Fotografia, comunicazione, media e società

Volti della fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea (recensione)

Volti della fotografia

di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
08/07/2005

Nel mese di aprile 2005 è stata pubblicata l’interessante raccolta intitolata “Volti della Fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea“. Il volume (283 pagg.) raccoglie trenta intensi saggi dedicati alla fotografia realizzati negli ultimi vent’anni da Roberta Valtorta, una figura di rilievo della scena critica di settore che, certamente, non ha bisogno di particolari presentazioni. Il testo, la cui lettura è peraltro molto gradevole, propone una selezione di analisi critiche che l’autrice ha rivolto ai diversi “volti” del medium fotografico tentando di indagare, a più riprese, le differenti identità che nel tempo ha assunto questo popolare e pervasivo strumento di espressione divenuto, recentemente, finanche un mezzo difficile da analizzare sotto il profilo teorico sia in ambito comunicazionale sia riguardo alle sue relazioni con la sfera artistica.

Il percorso della fotografia verso uno sviluppo autonomo e il suo progressivo consolidarsi nell’ambito della dimensione culturale contemporanea è, come in altri casi, costellato da diverse ed importanti tappe. Fra queste, sicuramente fondamentale, è stata quella delle cosiddette avanguardie storiche emblematicamente precedute – volendo tentare di integrare le già interessanti riflessioni dell’autrice – dalla significativa esperienza maturata grazie alle prime sperimentazioni sulla rappresentazione del movimento. Questi esperimenti, in particolare la cronofotografia, e prima ancora la stereografia e le cartes de visite, simboleggiarono un importante momento di transizione del mezzo anche riguardo all’emergere di talune problematiche, poi riprese dalle avanguardie, relative alla progressiva con-fusione dell’autore nei moderni processi produttivi di quella che sarebbe poi stata definita l’industria culturale. Un’evoluzione che comportò il progressivo distacco dalla dimensione artigianale dell’artista tradizionale, in particolare nell’ambito della cinematografia ma non solo, e il suo divenire nel tempo parte di un tutto più ampio e complesso, e, per tale ragione, anche sottosistema tra gli altri. Con le avanguardie, secondo l’autrice, assunse inoltre un rilievo sempre maggiore la difficile e irrisolta relazione dell’immagine fotografica con il contesto reale di riferimento, ponendo le basi per una graduale dissoluzione della visione fotografica degli albori caratterizzata da un diffuso, quanto ingenuo, alone di pseudo-scientificità. La crisi delle possibilità rappresentative del medium, capace ormai di contaminare anche la classica idea bressoniana del “momento decisivo”, culmina negli anni Settanta del Novecento con il riutilizzo della fotografia da parte degli artisti in una prospettiva che, piuttosto che esclusivamente narrativa, diventa sovente “concettuale”. I decenni successivi vedranno poi l’ulteriore consolidamento dell’importanza e del ruolo svolto dalla fotografia in coincidenza, peraltro, con l’emergere di un nuovo fronte critico connesso con l’affermazione crescente della dimensione digitale a cui è legata anche la comparsa di nuove forme espressive dell’immaginario visuale.
Il libro è diviso in tre ampie sezioni intitolate: Trasformazioni storiche e teoriche, Complessità del paesaggio e Questioni italiane.
La prima parte delle analisi è dedicata ad alcune questioni centrali del mezzo a partire dagli  indirizzi emersi grazie all’opera delle avanguardie sino all’avvento della digitalizzazione, soffermandosi sulla metamorfosi inerente proprio l’idea stessa di fotografia.
Significativo, in tal senso, è già il primo saggio proposto nel volume dedicato alla “nuova visione” postulata nel 1925 da Laszló Moholy-Nagy nel suo celebre “Malerei, Photographie, Film” uno dei libri della collana pubblicata dalla altrettanto nota scuola statale del Bauhaus. In questo scritto, a proposito dell’eterna disputa sull’artisticità o meno della fotografia, l’autrice, citando lo stesso Nagy, chiarisce innanzi tutto che: “La vecchia contesa fra artisti e fotografi per decidere se la fotografia è un’arte, è un falso problema”. L’analisi critica, secondo lo sguardo moholy-nagyano, deve orientarsi, piuttosto, verso la riflessione sulle nuove possibilità espressive emerse sul fronte della “creazione visiva” offerta da questa estensione fisica e tecnologica figlia della rivoluzione industriale. Di questa imprescindibile relazione della fotografia con gli “apparati” tecnologici che la caratterizzano offre poi un’altra interessante lettura il successivo testo critico, dedicato all’analisi di quella idea filosofica flusseriana che definisce la fotografia, in linea con il pensiero di Moholy-Nagy, “una delle forme espressive dei tempi nostri”; una diffusa forma espressiva che, secondo una famosa definizione, sarebbe emersa come una vera e propria “necessità storica”. Interessante in questo saggio è, inoltre, un’altra celebre contrapposizione tra la dimensione meccanica del mezzo sottolineata dalla critica benjaminiana con l’espressione di “inconscio ottico” e quella comunicativa dell'”inconscio tecnologico” di Franco Vaccari.
Le riflessioni dell’autrice, in questa prima parte del libro, si concentrano poi sull’analisi dell’incerta relazione che intercorre tra il mondo “reale” e ciascuna rappresentazione per immagini; rapporto  che culmina proprio nel più realistico dei mezzi espressivi: la fotografia appunto, con tutto il portato simulatorio di questa postmoderna “arte mentale”, un tempo indiscusso specchio della realtà, divenuto ora luogo della finzione per eccellenza. Su questa scia, in seguito, l’autrice sottolinea poi come la tradizionale funzione narrativa “realistica” del mezzo, in particolare attraverso la forma classica del reportage, ha gradualmente fatto posto ad una costruzione simbolica nuova. Questa si esprime attraverso forme metaforiche ed altri “segni importanti”, concorrendo alla definitiva dissoluzione di quella idea di verosimile tanto diffusa nelle prime manifestazioni espressive dello strumento fotografico. In questa dimensione, la tendenza a spettacolarizzare ogni manifestazione umana potrebbe essere posta in relazione con l’esigenza di reagire al rumore di fondo caratteristico della postmodernità contemporanea, capace, sostanzialmente, di influenzare ogni essere umano. In un simile scenario rischia di smarrirsi, plausibilmente, anche la vera sostanza della nostra Storia, coinvolta nel vortice di un indistinto e diffuso relativismo.
Il discorso sull’ambiguità di fondo della fotografia viene ripreso nuovamente in un altro saggio del 2000 emblematicamente intitolato Finzione più finzione dove, partendo dalla constatazione che l’alone positivista di realismo tipico dei primi passi del mezzo fotografico è risultato ancora forte e vivo anche durante il secolo scorso, l’autrice osserva come la speculazione teorica più recente si sia riorientata verso l’idea di “traccia” piuttosto che verso quella di “icona”. In questo percorso, il concetto di “traccia” è prevalso anche rispetto a forme di codificazione linguistiche astratte arbitrariamente dalla situazione originaria (e reale) di riferimento. In tale contesto assume ancor più rilievo, di conseguenza, la contrapposizione tra l’azione dello strumento tecnologico e le “intenzioni” originarie dell’autore stesso. Autore che, sempre più spesso, risulta peraltro dedito alla creazione di forme di rappresentazione caratterizzate da un grado “finzione” elevatissima, come nel caso di figure di spicco quali Joel-Peter Witkin, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Andrés Serrano. Tendenza verso la finzione che non ha risparmiato nessun ambito dell’espressione fotografica, compreso quei generi “classici”, quali il reportage, ove non è infrequente rilevare la presenza di pose o trucchi, quantunque questi non siano specificatamente finalizzati alla menzogna,  bensì ad una resa più incisiva delle immagini prodotte. Quale che sia l’ambito d’utilizzo delle opere realizzate, questa propensione verso la costruzione artificiale ha trovato, ovviamente, un terreno particolarmente fertile nello sviluppo della dimensione digitale. Ambito che ha favorito l’emergere progressivo di una vera e propria di forma di “realismo tecnologico e virtuale”, di realtà altra, altrettanto (apparentemente) “realistica” e, al tempo stesso, tanto più dubbia sotto il profilo della “verosimiglianza”. Cade definitivamente, quindi, quel “è stato”, il noema fondamentale della fotografia immaginato da Roland Barthes nella sua ultima ed emblematica La camera chiara, opera pubblicata nel  1980, l’anno della sua morte.
Nell’era digitale quel che l’immagine veicola può, in effetti, anche “non essere mai stato“.
La seconda parte del volume, dedicata alla Complessità del paesaggio, tenta un’articolata riflessione sulle relazioni intrattenute dalla fotografia con le rilevanti trasformazioni subite dal territorio nella fase di transizione “dall’industria alla fase postindustriale”. Ricorrente, perciò, è l’attenzione ai riflessi di alcune delle più note campagne di rilevazione fotografica commissionate da istituzioni pubbliche sia a livello nazionale che internazionale.
L’analisi si apre con una significativa riflessione dedicata al parallelismo tra l’età del medium fotografico e quella degli Stati Uniti; una relazione tanto importante, secondo l’autrice, da farle affermare che la fotografia potrebbe essere definita, insieme alla cinematografia, “una delle arti americane”.
Il discorso sul parallelismo tra fotografia e U.S.A. viene ulteriormente integrato in altri passaggi successivi con quello altrettanto rilevante sull’influenza di autori d’oltre oceano, come è stato riguardo al fondamentale contributo offerto da Walker Evans nel corso della storica campagna di rilevamento fotografico realizzata, dopo la crisi del ’29, dalla Farm Security Admnistration statunitense nell’ambito dei programmi del New Deal rooseveltiano.
L’analisi contenuta in questa sezione dedica poi spazio, a più riprese, anche all’esperienza della DATAR (Délégation à l’Aménagement du Territoire et à l’Action Régionale) curata dal Ministero per la pianificazione e l’organizzazione del territorio che ha avuto luogo, in Francia, a metà degli anni Ottanta del Novecento alla quale ha partecipato anche un autore italiano: Gabriele Basilico.
Altrettanta attenzione è stata dedicata alle nutrite campagne fotografiche – che hanno visto la partecipazione di 58 fotografi e la realizzazione di circa 8000 immagini – compiute nell’ambito del progetto l’Archivio dello spazio promosso dalla Provincia di Milano tra il 1987 e il 1997: “Una sorta di testamento della fotografia italiana di fine secolo”, sottolinea l’autrice.
La fotografia di paesaggio, anche attraverso la “prova” offerta da queste rilevanti testimonianze, sembra aver riacquistato una nuova centralità nell’universo espressivo del mezzo, assumendo valori certamente differenti dalla classica visione del Grand Tour ereditato dalla consuetudine pittorica. Il suo tradizionale status di “documento” poi, già reso flessibile dal tempo trascorso dagli albori di questa “invenzione meravigliosa”, tende ad evolversi in “esperienza” e in atto “estetico” dove la realtà viene vissuta anche per quel che è, ovvero, e prima di tutto, come un’eterogenea totalità. In questa prospettiva l’autore non si limita a fruire passivamente di ciò che vede, bensì svolge una vera e propria azione demiurgica sul contesto, “organizzando” simbolicamente l’immagine. Una funzione resa ancor più emblematica dall’arrivo del digitale che, spezzando definitivamente ogni possibile relazione con l’eventuale soggetto originario ha chiuso, e per sempre, la questione relativa alla schiacciante referenzialità dell’oggetto fotografico.
Parallelamente il corpo umano, inteso esso stesso come paesaggio, ha registrato una significativa crescita di interesse, in particolare negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, anche attraverso l’opera di autori, oltre a quelli già citati (Serrano, Sherman, ecc.), quali Nan Goldin, Aziz e Cucher, Nancy Burson, Orlan, Rineke Dijkstra. Il loro ambito d’azione è quello del postumano, un’atmosfera esistenziale ove il corpo è adattabile a qualsiasi mutazione, oltrepassando i confini tradizionali del pensiero e la storia stessa dell’uomo di oggi e di domani. La progressiva dissoluzione, anche in quest’altra sfera espressiva del mezzo fotografico, della necessità di legare sempre la ricerca ad un senso determinato, cedendo il posto alla dimensione esperienziale soggettiva, apre a gesti che non sono limitati al solo ambito visuale ma interessano l’insieme sensoriale del protagonista in una cornice nella quale, interagendo, l’individuo stesso è parte del tutto e, quindi, della multiforme “realtà”.
Tra le varietà del reale che il medium tenta di isolare e, nel contempo, di estetizzare troviamo certamente le merci. La costante spettacolarizzazione dei prodotti più svariati, collegata con l’incessante invito al consumo inteso come indispensabile atto di vita, invade ormai ogni frazione del nostro quotidiano. Come conseguenza di queste nuove modalità esistenziali l’essere umano, non sempre con piena consapevolezza, vive sbilanciato in una perenne oscillazione tra la dimensione naturale e quella culturale.
Il paesaggio stesso, in verità, non è mai naturale, bensì “costruito” in ogni fotografia.
Si replica, anche in questo campo, la tendenza generalizzata ad una “messa in posa del mondo”, alla realizzazione di una vera e propria fiction.
L’ultima frazione del testo, intitolata Questioni italiane, cerca, attraverso alcuni studi sulla fotografia italiana del secolo scorso, di indagare meglio il nostro difficile contesto culturale. Lo fa analizzando alcune peculiari tappe storiche, quali quelle del fenomeno delle avanguardie e quella della nascita del fotogiornalismo, e dedicando spazio anche a particolari speculazioni teoriche, al tema dell’inesistente “collocazione istituzionale” del medium, al contributo femminile, all’influsso della fotografia straniera e all’idea di fotografia espressa da diversi intellettuali.
La sezione prende il via con alcune riflessioni inerenti l’evoluzione della fotografia, ormai divenuta entità interstiziale, ovunque presente in innumerevoli e cangianti forme espressive. Dimensione contemporanea distante, almeno temporalmente, da quella aurea del Pittorialismo, che caratterizzò il periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Ma già allora la relazione con il reale rappresentava, a seconda dei casi, un elemento a favore o a sfavore della fotografia. In proposito, risulta interessante l’inserimento del punto di vista di Benedetto Croce riguardo all’impossibilità di escludere il fattore naturale dalla fotografia. Elemento questo che rappresenta, secondo l’idealismo crociano, la sua differenza rispetto all’arte incline, invece, a far emergere – per lo meno parzialmente – la sola “illuminazione” dell’autore, il suo modo di vedere e sentire il mondo.
L’ostinata persistenza del “referente”, avrebbe aggiunto Barthes, è, di fatto, la vera dimensione della fotografia, da lui definita, non senza alimentare critiche, un “messaggio senza codice”.
Uno storico tentativo italiano di uscire da questa situazione di stallo si concretizzò nell’emergere del Fotodinamismo, inteso come ideale evoluzione del pensiero pittorialista.
Sarà percorrendo altri sentieri che la fotografia tenterà, in seguito, di consolidare una propria visione autonoma ed obiettiva della realtà, emancipandosi definitivamente dall’asservimento alla pittura. Il fotogiornalismo, persino in talune sue forme singolari (si pensi, ad esempio, al fenomeno dei cosiddetti “paparazzi”), rappresenterà una delle risposte storiche a questa sentita esigenza di obiettività del mezzo fotografico.
Dell’esperienza nostrana l’autrice fornisce nel testo un ampio resoconto che, tra l’altro, sottolinea – analogamente a quanto potrebbe affermarsi, con i dovuti distinguo, riferendosi al medium televisivo – la sostanziale funzione di lingua franca attribuibile all’immagine in un contesto nazionale caratterizzato, in particolare nel secondo dopoguerra, da un elevato tasso di analfabetismo.
Nell’illustrazione della vicenda italiana della fotografia viene posto l’accento anche sullo storico ritardo culturale di una nazione mai realmente unificata, con tutto il suo portato di frammentarietà e precarietà che la costringe a registrare, oltre ad altro, anche “l’assenza di un sistematico insegnamento della fotografia nel paese”. Eppure è lo stesso stato che ha visto emergere due figure di spicco nel panorama internazionale di settore quali, tra le tante, quelle di Ugo Mulas con le sue Verifiche e di Luigi Ghirri con la sua intensa idea dell’immagine “totale”. Ed è lo stesso territorio che ha visto svilupparsi le analisi semiotiche di Umberto Eco, l’opera emblematica di Franco Vaccari e la raffinata ricerca di autori come Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Mario Cresci, Vittore Fossati, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Francesco Radino, Fulvio Ventura, e, sebbene sia meno agganciato al discorso sul paesaggio, Roberto Salbitani, un singolare “narratore degli enigmi della solitudine urbana [e] della natura”.
Non mancano poi alcuni incisivi frammenti autoriflessivi ove l’autrice accenna al ruolo della critica italiana – ed anche al suo, immaginiamo – come ad una compagine senza un pensiero guida e priva, quindi, di un indirizzo specifico che ha saputo comunque offrire un contributo, a tratti, anche acuto, sebbene sovente solo espositivo o semplicemente promozionale. In proposito, l’autrice sottolinea anche che spesso, analogamente a quanto accade pure altrove, talune speculazioni teoriche di rilievo siano nate in ambiti non sempre propriamente interni alla fotografia, pur realizzando apporti dotati di un notevole peso specifico. Ne sono una testimonianza i diversi contributi presentati nel testo, tra i quali, quelli relativi alla visione crociana, alla correlazione tra inconscio tecnologico e inconscio ottico di Vaccari e Benjamin, al fotodinamismo di A. G. Bragaglia, al discorso sull’aberrazione fotografica di Ponti, all’analisi semiotica di Dorfles, alla parzialità della visione fotografica indicata da Argan, all’ipotesi linguistica di Menna, alla ricerca di Ghirri verso la conoscenza dell’identità umana, all’analisi dei segni di Eco, alla funzione demiurgica della fotografia di Cacciari e così via.
Sempre nella sezione inerente le Questioni italiane, l’autrice segnala inoltre l’attenzione verso la fotografia della Regione Emilia Romagna che, per prima in Italia, ha ospitato (a Modena, nel 1979) un convegno nazionale riguardante la natura di bene culturale della fotografia. Tra le diverse iniziative segnalate, è significativo che in quella stessa regione, presso il D.A.M.S. della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, sia nato negli anni Settanta del Novecento uno dei corsi di studio universitario dedicato alla storia e alla tecnica del mezzo fotografico.
Chiude questo intenso volume un saggio dedicato al contributo femminile alla fotografia italiana. Il testo, scritto in occasione della partecipazione ad un convegno organizzato nel 2001 dall’Associazione L’occhio e l’idea, contiene, oltre a diversi altri spunti interessanti, questa chiarificatrice affermazione riassuntiva: “Caratteristica della donna è stata molto a lungo quella di passare «dalla cronaca all’eternità senza storia»”.
Volti della fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea (recensione)ultima modifica: 2007-03-22T17:35:00+01:00da
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