (una scelta possibile, ma non suggerita dall’autore). Congelerà, in tal modo, gli appunti invisibili “scritti” sino a quel momento su quei fogli di carta fotografica dalla luce.

Ed è probabile che siano proprio queste, almeno in parte, le ragioni per le quali i curatori di Benway Series hanno inserito Carta da viaggio/Alight all’interno della loro collana di scrittura di ricerca.

Si tratta, quindi, di un testo che non ha né un unico perimetro/dimensione di senso né una sola potenziale finalità comunicativa predefinita (e dagli esiti comunque imprevedibili, non solo da un punto di vista tecnico), come sembra suggerire lo stesso autore allorquando parla dei suoi lavori come di “oggetti d’esperienza” o di “documentazione fisica di esperienze in divenire.” A partire, ad esempio, dall’indeterminatezza causata dalla ridetta assenza – almeno iniziale – di eventuali tracce sulla superficie fotosensibile di ciascuna cf (i segni “impressi” dalla luce sulla carta fotografica, lo ricordo per chi eventualmente non lo sapesse, restano invisibili sino al momento della loro rivelazione prodotta dal relativo trattamento chimico). Vi potrebbero eventualmente essere, quindi, persino possibili difficoltà nel controllo del processo di registrazione, conservazione e rivelazione successivo delle impronte luminose; ciò determinerebbe dei risultati, innanzitutto estetici e, in termini più generali, culturali, magari diversi e imprevisti persino dall’autore e/o finanche in conflitto sia con il suo progetto originario sia con il fine contingente del destinatario di turno. La ragione di questa incertezza è insita, teoricamente, nella immanente capacità tecnica di quei fogli di carta fotografica di registrare qualsiasi traccia luminosa, e quindi, anche accidentalmente, di fotografare una realtà – fenomenica e di senso – che potrebbe risultare, a uno o più soggetti interessati, addirittura sgradita. Si è dunque in presenza di un nucleo variegato di elementi tecnici, di significanti, di non facile gestione, in divenire verso esiti, che potrebbero emergere, accennavo, anche da contributi esterni all’opera stessa, ovvero arrivare dai temporanei e magari variegati destinatari di turno. Non solo da un punto di vista tecnico, siamo dunque di fronte ad un processo di produzione di segni – e, quindi, anche di senso – potenzialmente complesso quanto incerto, anche per la tecnologia che contraddistingue queste opere. Un tessuto discorsivo, insomma, intricato e a più voci, quello veicolato da ciascuna cf. Mai completamente autonomo e, ancor meno, autosufficiente, fatto di una sostanza praticamente impalpabile, comunque diversa dalla tradizionale scrittura (codificata). Un discorso molteplice, dicevo, contenuto in parte anche in un “corpo” esterno all’oggetto materiale (la carta fotosensibile), ovvero insito nelle idee, nei pensieri del suo creatore/emittente e del suo ignoto cooperante/destinatario occasionale o finale. In altre parole, il senso insito nel testo è paragonabile ad una specie di “pigro” dispositivo (culturale), che rinvia, inizialmente, innanzitutto alle plausibili strutture e percorsi di senso ideati dall’autore per poi eventualmente, “svegliarsi” e integrarsi/completarsi con/nel suo transitorio destinatario. Un testo, inoltre, apparentemente muto e dormiente, che rischierebbe di continuare ad apparire tale in assenza di destinatari che offrano – in un cooperativo scambio dialettico – anche i loro contributi.

Cooperazioni che, in una prospettiva generativa, concorreranno a costruire e/o modificare la narratività, l’intelaiatura di fondo, sempre presente e fondamentale in ogni testo (sotto le forme più disparate di scrittura, immagini, suoni, etc.), incluse, ovviamente, anche le cf che compongono Carta da viaggio/Alight. Più nel dettaglio, anche nell’intelaiatura di ciascuna cf la narratività è rintracciabile a livelli diversi di profondità. Queste stratificazioni sono connesse tra di loro tramite un sistema di progressiva emersione e amplificazione progressiva del significato, a partire da un livello di significazione più profondo ed elementare, maggiormente astratto e schematico (le c.d. strutture semio-narrative di fondo), per arrivare a livelli via via più prossimi alla “superficie” del testo, più chiari e differenziati (con gli attanti e, infine, gli attori coinvolti, ad esempio, nella comune narrazione).

La narratività di queste cf, al pari di altri testi, può essere meglio delineata individuandone il plausibile implicito schema narrativo. Questo schema, farà riferimento ai quattro momenti fondamentali della narrazione (manipolazione, competenza, performanza e sanzione) e alle relative figure attanziali appena accennate (quali: Destinante, Soggetto e Oggetto di valore). Ad un livello superiore, di superficie (come nel caso di una rappresentazione teatrale, di una favola, di un dipinto, di una scultura, di un’istantanea, di un film, etc.), si delineeranno poi gli attori veri e propri, ovvero i personaggi c.d. in chiaro, con tanto di eventuale nome/cognome/alias che comunemente caratterizzano qualsiasi racconto. Nel caso di queste opere, uno tra i tanti possibili percorsi narrativi potrebbe essere tracciato, ad esempio, riprendendo l’incessante dibattito tra la soggettività e l’oggettività della fotografia. Una controversia, accennata anche da Pietro D’Agostino – sebbene nelle sue cf non sembri affatto prioritario questo aspetto – ricordando le visioni antitetiche di Niépce e Daguerre, per un verso, e quella di W. H. Fox Talbot, dall’altro. Come l’interessante e indicativa conversazione, allegata al volume in questione, proposta e condotta da Angela Madesani insieme all’autore mette in evidenza. La ricerca dell’imparzialità contrapposta alla parzialità in ciascuna cf, per ipotesi, potrebbe forse rappresentare un interessante, quanto assurdo e provocatorio Oggetto di valore da conquistare, che un Soggetto competente (i temporanei destinatari di ciascuna di queste opere, supponiamo) dovranno tentare di “conquistare” per conto di un Destinante che individuerei, per esemplificare ulteriormente, nell’autore stesso. Ovviamente, nel corso della storia potrebbe emergere anche un ulteriore attante, avverso però, un Antisoggetto antagonista che, pur seguendo un percorso narrativo analogo, insegue eventualmente un diverso Oggetto di valore, magari con intenti opposti a quelli del Soggetto originario.

Oltre questa possibile angolazione prevalentemente tecnico/semiotica, come ho già accennato,  ciascuna cf può inoltre essere considerata come un vero e proprio metatesto, atto a riflettere anche sull’opera stessa, ovvero sulle sue modalità di produzione, di fruizione, di contesto, etc. Una metariflessione, dunque, che – oltre alla sottintesa funzione autoreferenziale, caratteristica di ogni produzione intellettuale – “narra”, soprattutto in quest’epoca di consolidamento del passaggio dall’analogico al digitale, della fotografia nel suo mutamento incessante in qualcosa di ulteriore. Ora come forse non mai, sebbene per molti sembri solo un moto apparente, la fotografia sembra ormai uscita dalla sua fase preistorica, lasciandosi progressivamente alle spalle quello che potremmo ricordare come una sorta di istintivo linguaggio delle origini. Nel corso di questo viaggio, la fotografia si è più o meno gradualmente anche autonarrata attraverso linguaggi artificiali, formalmente distanti dalla prospettiva “naturale” e apparentemente oggettiva degli esordi, come documentano significative testimonianze. In questa nuova prospettiva tecnica e culturale, la dimensione soggettiva ha quindi assunto un peso via via più rilevante a discapito dell’“oggettività”, lasciando maggiormente emergere le singole specifiche personalità di ciascun autore. Nel caso delle opere di Pietro D’Agostino, a causa della più volte accennata assenza apparente di impronte, questa dimensione sembra meno evidente e, conseguentemente, paiono non attivarsi immediatamente quegli automatismi che rinvierebbero i segni/indici, in maniera convenzionale e magari letterale ad un “è stato”, ad un possibile referente esterno esistente o, comunque, in qualche modo tangibile. Ciascuna cf sembra dunque ricordarci che siamo di fronte, piuttosto che a fotografie intese come una sorta di specchio del reale, ad una dimensione simbolica che integra il senso proprio con uno figurato, ad esempio, rinviando emblematicamente anche al memorabile foglio bianco, da sempre brama e tormento nel percorso di qualunque autore.

Questa natura metadiscorsiva, può associare le cf anche alla produzione di due importanti autori quali Joan Fontcuberta (1955) e Luigi Ghirri (1943-1992). Le opere di entrambi, credo possano essere indicate come esemplari in tema di metadiscorsività, pur nella specificità espressiva della ricerca personale di ciascuno dei due autori, con prassi espressive dai tratti e dalle connotazioni diverse tra di loro e, non ultimo, da Pietro D’Agostino.

Un esempio riguardante Fontcuberta, tra i tanti possibili, è certamente la sua opera-firma intitolata “Fauna”, con il suo bizzarro e straordinario bestiario immaginario, realizzato con immagini che mimavano e miscelavano insieme tanto una sorta di ricerca pseudoscientifica, quanto tutta una serie di interventi ingannevoli dell’autore per falsare l’interpretazione dell’osservatore e indurlo a considerare vero ciò che era raffigurato nelle sue invenzioni/fotografie. Al riguardo, un compito fondamentale dell’arte, pur nel rispetto della libertà espressiva dell’autore, è, senz’altro secondo Fontcuberta, quella di esplorare anche oltreconfine la realtà di primo grado. Tuttavia, occorre talvolta muoversi anche nella direzione opposta, per non dissolvere irrimediabilmente il capitale umano di relazioni, materiali ed immateriali, che ci permettono di interagire con l’ambiente reale/simbolico nel quale siamo fisicamente e/o simbolicamente immersi.

Connessa a queste considerazioni, è associata una più ampia riflessione critica sul ruolo della fotografia contemporanea, che si fonda, come già accennato, sul progressivo sgretolamento della funzione originaria di traccia concreta del reale, tenuto pure conto del caos crescente e dell’incertezza dei nostri tempi, segnati anche da un dilatarsi dell’alternanza tra reale e virtuale. Tra i tanti e diversi contributi, uno tra i più significativi è certamente stato quello di Luigi Ghirri, tuttora vivo e attuale.

A chiamarlo in causa su queste tematiche è stato, a suo tempo, anche Joan Fontcuberta.

L’opera di Luigi Ghirri, mutuando riferimenti anche dal panorama dell’arte concettuale e miscelando nelle sue produzioni humour ironico e lirismo poetico, ha percorso con una certa insistenza un cammino spesso in bilico tra astrattezza e concretezza, creando immagini anche per sottrazione e condensazione di elementi visivi, piuttosto che per accumulo, che definiva “strip-tease intellettuale”.

Sottrazioni/condensazioni visuali, per altri versi, poste su una lunghezza d’onda non così distante dall’autore che, attraverso le sue cf, estremizza e sintetizza palpabilmente questo intento nell’invisibile che, per lo meno all’apparenza iniziale, è un tratto distintivo della superficie materica delle sue opere. Il fine ultimo e comune insito in questa pratica eliminatoria delle stratificazioni generate nel frattempo – come testimonia anche Carta da viaggio/Alight, con modalità che, in qualche modo, sembrano rinviare anche a pratiche e dimensioni affini a quelle di talune produzioni delle Avanguardie storiche – è quello, infine, di “giungere all’essenza”, al nucleo dell’indagare; in altri termini, all’anima della propria ricerca espressiva.

Un intento che ha una vicinanza anche con quanto scritto da Luigi Ghirri a proposito di una storica ed emblematica ripresa fotografica: la prima fotografia della Terra, scattata nel 1969 dalla navicella spaziale in viaggio per la Luna. Quell’immagine, pur nella sua apparente semplicità, gli era sembrata un eccezionale quanto rappresentativo esempio di metafora della rappresentazione visuale contemporanea, capace di contenere

“contemporaneamente tutte le immagini precedenti, incomplete, tutti i libri scritti, tutti i segni, decifrati o non. Non era soltanto l’immagine del mondo: graffiti, affreschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, film. Contemporaneamente la rappresentazione del mondo e tutte le rappresentazioni del mondo in una volta sola.”

Una sconvolgente totalità, condensata essa stessa nella definizione di “geroglifico-totale”, e, in quanto tale, non del tutto esente da zone d’ombra. Ghirri aggiunse, infatti: “Il potere di contenere tutto spariva davanti all’impossibilità di vedere tutto in una sola volta.”. A mio avviso, quell’immagine ormai stampata indelebilmente nell’immaginario collettivo, conserva tuttora tutta la sua emblematicità, anche per quanto riguarda gli aspetti che accennavo, relativi alla sottrazione e condensazione (non solo visiva).

Un’altra estrema ed esemplare espressione di questo tipo di percorsi per sottrazione e condensazione, al quale fa riferimento anche l’autore, attivo e aperto anche ad altri campi espressivi, è l’altrettanto emblematica opera silente di John Cage 4’ 33” del 1950.

A ben vedere, come le cf di Pietro D’Agostino: un’altra opera aperta. E, anche nel caso di J. Cage, tutt’altro, quindi, che opere “pigre” e, tanto meno, apolitiche e inerti.

Roma, 21 marzo 2017

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Pietro D’Agostino, Carta da viaggio/Alight. Un’opera apertaultima modifica: 2017-09-22T22:04:45+02:00da gerardo.regnani
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