Fotografia, comunicazione, media e società

L’(in)utile visione dell’orrore

La virtuale narcosi delle fotografie-choc secondo Susan Sontag, tra informazione, “turismo” del dolore e apatia dell’audience

L'(in)utile visione dell’orrore

di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
31/08/2005

Vedere di continuo fotografie strazianti ci “tocca” ancora? Secondo il pensiero di Susan Sontag, del quale tentiamo di offrire una panoramica, gli odierni media tritatutto contribuiscono sensibilmente alla generale anestesia del pubblico di fronte alle immagini del dolore altrui. Tralasciando ogni utopica “ecologia delle immagini”, la reiterata proposta di immagini di sofferenze – di là dall’apparente sensazione di prossimità con i soggetti raffigurati – sembra capace di evidenziare, piuttosto che partecipazione, il ruolo tanto spesso passivo quanto “distratto” e distante dell’audience di riferimento. L’inidoneo utilizzo delle fotografie illustranti delle atrocità tende inoltre ad inquinarne, talvolta irrimediabilmente, la lettura “corretta” da parte del pubblico destinatario. Un simile scenario comporta, peraltro, anche un potenziale annichilimento degli sforzi di tutti quegli operatori che, lontani da cinici compiacimenti, intendono invece offrire una “testimonianza” concreta della tragicità di un evento.
Le immagini fotografiche relative alla carneficina di Beslan, massacro del quale ricorre in questi giorni il primo triste anniversario, stimolarono allora anche un dibattito relativo all’utilità di pubblicare, così come avvenne, delle fotografie a dir poco strazianti, tanto più che in esse vi erano spesso ritratti i corpi martirizzati dei non pochi bambini rimasti vittime di quell’immane orrore.
Mostruosità rese ancor più amare dalla precoce scomparsa della vicenda dall’agenda dei media, subito “distratta” da altri eventi che, di fatto, oscurarono velocemente quello smisurato e terribile accaduto.
Nonostante l’oblio precoce di cui l’evento fu protagonista, la controversia relativa all’uso delle immagini di cronaca – un utilizzo talvolta persino spregiudicato – non può subire la stessa sorte. La discussione dovrebbe restare aperta – come sembrano ben evidenziare i diversi reportage, anche recenti, provenienti dalle varie aree di crisi mondiale – in considerazione del fatto che la questione non si è certamente chiusa con quel triste episodio.
Utile allo scambio di idee ci è quindi sembrato essere il contributo della scrittrice americana Susan Sontag (1933-2004) che, nel suo saggio Davanti al dolore degli altri, ha raccolto tutta una serie di riflessioni su un genere particolare di visione, quella della sofferenza altrui, che alimenta, ormai quotidianamente, la nostra dieta mediatica. E, approfittando degli spunti offerti da taluni passaggi di quel testo, tenteremo di riprendere talune di quelle considerazioni relative a questa spinosa quanto complessa tematica rinviando, in ogni caso, al libro per una lettura più estesa.
La visione di immagini laceranti di vittime di un atto di violenza sembra scuoterci, prima di tutto, per la capacità tipica della fotografia di sintetizzare attraverso rappresentazioni visuali – tanto frequentemente parziali o semplificate quanto, altrettanto spesso, anche topiche – un determinato evento.  Di questo offrono una forma di reiterazione non sempre priva di retorica e finalizzata alla creazione o al rinforzo del consenso da parte dell’audience destinatario. Adesione che i media avvalorano abitualmente attraverso quello strategico canale interpretativo rappresentato dai testi che, di norma, affiancano le immagini, anche sotto la forma di elementari leggende chiarificatrici che, al di là dell’apparenza, sono sovente veri e propri recinti semantici che indirizzano l’attività interpretativa del destinatario delle rappresentazioni visuali.
L’uso distorto di testi esplicativi è stato, in effetti, una peculiarità distintiva anche della propaganda bellica più recente. Le immagini di piccole vittime di bombardamenti aerei avvenuti nel territorio della ex-Jugoslavia, ad esempio, furono usate – alternativamente – dalle differenti fazioni in lotta durante le vicende di guerra che le hanno visto protagoniste in quell’area geografica. A ciascuno dei contendenti era bastato, di volta in volta, cambiare soltanto le didascalie che accompagnavano le fotografie per poterle riutilizzare per i propri specifici fini propagandistici.
Quale che sia, in ogni caso, l’utilizzo finale di un certo tipo di fotografia, queste ci “informano”, di solito senza temere smentite, che sono certamente avvenuti dei fatti tragici. Avvenimenti ai quali gli spettatori assistono, comunque, da lontano, sebbene apparentemente avvolti nella dimensione di “prossimità” loro offerta dall’immagine fotografica. Questa esperienza simbolica è tipica e nodale dell’epoca contingente ove, grazie al diversificato complesso di rappresentazioni visuali continuamente offertoci da quella singolare sorta di “turismo” professionale meglio noto come giornalismo. Attraverso quegli “sguardi”, chiunque può “vedere” anche gli aspetti più agghiaccianti di un fatto avvenuto anche molto lontano. Siamo di fronte, tangibilmente, ad una nuova forma di “tele-intimità” che ci pone dinanzi all’annientamento di cose e persone con modalità mai viste prima.
Oggi, potremmo inoltre aggiungere, una qualsiasi circostanza ha maggiori probabilità di divenire una “realtà” per il pubblico di riferimento, proprio perché è “documentato” da un’immagine fotografica. Persino per chi è vicino all’accaduto, un evento di cui è un diretto testimone finisce per “somigliare” inaspettatamente – e non il contrario, paradossalmente – alla sua raffigurazione visuale.
In questo contesto “mediato” la forza pervasiva del fermo-immagine fotografico esercita una forma di dominio praticamente incontrastato, a partire dal fatto che la memoria stessa ricorre normalmente all’immagine singola proprio in alternativa al sovraccarico di informazioni dell’era contingente.
La fotografia, in sostanza, continua a confermarsi come un medium di successo grazie, appunto, alle sue intrinseche qualità di strumento informativo veloce e compatto. Tale status la avvicina ad un vero e proprio riferimento verbale, in particolare a quelli diffusi nei comuni modi di dire veicolati dal sapere popolare.
Ma queste “qualità”, molto probabilmente, non sono ritenute del tutto sufficienti per “catturare” l’attenzione del pubblico. Ecco, dunque, emergere ed affermarsi una tipologia di immagini che, ormai, la fa da padrona nell’universo mediatico: la fotografia impressionante.
Più lo è, nel suo genere e, forse, meglio è per qualche reporter o newsmaker.
Oppure no?
Certo è che il dilagare di immagini fotografiche sconcertanti è, purtroppo, divenuto praticamente una triste normalità. Questa prassi produce, conseguentemente, una ancor più preoccupante dimensione anestetizzante di queste forme di rappresentazione che, servite oramai sistematicamente ovunque, finiscono per impressionare sempre meno chiunque le incroci.
Nonostante questo, l’inseguimento frenetico di fotografie-shock pare essere una delle dominanti tra i “valori-notizia” che orientano le redazioni dei diversi media nella scelta dello “scatto” finale da proporre al loro destinatario-spettatore. Non sembra altrettanto facile, nell’ottica di mercato che regna sovrana anche nell’ambito dei media, selezionare altre forme di rappresentazione visuale per imprigionare l’attenzione dell’utente mediatico.
L’imperativo sembra essere, occorre sottolinearlo: vendere il prodotto, e a qualsiasi costo.
E poco importa se, a tal fine, si ricorre all’ostensione del cadavere di un bambino, magari ben martoriato a causa degli effetti di un evento nefasto, a prescindere dal fatto che esso sia stato determinato dalla mano umana o dalla natura (anch’essa stranamente “umana” in certe occasioni). L’importante è uscire dall’assuefazione visiva generata dalla dipendenza dai media nella quale siamo ormai precipitati.
Tra le diverse cause di questa mutazione possiamo, plausibilmente, riscontrare l’eccessiva familiarità dell’individuo odierno con le immagini. Esse, a differenza degli anni d’esordio dell'”invenzione meravigliosa”, sono per molti persino “iperfamiliari” e, proprio per questo loro essere eccessivamente consumate, divengono, di norma, incapaci di emozionare in quanto prive di una particolare (e nuova) carica emotiva, quale potrebbe essere quella veicolata, appunto, da una fotografia traumatizzante.
Siamo, dunque, nell’era dello shock.
E, tra guerre, contese etniche, calamità e quant’altro, il materiale visuale di certo non scarseggia.
Il potere che una volta era della parola parlata, poi stampata, sembra aver ora passato il testimone alle immagini, specie a quelle capaci di turbare la visione.
La connaturata pseudo-scientificità caratteristica di ogni fotografia ha poi fatto il resto, rendendo praticamente inossidabile la patente di realismo che accompagna da sempre ogni immagine fotografica, sebbene ciascuna di esse non possa non risentire della prospettiva soggettiva del “suo” autore. Ogni istantanea può, quindi, essere considerata un “documento” a patto, però, che non si dimentichi la questione della possibile relatività della visione dovuta alla presenza, diretta o indiretta, di una figura autoriale.
L’attribuzione di autenticità di una fotografia può risentire anche delle qualità estetiche riscontrabili nella composizione formale dell’immagine, al punto che, in qualche caso, la sua apparente imperfezione – rispetto a determinati canoni classici della composizione quali, ad esempio, la “corretta” prospettiva di ripresa – potrebbe essere considerata un elemento a favore dell’ipotetica veridicità dello “scatto”.
Quale che sia, in ogni caso, la sua espressione tangibile, un’immagine significa e stimola degli effetti anche in relazione al “testo” – scritto o orale, immaginario o concreto – che può “illustrarne” il contenuto. Tale “testo”, peraltro, potrebbe mutare nel corso di eventuali passaggi da un contesto all’altro della fotografia, risentendo, anche in maniera radicalmente diversa da caso a caso, del (nuovo) clima culturale che dovesse incrociare sul suo cammino.
Una costante del pubblico sembra essere, comunque, il desiderio di “vedere”, anche solo attraverso una fotografia, delle rappresentazioni del dolore. “Spettacoli” nei confronti dei quali, spesso, non si può rivestire altro ruolo che quello (passivo?) di spettatore e, insieme, di voyeur. Complici, peraltro, di una scelta che non è mai solo l’obiettiva e limpida cronaca di un determinato avvenimento. Questo perché una fotografia è “testimone”, innanzi tutto, della selezione attuata dal suo autore rispetto all’ipotetico “fuori campo” escluso dall’inquadratura; un contesto che comunque, anche se indirettamente in quanto assente, concorre concretamente alla costruzione “esterna” del significato rilevabile nella scena ritratta (e visibile).
La presa della morte, in particolare, è uno dei “vantaggi” derivanti dall’uso delle fotocamere, moderne protesi meccaniche di questa cultura della cattura dell’attimo estremo. Una dimensione che, magari tradendo anche un inconfessabile compiacimento, è capace di offrirci, congelato in un unico (cinico) scatto, anche l’aspetto più orripilante di una qualche tragica circostanza. In quest’epoca di immagini, il reale non sembra più tale, come si è già accennato, se non è raffigurato ed amplificato attraverso un persuasivo fermo-immagine.
Qualsiasi ripresa non sfugge, inoltre, alla sua immanente dimensione estetica (intesa come sfera del “bello”). Tale apparenza approssimandone l’ambito estetico (il visibile, in questo caso) al territorio artistico può farla divenire, plausibilmente, anche oggetto di violente critiche, tanto più forti nel caso in cui l’immagine è pure accompagnata da una didascalia inadeguata; moraleggiante, ad esempio. L’accusa trae sostanza dal rischio insito in ogni potenziale spostamento dell’attenzione dello spettatore verso l’opera in sé stessa, piuttosto che sul “documento” visivo vero e proprio veicolato dalla fotografia. Simili e imbarazzanti reindirizzamenti dell’interesse del pubblico destinatario potrebbero persino condurre all’inopportuna esaltazione spettacolare di rappresentazioni che, all’opposto, dovrebbero essere invece la testimonianza di un evento tragico che, auspicabilmente, sarebbe meglio non si ripetesse mai più.
Di questa pericolosa propensione culturale, la fotografia, emblematicamente, sembra essere ormai divenuta la vera e sinistra quintessenza.
A questo, si aggiunga pure la connaturata oggettivizzazione di qualsiasi soggetto fotografato, una metamorfosi che facilita il possesso – anche materiale, in qualche modo – di qualunque cosa sia stata registrata dall’immagine.
L’accumulo di immagini fotografiche oggi possibile sembra inoltre favorire, anziché la crescita dell’interesse collettivo verso determinate problematiche, una crescente e diffusa apatia. L’elevarsi del livello di sopportazione del contenuto violento di molte delle immagini giornalmente veicolate dai media, oggigiorno tendenzialmente molto più elevato che in passato, contribuisce ad amplificare ulteriormente il torpore generale dell’audience.
Ma in realtà, la vera ragione di preoccupazione non dovrebbe essere tanto l’aspetto quantitativo, quanto quello qualitativo, ovvero quello relativo all’uso che viene fatto delle immagini: il significato attribuitole rappresenta il vero punto nodale. Anche di fronte alla saturazione di immagini tipica dell’era dello spettacolo contemporanea, le fotografie possono continuare ad esercitare la loro importante funzione di veicoli di significazione, a patto che questa sia adeguatamente valorizzata.
La televisione, al riguardo, rappresenta una grave minaccia a causa, innanzi tutto, della caratteristica discontinuità di attenzione che genera nel pubblico, unita all’instabile e snervante flusso visuale che, incessantemente, trasmette per tentare di trattenere davanti al video un pubblico sempre più annoiato e fortemente incline allo zapping.
In questo clima da tedio, una dieta fatta di enormità e mostruosità sembra essere l’unica arma strategica adatta a combattere l’abbandono dell’audience, gradualmente assuefatto e ormai capace di metabolizzare qualsiasi visione, talvolta anche nella più totale indifferenza.
Di questo “regime dietetico”, tipico della modernità, fu critico testimone anche il poeta francese Charles Baudelaire (1821-1867) che già nella stampa dell’epoca biasimava la presenza costante delle tracce della più terrificante malvagità dell’uomo; un infinito e rintronante repertorio di crimini e di orrori servito sin dall’ora della colazione. L’accusa, nata quando nei giornali non venivano ancora pubblicate immagini fotografiche, sembra tuttora valida, amplificata, peraltro, dall’avvento del mezzo televisivo che sembra aver ulteriormente enfatizzato la propensione alla visione dell’orrore. Ne deriva la potenziale banalizzazione di tante atrocità, ostinatamente replicate sino alla nausea o, per lo meno, sino all’avvento di un nuovo e terribile avvenimento. Le immagini di tanti di questi orrori, visioni che avrebbero sconvolto più d’uno in tempi passati, scorrono spesso senza destare alcuna reazione in buona parte di un pubblico sovente fiacco e addormentato.
Di fronte a questa diffusa e nota diagnosi, potrebbe forse rappresentare una possibile soluzione una limitazione della dilatazione dell’uso di un certo tipo di immagini o, in termini più ampi, l’avvento di un’auspicabile “ecologia delle immagini”?
In realtà, nessuna delle due soluzioni vedrà mai completamente la luce.
Non si realizzerà alcuna “ecologia”, così come nessun organo vigilante conterrà mai (per legge) la divulgazione costante di orrori d’ogni sorta che, a loro volta, non tenderanno affatto ad attenuarsi.
L’idea stessa di contenere la divulgazione tanti atrocità visuali potrebbe finanche essere interpretata come un atteggiamento reazionario, avverso ad un certo tipo di immagini accusate di intaccare il significato del reale che veicolano.
Secondo visioni estreme – per quanto la realtà continui a sussistere prescindendo da qualsiasi sforzo teso a ridimensionarne l’importanza – la moderna “società dello spettacolo” non lascerebbe più molti margini d’azione utili per la difesa del reale, costantemente fagocitato e riproposto attraverso le rappresentazioni visive veicolate dai media.
Tutto, per esistere, deve essere necessariamente risemantizzato dai mezzi di comunicazione, affinché possa divenire un insieme significante di qualche interesse per il “suo” eventuale pubblico.
Assistiamo, secondo determinati punti di vista, alla rinuncia della dimensione reale, sistematicamente sostituita dalla rappresentazione mediatica.
Ma a forza di parlare di realtà-spettacolo, non si alimenta forse una retorica che scade nel provincialismo, poiché fondata su una prospettiva che rischia di risultare parziale – quella delle aree opulente del globo – secondo la quale, per audience composte prevalentemente di spettatori, l’informazione è, essenzialmente, spettacolo?
Da questa angolazione, la visione di tante tribolazioni potrebbe deteriorarsi in mera spettacolarizzazione al cui cospetto, una parte del mondo – potendolo fare – decide di volta in volta se essere, o no, spettatore dell’una o dell’altra manifestazione della sofferenza umana.
Si tratta, in parte, anche di un luogo comune che, come riflesso all’accumulo quotidiano di orrori visuali, non intravede altro che limitati effetti reattivi, gravati, peraltro, da una certa dose di cinismo. Lo stesso atteggiamento cinico che arriva a definire “turismo di guerra” l’impegno di quanti cercano di realizzare – con serietà – tracce concrete delle contrapposizioni e dei drammi in corso nel mondo. A questa visione viene spesso associata quella, altrettanto diffusa, relativa all’esistenza di vere e proprie forme di sfruttamento mercantile della visione del dolore. Tale idea è talora condivisa, e magari non sempre a torto, anche dalle potenziali vittime del conflitto che gli operatori dei media tentano di “documentare”, esponendosi direttamente a rischi analoghi a quelli di coloro che sono coinvolti nella contesa in atto.
Ci troviamo, in realtà, di fronte ad uno scenario controverso e difficile da interpretare.
Per un verso, si assiste ad un’enfatizzazione della dimensione spettacolare degli eventi tragici; per l’altro, occorre riconoscere il valore documentario di quei reportage realizzati con il serio intento di fornire un quadro obiettivo della circostanza indagata.
Quale che sia la posizione prevalente, resta il fatto che in una società necessariamente “mediata” dai vari strumenti d’informazione il problema di fondo è sempre lo stesso: la difficoltà diffusa dell’individuo comune di poter essere testimone diretto dei tanti eventi che “l’eterna attualità” dei media ci propone. Questo aspetto non consente di limitare l’ambito problematico al solo contenuto delle immagini in sé, quanto, come si è detto, al loro concreto utilizzo. E’ praticamente inevitabile, in effetti, che ciascuno di noi debba vedere ed eventualmente partecipare al dolore altrui da lontano ma, evidentemente, gli effetti di questa visione non possono non risentire del contesto di fruizione. Sarà indubbiamente diverso fruirne in una dimensione adeguata al contenuto simbolico che si intende trasmettere, piuttosto che in un’altra più incline alla commistione commerciale di quel “prodotto” con merci di tutt’altra natura, quali, ad esempio, comuni articoli di cosmesi, antidolorifici, automobili, ecc. Differenziata sarà, inoltre, la fruizione di un reportage in relazione al veicolo comunicativo di volta in volta usato, sia esso un giornale, piuttosto che una rivista patinata, la tv, anziché la sala di un museo o di una galleria d’arte contemporanea e così via.
In ogni caso, vedere rappresentata in modo inadeguato la sofferenza degli altri mette in discussione il contributo stesso offerto dalla fotografia, rea di offrire un estratto del mondo non sempre eticamente conforme alla realtà. Il costo di certe visioni è, in aggiunta, troppo elevato se correlato soltanto a certe qualità visuali del mezzo fotografico tanto tradizionalmente apprezzate in precedenza. Doti che ci pongono ad un’asettica distanza di sicurezza dalla realtà raffigurata, liberi di continuare ad essere anche del tutto disinteressati di fronte alla visione di qualsiasi atrocità.
Anche per tale ragione, è fondamentale sottolineare che la rilevanza del contesto di impiego delle immagini, consapevoli del fatto che, oggi più che in passato, i contesti sono divenuti molteplici e complessi.
Viviamo, infatti, nell’epoca che ha visto emergere le intense commistioni visive di Oliviero Toscani (1942), perennemente in equilibrio (instabile) tra arte e comunicazione, e dei suoi diversi epigoni. Ma la contaminazione del visuale da parte del prodotto commerciale, sebbene un tempo sia stata più distinta rispetto ad oggi, non è certo una novità dell’ultima ora. La stessa celebre fotografia del miliziano spagnolo, realizzata nel 1936 da Robert Capa (Endre Friedmann detto, 1913-1954), venne impaginata accanto alla reclame di una nota casa produttrice di brillantina.
In realtà, tanto scetticismo nei confronti dei reportage è in parte generato dal continuo inquinamento della visione dovuto alle differenti modalità di diffusione oggigiorno utilizzate. La contingente dimensione visiva è caratterizzata dal fatto che, soltanto di rado, è possibile trovare luoghi dedicati alla sola fruizione delle immagini; spazi che siano interdetti ad altre istanze, in particolar modo quelle mercantili. Non sfuggono a possibili “contaminazioni” neanche le cosiddette gallerie d’arte in quanto luoghi deputati ad una visione vissuta, di norma, come un “distratto” momento sociale; preferibile a questa, è forse l’esperienza solitaria del libro, sebbene anch’essa possa poi mostrare, come altre, il suo limite di esperienza momentanea. E, conseguentemente, che fine faranno le “intenzioni” originarie dell’autore? Continueranno ad essere ancora rilevanti? Il rischio, in effetti, è che divengano del tutto irrilevanti, con buona pace nostra, delle vittime stesse e della sua presumibile volontà iniziale.
Alla fine, uno degli esiti più infausti di tali dinamiche può essere l’emergere di una plausibile incomunicabilità tra coloro che, magari, hanno vissuto in qualità di testimoni diretti – sebbene privilegiati in quanto giornalisti e, perciò, non direttamente implicati – l’evento che intenderebbero documentare e il pubblico al quale, in definitiva, sono “destinate” determinate immagini relative ad eventi cruenti. E il non poter comprendere e trattenere appieno il messaggio veicolato dalle tante fotografie di atrocità in circolazione diviene uno degli elementi emblematici del complesso – tanto spesso criticabile – “spettacolo” tragico offertoci dalla visione costante, e “inquinata”, del dolore degli altri.

L’(in)utile visione dell’orroreultima modifica: 2007-03-22T17:35:00+01:00da
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