Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia è un medium isolato?

La fotografia è un medium isolato?

di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
27/05/2005

Le immagini prefotografiche erano sovente dei concentrati visuali che tentavano di riepilogare uno specifico avvenimento in un unico “quadro” riassuntivo. Altrettanto frequentemente queste rappresentazioni erano considerate il documento dimostrativo di un determinato accaduto, l’effettiva “testimonianza” di un evento.
L’avvento della fotografia sconvolse radicalmente questo impianto simbolico, a partire dal discorso sulla verosimiglianza delle figurazioni che, da quel momento, non avrebbe potuto più fondarsi sulle convenzioni preesistenti nell’ambito delle “immagini sintetiche”, bensì sulla presunta realisticità di quelle “analogiche” prodotte dalla nuova invenzione.
Cambiò, come riflesso a questo alone di indiscutibile (pseudo)scientificità, anche l’orizzonte estetico di riferimento del medium fotografico.
La riproducibilità del mezzo favorì, inoltre, anche l’innesco di un vera e propria produzione in serie delle immagini fotografiche che solo il momentaneo dominio dell’unicum dagherrotipico sembrò inizialmente poter contenere.  Una “resistenza” basata sull’apparente irriproducibilità meccanica delle lastrine inventate da Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851) e, quindi, sulla loro affinità con le opere pittoriche tradizionali.
Una delle conseguenze di questo transito fu la trasformazione del “valore di scambio” delle opere che, secondo l’analisi teorica benjaminiana, si trasformò da “cultuale” ad “espositivo”, vivendo quella radicale metamorfosi che avrebbe stimolato la progressiva volgarizzazione dello “specchio dotato di memoria”; passaggio, questo, che implicò anche la dissoluzione dell'”aura” – del rituale hic et nunc – dell’opera d’arte tradizionale.
A questa prima fase, grazie all’introduzione del collodio (la seconda delle tre celebri “pappe” fotosensibili della fotografia, emersa tra l’albumina d’uovo e la gelatina ai sali d’argento), seguì l’avvento delle istantanee – la fotografia tout court – che, nella seconda metà dell’Ottocento, sembrarono poter dare una prima risposta alla diffusa esigenza di rappresentazione del movimento. Un iniziale riscontro a questa pressante istanza fu dato da due popolari media dell’epoca, quali la stereografia e le cartes de visite, cui seguirono poi le prime e memorabili sperimentazioni dei primi cronofotografi. L’evoluzione tecnologica successiva, con l’introduzione del retino fotografico e la commercializzazione della pellicola di celluloide, avrebbero poi posto le basi per il progressivo allontanamento dalla tradizionale dimensione artigianale di questo medium – così come avvenne anche per la cinematografia – e per la graduale evoluzione verso una dimensione tipicamente industriale. Un’evoluzione amplificata dall’affermarsi di quella “divisione del lavoro” teorizzata ed applicata dal pensiero taylorista e fordista che favorì, anche per la fotografia, il delinearsi della contrapposizione tra le forme di lavoro “astratto” e “concreto”. La cronofotografia, attraverso l’opera di due dei suoi più noti protagonisti, Etienne-Jules Marey (1830-1904) e Eadweard Muybridge (1830-1914), sembrò ben riassumere, oltre alle problematiche già accennate, quel processo che avrebbe poi portato la figura dell’autore a trasformarsi totalmente nel tempo rispetto al passato. Questi, in effetti, dall’originario e fondamentale status di artefice totale dell’opera – in grado di presidiare personalmente tutte le varie fasi ideative e realizzative dei propri progetti creativi – avrebbe assistito alla progressiva modifica della sua funzione primordiale, sino a vedersi radicalmente confuso nei processi produttivi dell’industria culturale moderna. Una dimensione ove l’autore, non di rado, diviene solo un “sottosistema” tra gli altri.
Il movimento delle Avanguardie rappresentò una forma di opposizione a queste problematiche esprimendo, attraverso un nutrito gruppo di autori, anche l’intento di favorire una crescita dell’arte e, più in generale, della cultura all’interno di un consapevole processo di contrapposizione con lo sviluppo dell’economia capitalistica. In quest’ambito, venne definitivamente rimessa in discussione anche l’idea classica di opera d’arte, non ritenendosi ormai più necessario né il possesso da parte dell’autore di particolari capacità manuali né che questi dovesse essere necessariamente colui che realizza materialmente il prodotto artistico. L’autore ha potuto, quindi, limitarsi ad “indicare” l’opera, anziché realizzarla – si pensi ai noti “oggetti trovati” di Marcel Duchamp (1887-1968) – emancipandosi simbolicamente, attraverso questa attività di decontestualizzazione e di risemantizzazione, dal retaggio e dai vincoli dell’autore classico.
Modalità d’azione, queste, che sono, a ben vedere, tipiche dell’agire fotografico. L’autore, tramite lo “scatto”, si limita, in effetti, ad isolare una frazione del mondo per poi riproporla – in luoghi e/o tempi differenti – attraverso l’immagine finale.
In questo periodo storico la fotografia visse un’ulteriore momento di maturazione e di popolarità favorita anche dall’opera di figure autoriali particolari, quali, ad esempio Lásló Moholy-Nagy (1895-1946). Egli, al pari di altri autori del tempo, è divenuto noto per tutta una serie di nuove sperimentazioni estetiche e per la sua originale ricerca teorica. Un’analisi che ha lasciato segni profondi arricchendosi anche del confronto con gli altri protagonisti della celebre scuola statale del Bauhaus di Walter Gropius (1883-1970). La riflessione moholynagyana comprese chiaramente il potenziale dello strumento fotografico – appropriatamente identificato come una delle moderne forme di rappresentazione visuale – sempre in bilico tra gli estremi di un’eventuale obiettività, da un lato, e l’immanenza ineludibile della dimensione soggettiva, dall’altro.
L’arrivo, poi, del nuovo medium (freddo) televisivo, avrebbe inaugurato nuove modalità di rappresentazione della “realtà” trasformandosi, nel tempo, da strumento collettivo, quale fu nei primi anni anche in Italia, nelle forme sempre più personalizzate e private del presente. La fotografia, temendo consapevolmente questa nuova “protesi” maclhuaniana, tentò in vari modi di difendere il suo storico ruolo di “testimone obiettivo” del Tempo, come nel caso della famosa esposizione “The Family of Man” organizzata al M.oM.A. di New York nel 1955.
Ma, a prescindere dal contesto, la resa oggettiva delle immagini – una funzione tradizionalmente attribuita alla fotografia – è costantemente compromessa proprio dalle  peculiarità del medium, coesistendo in esso tanto la schiacciante referenzialità del soggetto originario quanto tutta una serie di ingredienti formali che, specie se deliberatamente manipolati, possono esaltare la dimensione persuasiva di qualsiasi rappresentazione visiva. Un processo che assume una connotazione ancor più particolare per le fotografie che sono ancorate a particolari ambiti ideologici, come nel caso della “concerned photography” o fotografia sociale.
Dell’enigmatica apparenza di ogni traccia visuale e del rischio connesso con l’errata interpretazione dei suoi elementi estetici è stato un emblematico testimone Robert Capa (Endre Friedmann detto, 1913-1954), cofondatore, con altri, della storica agenzia fotografica internazionale Magnum Photos. Simbolico e strategico punto di riferimento dell’organizzazione fu una generale diffidenza verso il sistema dei media – la cosiddetta “méfiance” di Ferdinando Scianna (1943) – eretta a difesa dell’indipendenza dell’autore tradizionale. Un atteggiamento reso ancor più singolare dalla consapevolezza che realizzare una fotografia è sempre equivalente ad effettuare una scelta basilare tra l’essere spettatore o attore, ovvero al dare la preferenza alla visione piuttosto che all’azione.
Scelte, queste, rese ancor più cruciali dalla dissoluzione dei grandi credo del passato causata dal transito verso la postmodernità.
In effetti, la fine dei racconti solenni tradizionali e la consapevolezza della finitezza fisica di ogni essere vivente sono stati alcuni degli elementi che, nella dimensione rizomatica della rete, hanno ulteriormente contribuito all’erosione di ogni certezza, favorendo anche possibili derive nichiliste dell’umanità, ormai apparentemente ridotta solo ad un fitto intrico testuale, ad una indistinta foresta di segni. La negazione postmodernista di ogni ipotesi di realtà obiettiva ha anche rialimentato l’incessante controversia sulla questione dell’incerta autenticità delle immagini fotografiche e sulla natura di virtuale ante litteram di questo medium tra i media.
Non è più possibile, infatti, considerare la fotografia come un medium che, in solitaria, lavora alla costruzione di un’idea (figurata) del mondo. Essa è progressivamente divenuta una delle tante estensioni umane oggi disponibili e, come tale, è dinamicamente implicata in un sinergico rapporto di interdipendenza con l’auratico complesso dei media attuali.
La neoauraticità dei media contemporanei presenta, però, non poche incognite riguardo ai rischi relativi ad una rappresentazione distorta della “realtà”.
La volontà di rianalizzare criticamente il processo informativo mediatico insieme alla convinzione che la fotografia è, in ogni caso, una vera e propria costruzione concettuale e non un mero riverbero del reale sono alcuni degli elementi che hanno stimolato la ricerca di autori come Joan Fontcuberta (1955).  L’autore catalano, attraverso memorabili “finzioni” figurative, nate dalla manipolazione intenzionale di determinati (s)oggetti originari, ha tentato di sottolineare come l’equivocità delle immagini fotografiche si alimenti ulteriormente nel momento del trasferimento da un contesto informativo all’altro. E’ nel delicatissimo – e spesso impercettibile – passaggio di una falsificazione verso un differente ambito di fruizione che può essere identificato uno dei pericoli maggiori insiti in una fotografia. Minacce rese ancor più temibili proprio dal fatto che, di norma, questi processi simbolici non appaiono come tali proprio grazie alla loro (apparente) invisibilità.
La guaina auratica che abitualmente avvolge i media unita alla imprescindibile dipendenza e autoreferenzialità che essi stessi alimentano completano il quadro d’insieme.
In questa prospettiva,  al di là della veridicità del soggetto e dei luoghi o “nonluoghi” reali o immaginari costantemente proposti dai media, occorre riflettere sul diverso orizzonte nel quale, concretamene, si colloca la fotografia. Non è più possibile considerarla come un qualcosa di isolato chiuso nella sua Storia ma, piuttosto – in una prospettiva più ampia che consideri l’intera storia delle comunicazioni di massa, per un verso, e quella dell’arte, dall’altro – uno strategico medium intermedio.

La fotografia è un medium isolato?ultima modifica: 2007-03-22T17:30:00+01:00da
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