Fotografia, comunicazione, media e società

Fotografia e Postfotografia

Mutazioni di un medium nell’era della sua molteplicità
di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
01/12/2005

E’ possibile delineare un’eventuale linea di confine tra la fotografia e la post-fotografia? E quali potrebbero essere i possibili scenari di questa dimensione simbolica? Tenteremo di rispondere a questi quesiti ricollegandoci, in particolare, alle discussioni sviluppatesi nel corso di alcune giornate di studio promosse dal Museo di Fotografia Contemporanea e a talune riflessioni della storica americana Mary Warner Marien e del fotografo e critico spagnolo Joan Fontcuberta. Le riflessioni sull’oggi e sul domani della fotografia, la sua potenziale contemporaneità, la sua possibile perdita di identità e mutazione in qualcos’altro sono state alcune delle questioni emerse nel corso di tre interessanti momenti di studio e di confronto organizzati e proposti al pubblico, tra il 2001 e il 2004, dal Museo di Fotografia Contemporanea nato lo scorso anno a Cinisello Balsamo (Mi). Parallelamente allo svolgimento di questi seminari sono stati raccolti, inoltre, diversi contributi di altri esperti, direttori di musei, curatori e teorici della fotografia. Da questo insieme composito, al quale comunque rinviamo per un’ulteriore lettura (cfr. bibliografia), sono stati estratti due scritti realizzati da Hubertus von Amelunxen e Elio Grazioli dedicati, in particolare, a riflessioni concernenti la c.d. post-fotografia.
Preliminarmente, occorre però sottolineare come la fotografia riviva attualmente un nuovo periodo di interesse che, così come la videro protagonista della riflessione relativa alla sua collocazione nella dimensione massmediatica degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la pongono oggi al centro del dibattito inerente la sfera artistica.
Un risveglio di interessi che, tuttavia, non deve far dimenticare, come ci ricorda Roberta Valtorta (Responsabile della Direzione Scientifica del Museo di Fotografia Contemporanea) quanto aveva sottolineato il fotografo e critico Franco Vaccari riguardo a questa ritrovata fase di visibilità della fotografia. Il pensiero di questo autore è in linea, peraltro, con le riflessioni fatte negli anni Venti e Trenta del Novecento da Laszló Moholy-Nagy e Walter Benjamin riguardo al fenomeno di ripresa di vitalità di certi media proprio nel corso di una loro fase di parziale dismissione. Vaccari, ci rammenta difatti, con un’interessante espressione figurata, come anche le stelle prima di dissolversi completamente producano, esplodendo, un ultimo accecante bagliore. Analogamente, secondo quest’analisi, la fotografia non digitale sta avendo un ultimo ed improvviso guizzo prima di collassare definitivamente. Questo scatto di energia, conseguentemente, la vede protagonista di un ritrovato interesse che, purtroppo, appare sostanzialmente riconducibile soltanto all’approssimarsi della sua scomparsa e non ad altro. La ritrovata visibilità delle immagini fotografiche “tradizionali”, aggiunge Valtorta, contrasta dunque con la graduale dissoluzione del medium all’interno di un sistema ove esso tende ad amalgamarsi progressivamente e a scomparire a poco a poco come entità a sé stante. La dimensione simbolica nella quale questo processo si sviluppa include, peraltro, il ricorso sempre più massiccio ad un elevato grado di costruzione delle rappresentazioni visuali e, quindi, ad un annichilimento della realtà a favore del suo opposto: la finzione.
In questa evoluzione gioca un ruolo non secondario il mercato che, con la sua stretta talora mortale, tenta ovviamente di ampliare costantemente il suo dominio sui “significati”.
E uno sguardo anche agli esiti delle rilevanti mutazioni tecnologiche sino ad ora intervenute, secondo Hubertus von Amelunxen (docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali presso la Graduate School di Saas-Fee, Svizzera), potrebbe perciò risultare utile ai fini di un’eventuale rilettura complessiva della funzione della fotografia.
Non è in discussione soltanto la possibile sparizione di una certa fotografia né, tantomeno, il plausibile avvento della cosiddetta post-fotografia, bensì un ulteriore riposizionamento delle idee di fronte alla concreta eventualità di nuove prospettive per il mezzo. La storia della fotografia, del resto, ci ha già abituato a continui mutamenti, non ultimo quello particolarmente significativo relativo al suo peculiare riutilizzo nell’ambito del fenomeno delle Avanguardie. Da allora la fotografia ha progressivamente cambiato anche la stessa storia dell’arte assumendosi, nel contempo, anche l’onere di dover eventualmente sopportare le stesse routine delle comuni opere d’arte, non escluso il rischio di perire ammuffita negli scaffali impolverati di qualche archivio di museo.
La mutazione tecnologica che ha investito anche la fotografia ha creato, peraltro, una sorta di spartiacque tra la sua versione analogica e quella digitale. Quest’ultima, legata come è ai processi di trasposizione numerica delle variazioni luminose registrate dai sensori fotosensibili degli apparecchi digitali, ha offerto, rispetto alle prime immagini della storia della fotografia, nuovi ed ancora in parte inesplorati orizzonti espressivi, specialmente nell’ambito della post-produzione. Si è attuata quell’evoluzione della fase di montaggio che Eisentein definiva: “estensione del momentaneo”. Non che agli albori della fotografia non vi fosse mai stata la possibilità di manipolare le immagini, tutt’altro, oggi però questa opportunità risulta estremamente amplificata e diffusa. Tutta la storia della “invenzione meravigliosa”, è noto, è costellata di un’infinità di “documenti” contraffatti.
Sulla base di questo scenario di fondo, la dimensione digitale impone uno sguardo verso la storia del mezzo dall’angolazione del qui ed ora.
In questa diversa prospettiva, le immagini non analogiche divengono tangibili grazie a prassi surreali, emergendo dalla contemporaneità asincrona dei luoghi virtuali caratteristici dell’era della digitalizzazione. La primordiale essenza analogica è, ormai, un vago e lontano ricordo; siamo, di fatto, di fronte a qualcosa di differente da una normale evoluzione tecnologica.
Il reale, ad esempio, nello pseudo-ambiente creato da queste rappresentazioni visuali figlie degli apparati tecnologici e della loro correlata cultura informatica, anziché apparirci prossimo sembra allontanarsi sempre di più.
In effetti, in questa differente dimensione simbolica, l’immagine, analogamente a quanto avviene per un qualsiasi object trouvée, è sovente la somma di una serie di prelievi operati da (s)oggetti che – una volta disgiunti da un determinato ambito spazio-temporale originario – vengono poi ricomposti in un altrove talvolta anche solo virtuale, quale potrebbe essere il comune video di un qualunque personal computer.
In presenza di queste forme visive possono così delinearsi, ancor più facilmente che in passato, pericolose insidie per l’osservatore, vere e proprie trappole visuali costruite sulla possibile alterazione della verità veicolata da una qualsivoglia immagine. Di fronte ad una di queste eventuali contraffazioni, purtroppo, non ci sono sempre molti strumenti di difesa né, tantomeno, sembra altrettanto facile poter individuare e punire il presunto falsario originario.
Questa sfera espressiva ha radicalmente rimesso in discussione, ove ancora se ne avvertiva la necessità, il paradigma della fotografia tradizionale intesa quale “specchio” della realtà. L’impianto ontologico stesso della raffigurazione fotografica è stato sconvolto irrimediabilmente perfino nella sua essenza di base.
L’evoluzione del medium non ha risparmiato neanche l’ipotesi di indicalità dell’immagine fotografica rispetto al suo possibile referente originario, così come era stata ipotizzata dalla teoria peirceiana. Davanti ad una fotografia, o meglio al cospetto degli sparsi frammenti di cui spesso essa è oggi composta lo spettatore vive sovente la desolante condizione della vittima inerme di fronte ad un torto subito. Siamo dinnanzi a forme di “infedeltà” che, in precedenza, erano senz’altro mitigate dalla stringente relazione indicale con il reale caratteristica delle fotografie predigitali; “connessione” che ha favorito il delinearsi di quell’idea mitica della fotografia meglio nota come “immagine della nostra storia”.
Su questo sostrato si è anche consolidata la dimensione del cosiddetto “homo photographicus“.
L’avvento dell’era digitale ha avuto, quindi, l’effetto di rendere più evidente la distanza che ormai ci separa da un patrimonio culturale – peraltro tuttora ancora diffusamente radicato – inerente la presunta “realisticità” della fotografia.
In ambito artistico, le sempre più ampie possibilità creative offerte dagli sviluppi dei prodotti informatici, sembrano ricollegarsi alle riflessioni benjaminiane relative al riutilizzo della fotografia – in particolare per ciò che concerne la ridetta fase di post-produzione – per fini prevalentemente creativi piuttosto che “politici”, oltre che “fisionomici e scientifici”. Occorre quindi chiedersi se, quale riflesso dello sviluppo tecnologico, non si stia ridelineando una forma di estetizzazione della fotografia e se, insieme a questa, non possano anche emergere nuove modalità di rappresentazione visiva, ancorché contrassegnate da un plausibile “determinismo tecnico”. In ogni caso, quale che sia l’esito di quest’evoluzione si configura evidentemente una inevitabile relazione critica tra la fotografia tradizionale e quella figlia dell’informatica.
Non assisteremo, peraltro, ad una scomparsa totale del vecchio medium perché sconfitto dal nuovo, analogamente a quanto sappiamo sia già accaduto in passato nei momenti di transizione tra vecchi e nuovi media. I diversi mezzi, più o meno gradualmente e tra inevitabili riposizionamenti, troveranno piuttosto una loro collocazione ideale (magari trascurabile) all’interno delle diverse diete mediali del pubblico. In questa fase di trasformazione si consoliderà ulteriormente quella sfera multimediale nella quale il PC, ovviamente, continuerà a rappresentare uno degli snodi strategici per la distribuzione e lo sviluppo di nuovi prodotti e contenuti.
La digitalizzazione, conseguentemente, intreccerà un rapporto sempre più stretto con la dimensione della memoria sia singola sia collettiva, con conseguenze probabilmente ancora non del tutto ben tangibili al momento. Pensando a questa ineluttabile quanto “incredibile revisione”, sembra confermarsi ulteriormente la possibile dissoluzione di tutto quell’insieme di legami con il reale che la fotografia “tradizionale” sembrava in precedenza poterci garantire; “contatti” che, con l’avvento del digitale, paiono ora poter essere agilmente rimpiazzati da relazioni puramente arbitrarie e, pertanto, astruse dalla realtà. La riflessione su questa mutazione riguarderà anche gli effetti che essa potrà avere nei confronti del nostro universo psichico e sull’eventualità che ci si trovi di fronte, come ben sottolinea Derrida, a logiche assolutamente differenti rispetto al passato ove, ad esempio, le idee di tempo e spazio non saranno più quelle di un tempo.
Non è ancora chiaro, inoltre, quali potrebbero essere gli effetti di questa trasposizione numerica della realtà per una cultura, quale è quella occidentale, sostanzialmente incline alle correlazioni analogiche con il reale ispirate dai canoni pittorici. Precetti che, per mezzo del processo fotografico ed in particolare attraverso la riproducibilità praticamente illimitata consentita dal procedimento negativo/positivo prima e dalla digitalizzazione dei dati poi, hanno condotto il mondo verso nuove forme di rappresentazione degli avvenimenti, dalla circostanza spicciola al grande evento. Una raffigurazione del mondo e, insieme, una ridefinizione della memoria fondate sulla selezione di specifiche frazioni del tempo contingente. Di queste la fotografia sembra tuttora in grado di offrirci un’immagine apparentemente vicina alla realtà delle cose, sebbene le sue rappresentazioni oscillino perennemente tra la dimensione mimetica e quella del simulacro, ambiti differentemente definiti, in relazione allo stadio e/o agli effetti, come: “idea (eidos)”, “copia (eidolon)”, “copia della copia (phantasma)”, immagine (eikon) o somiglianza”, “illusione (simulacro)”. Si tratta, in ogni caso, di espressioni poste generalmente a livelli successivi rispetto alle astrazioni originarie e, quindi, di manifestazioni generalmente di tipo secondario. Tra queste, il simulacro è una di quelle immagini che, più di altre, è stata sovente oggetto di analisi, come nel caso del processo di attribuzione di significato correlato con l’appartenenza ad un modello (Baudrillard) capace di assommare in sé l’eventuale soggetto originario così come la sua rappresentazione successiva.
Non è irrilevante, al riguardo, la questione relativa alla contraddittoria contaminazione generata dalla selva di segni che oggi affollano l’universo visuale nel quale viviamo; una mescolanza di segnali sovente ambigua riguardo all’effettiva realtà cui pare di volta in volta fare riferimento.
A queste considerazioni se n’aggiungono altre (Deleuze) nelle quali si sottolinea che, benché il simulacro veicoli una sommaria verosimiglianza, esso è sostanzialmente fondato su una “differenza” che lo distingue sia dall’originale sia da una sua eventuale copia. Da ambedue esso è comunque distaccato e, pertanto, il suo essere talora verosimile non deve indurre a confonderlo né con una possibile manifestazione del reale vero e proprio (Barthes) né con supposte convenzioni alle quali, piuttosto, si opporrebbe. Esso è solo un’apparenza fantasmatica che non è possibile ricondurre automaticamente ad un’ipotetica entità originaria od un suo eventuale referente.
Analogamente la fotografia digitale, data la sua natura numerica, non è agevolmente riconducibile al soggetto originario, non ultimo per la mole di elementi visuali suscettibili di eventuali e talora infinite rielaborazioni. Il nostro modo di “vedere” queste immagini richiede, pertanto, un nuovo e più adeguato impianto interpretativo capace di considerare che, sebbene la fotografia continui ad essere tuttora estesamente accettata per quel che sembrerebbe rappresentare, non riuscirà più ad identificarsi tanto facilmente come la semplice trasposizione di una data contingenza.
La fotografia analogo-numerica, dunque, è più che mai disgiunta dalla sua genesi.
Dati questi presupposti, la “fotografia dopo la fotografia” non potrà mai più migrare tanto comodamente nella nostra memoria. Essa è priva di quelle impronte che, seppure distinte dal mondo reale, ci apparivano come la sua sostanziale rappresentazione. Ora un’immagine può forse più facilmente evocare dimensioni alternative al reale, ma anche queste non potranno non fare riferimento al bagaglio visuale di verosimiglianze che si è consolidato progressivamente con l’affermarsi nel tempo della fotografia “tradizionale”.
In questo momento contingente è necessario, inoltre, relativizzare lo stesso termine “reale” (Flusser), tenendo conto che esso è, di fatto, un insieme composito di frazioni talvolta talmente impercettibili da indurre che quanto più alta è la concentrazione di questi elementi tanto più è probabile che ci si possa trovare vicini ad un ambito reale e, viceversa, ad una sfera virtuale nel caso opposto.
Potremmo poi aggiungere che, se la fotografia analogica ci aveva abituato alla rimozione del tempo della ripresa e alla sua trasposizione in un momento successivo (Benjamin), quella analogo-numerica assomma anche il potenziale distacco tra il tempo precedente e quello successivo.
L’ombra delle cose potrebbe anche non essere mai più perpetuata, semmai, se serve, ricreata.
E, sebbene si possa tuttora continuare a pensare che qualcosa ci sia davvero stato davanti alla fotocamera, che esista ancora una relazione indicale fra l’immagine e ciò che “è stato” (Barthes) di cui essa sarebbe il referente, la loro interpretazione fa emergere comunque delle perplessità. La celebre formula barthesiana, alimentata da queste incertezze, potrebbe dunque mutare in un emblematico “forse non è stato“, con tutto quello che, ovviamente, ne deriva.
Questa instabilità, privando gli individui di indispensabili punti di riferimento, turba non poco gli animi, ormai sempre più spesso spersi negli spazi delle proprie esistenze.
E per integrare l’analisi delle peculiarità della post-fotografia è inoltre possibile aggiungere, sulla scorta delle riflessioni di Elio Grazioli (docente, storico e critico della fotografia), anche alcune altre considerazioni attinenti la sfera dell’esperienza duchampiana e, più precisamente, quella del ready-made. Della sua dimensione rivoluzionaria può essere esplorato un’ulteriore aspetto distintivo poco studiato, ovvero quello relativo alla presunta differenziazione “ultrasottile” del ready-made. L’essenza dell’ultrasottile duchampiano vivrebbe nelle pieghe di qualsiasi esperienza terrena e potrebbe essere rilevato, ad esempio: nella mescolanza degli odori veicolati da una scia di fumo, nello strofinio di un pantalone di velluto a coste, nell’incavo di un foglio di carta e così via. Nel soggetto della selezione duchampiana l’ultrasottile è rilevabile nel diverso “sguardo” che, inevitabilmente, è poi rivolto all’oggetto. Esso è, inoltre, anche la cifra distintiva dell’incertezza sulla “oggettualità” di quel qualcosa al quale ci troviamo di fronte. Si tratta di uno “scarto” che, per quanto minimo, ci conduce altrove, verso un diverso ambiente mentale ove si delineano nuove modalità d’utilizzo delle cose, talvolta semplicemente accomunate insieme dall’autore dell’opera senza che si avverta più la necessità, come avveniva in passato, che costui risulti anche il loro creatore materiale.
Sempre in tema di ready-made, le stesse immagini che accompagnano, di norma, un testo, in effetti non sono gli originali, bensì delle “copie” che hanno subito e probabilmente potranno subire ancora altre rielaborazioni prima delle eventuali fruizioni future. Siamo di fronte, a ben vedere, ad un vero proprio ready-made delle immagini originarie che concentra in sé diversi aspetti, tra i quali: l’idea di affrancamento del medium dalla sua peculiarità, la dimensione tecnica del mezzo e una dimostrazione delle sue modalità espressive.
Il ready-made insito nella fotografia di una fotografia ci segnala inoltre che, di là da l’apparente assenza di discordanze tra le due raffigurazioni, la seconda immagine è, prima di tutto, una riproduzione della prima. Questa è, di fatto, un duplice ready-made fotografico, costruito su una fotografia che è già essa stessa un “prelievo” operato dal soggetto originario, di cui è anche una vera e propria “citazione assoluta”.
Ciò detto, è forse ancora presto per tentare di fare un bilancio definitivo relativamente alle possibili correlazioni tra la post-fotografia e queste nuove dimensioni intellettuali.
La prospettiva del “post” è anche ricollegabile alla più ampia questione della supplenza del reale implicita in ogni immagine, al suo essere un plausibile simulacro di un mondo sempre più spesso rappresentato proprio dalle sue riproduzioni virtuali. Copie che, per quanto possano apparire talvolta molto verosimili, sono pur sempre qualcosa di differente dall’originale e, comunque, un altrove psichico e materiale.
Il “post” è inoltre da porre in relazione, oltre che con la dimensione della “copia”, soprattutto con la sfera della costruzione simulacrale implicita nella creazione del doppio, nella finzione caratteristica di una postmodernità che, non di rado, cerca di cogliere e congelare l’essenza di una circostanza attraverso vere e proprie costruzioni sceniche; sceneggiature che, beninteso, potrebbero non essere necessariamente motivate da intenti mistificatori. Si tratta comunque di messe in scena che, magari attraverso l’ausilio di uno studio fotografico, tentano una verosimigliante ricostruzione della realtà con ambienti e soggetti del tutto reali.
La post-fotografia diviene così uno dei veicoli ideali attraverso cui le peculiarità stesse della vita possono essere rappresentate nella fotografia. Esempi emblematici di tale tipo di (post-)fotografia sono visibili più o meno ovunque, per chiunque, nella produzione autoriale così come nell’ambito pubblicitario.
Produzioni che tentano di comunicare usando più o meno audacemente tutta una serie di mezzi espressivi un tempo banditi da una determinata fotografia – di tipo tradizionale o legata al professionismo – quali il “fuori fuoco”, tagli apparentemente fortuiti ed altro ancora.
La differenza che emerge tra la post-fotografia e la fotografia, per esile che possa sembrare, impone, dunque, uno sguardo diverso dal passato che metta in conto anche nuove forme di classificazione delle immagini  e del ribaltamento teorico che esse veicolano.
Fra gli aspetti emblematici di queste particolari forme espressive emerge, tra gli altri, la tendenza ad una maggior valorizzazione di tutte quelle immagini che più si accostano ad espressioni figurate della vita piuttosto che, all’opposto, verso una rappresentazione dell’esistente che si adatti invece alla fotografia. Tale propensione narrativa è stata anche definita “glamour“. Si tratta di una ripresa della narrazione ribaltata in una chiave tendenzialmente non metaforica – ove possa emergere quella dimensione “ultrasottile” di cui si è già detto in precedenza – che anteponga, ad una narrazione intesa quale traslato della fotografia, un “glamour” che la conquisti e che la renda ancor più simile all’esistenza, spogliandola, al tempo stesso, di talune sue specificità e di una certa inclinazione autoreferenziale.
L’arrivo delle immagini digitali, oltre al resto, arricchirà la storia del medium, secondo quanto sottolinea la storica americana Mary Warner Marien, anche delle conseguenze della sistematica dissoluzione – per mano della stessa fotografia – delle rappresentazioni fotografiche non numeriche. In realtà, non si tratterà di una vera e propria scomparsa, bensì di un’estrema e durevole trasformazione, analogamente a quanto avvenne per la fotografia in b/n all’epoca dell’arrivo del colore e, ancor prima, alla pittura nel momento dell’avvento del mezzo fotografico.
Tale evoluzione è, secondo il pensiero del fotografo e critico spagnolo Joan Fontcuberta ripreso da Warner Marien, anche il frutto della nostra progressiva dipendenza dall’estensione tecnologica e culturale condensata nel computer. Non è però il semplice passaggio dai granuli d’argento ai pixel l’elemento fondamentale. Da un punto di vista meramente materiale, le stampe fotografiche digitali non possono non essere considerate un altrettanto valido surrogato delle precedenti immagini analogiche. Sono interessanti, piuttosto, gli effetti di questa evoluzione sul processo di rielaborazione della realtà operato da ciascuna fotografia. Oltre che sul procedimento, occorrerebbe quindi riflettere sul rimaneggiamento simbolico insito in ogni immagine, benché questo non significhi che esse sono tutte sistematicamente contraffatte con intenti mistificatori, per quanto possano anche essere talora molto distanti dalla realtà apparente. Il processo non è, dunque, l’unico aspetto di rilievo, essendo stato possibile sin dagli albori della fotografia alterare più o meno profondamente il contenuto visuale di un’immagine e, conseguentemente, adulterarne il relativo significato. L’arrivo del computer, quindi, ha reso soltanto più facili simili operazioni, come ben dimostra il mondo del fotogiornalismo. In quell’ambito, molte immagini analogo-numeriche vengono sovente rielaborate per offrire, ad esempio, un’impressione più intensa di realtà, contribuendo così, come altri media, anche ad accentuare gli effetti della dissoluzione dell’esperienza diretta del reale di ciascun individuo.
Anche per tali ragioni, la rappresentazione della realtà diviene sempre più spesso la visione, ovvero la ricostruzione proposta da media che si sostengono finanche su formule paradigmatiche quali “vedere [é] credere”, ove il vero e la finzione convivono pericolosamente vicini, aspirando entrambi a divenire pilastri di un ipotetico reale.
Indicativa sintesi delle riflessioni riguardanti questa peculiare dimensione rappresentativa è l’emblematica espressione coniata da Joan Fontcuberta: “vero-falso“.

Fotografia e Postfotografiaultima modifica: 2007-03-23T08:40:00+01:00da
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