Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia come arte (inter)media

L’idea di “art moyen” per un medium ambiguo e alla portata di tutti
di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
13/10/2005

Esiste una dimensione mediana della fotografia? Quali sono gli ambiti nei quali questa medianità emerge? Ha un ruolo di fronte a eventuali posizioni di incaglio ideologico? Nel testo che segue, sulla scorta delle riflessioni di Claudio Marra, si tenterà di dare una risposta a questi primi interrogativi inerenti l’idea della fotografia come “arte media”.
Nella sua densa antologia del 2001 intitolata Le idee della fotografia, Claudio Marra ci ricorda, citando Marshall McLuhan, che la fotografia è uno dei media di maggior impatto nella nostra esistenza quotidiana. Essa è divenuta, infatti, una delle “estensioni” tecnologiche attraverso le quali l’individualità di ciascuno, sempre più spesso, veicola significati interagendo simbolicamente sia con sé stessa sia con quella degli altri. La fotografia, con la sua presenza interstiziale, è da tempo uno di quegli strategici tool dei processi di interazione umana che, sfidando ogni previsione di estinzione, sembra invece aver ritrovato nuova vitalità grazie agli impulsi derivanti dal suo impiego nell’ambito di mezzi pervasivi quali la telefonia mobile e la rete.
La popolarità e la diffusione del medium fotografico avevano trovato un importante momento di teorizzazione con Pierre Bourdieu che, già nel 1965, elaborò l’idea di fotografia quale “art moyen“, un concetto contenuto all’interno dell’omonima raccolta di saggi realizzata con la collaborazione di altri due studiosi.
“Arte media”, dunque, sebbene questa espressione possa dar luogo, almeno a prima vista, a qualche plausibile equivoco. Considerata, quindi, la possibilità di interpretazioni differenti sia del sostantivo che dell’aggettivo, sulla scorta dell’analisi di Marra, tentiamo di aggiungere qualche ulteriore elemento interpretativo a questa fondamentale quanto ambigua formulazione.
Per quel che concerne il sostantivo art, nell’ottica di Bourdieu, questo va riferito al significato espresso dal termine latino ars inteso nel senso derivante dalla parola greca techne, vocabolo indicante l’idoneità a svolgere determinate attività grazie al possesso di discrete conoscenze e capacità. Non si tratta, però, del concetto classico di arte, espressione di una produzione di grande livello e preziosità caratteristica di pochi “eletti”, bensì di qualcosa di diverso, sebbene non vada confuso con l’idea di un semplice “saper fare” tecnico. Pensiero questo che, in effetti, è comunemente condiviso riguardo al mezzo fotografico.
L’aggettivo “moyen“, dal canto suo, non presenta meno problemi, proprio in virtù del fatto che, come acutamente rileva Marra seguendo il pensiero di Bordieu, nello strumento fotografico coesisterebbero diverse dimensioni della medianità, riferibili, per citarne qualcuna, alla dimensione delle fotografie di famiglia, delle immagini pubblicitarie, del fotogiornalismo. Nonostante questo, tale concetto non può essere genericamente inteso, e per nessuna ragione, nel senso di mediocrità. Se così fosse, si continuerebbero ad alimentare logore diatribe relative all’eventuale “parità”, o meno, tra pittura e fotografia. La controversia, come molti sapranno, coinvolse anche Charles Baudelaire che, nel suo Il pubblico moderno e la fotografia del 1859, non risparmiò le sue aspre critiche alla nuova invenzione e a quei “pittori falliti” – i fotografi, appunto – che si erano arricchiti grazie alla “follia” di una “società immonda” volta a procurarsi quel sospirato ritratto prima privilegio solo di una ristretta élite. Questo desiderio non risparmiò, a dire il vero, neanche lo stesso poeta francese che si fece ritrarre più volte anche dai leggendari Louis-Jacques-Mandé Daguerre e Gaspar-Félix Tournachon detto Nadar. La critica di Baudelaire ruotava, essenzialmente, intorno a tre punti sostanziali. Primo: la fotografia non è un’arte perché “copia” la realtà; l’arte è sempre negazione della naturalità. Secondo: la fotografia è il rifugio di quei pittori senza inclinazione di cui si è già detto, privi, perciò, di quelle abilità superiori necessarie, invece, all’arte vera. Terzo: la fotografia è figlia della rivoluzione industriale e l’arte, nuovamente, non dovrebbe avere nulla a che fare con l’industria. Quest’ultimo punto apre, oltre al resto, nuove ed interessanti prospettive di analisi sul fronte della eventuale confusione dell’autore contemporaneo nei moderni processi produttivi dell’industria o, secondo altri punti di vista, delle industrie culturali.
Tornando, tuttavia, al discorso sulla medianità, è possibile constatare come ancora oggi, anche a causa dei riflessi derivanti dalle critiche del poeta francese, la fotografia debba convivere spesso con un’idea di mediocrità che, ormai, sembra essergli proprio incollata addosso. Un problema questo che, in qualche caso, ha forse alimentato anche l’emergere di soluzioni equivoche che hanno dato vita alla formulazione di definizioni dubbie e discutibili quali quella di “arte applicata”, una specie di arte a metà di livello inferiore all’arte maggiore e ad essa comunque inequiparabile. Classificazioni, queste, che plausibilmente risentono ancora di quel clima critico e reazionario nel quale emersero anche gli aspri giudizi di Charles Baudelaire.
L’atmosfera avversa di quel periodo cambiò decisamente in seguito con l’avvento delle cosiddette Avanguardie storiche. Queste preferirono puntare, piuttosto che sulle non comuni qualità manuali dell’autore-artista, proprio su taluni automatismi caratteristici delle “macchine” se non, addirittura, sulla esibizione diretta del reale, come nel caso dei noti ready-made duchampiani.
Per varie ragioni, dunque, l’uso del termine “mediano” non è finalizzato a definire la qualità del mezzo, bensì la sua collocazione logistica, saldamente situata nel mezzo di altri strumenti e livelli di interscambio simbolico.
Moyen“, nell’ottica di Bourdieu, non deve essere dunque assolutamente confuso con “mediocre”, benché questa distinzione non porti alla definizione automatica di uno “statuto” certo e ben definito per il medium, costringendolo, al contrario, a vagare in una specie di limbo privo di certezze. Questa tendenza all’assenza di norme ben definite, con la perenne oscillazione su qualsiasi un territorio di confine – un processo comune, peraltro, anche al campo dell’arte – non è, comunque, un fattore del tutto negativo, potendo risultare persino un elemento positivo; e di ciò occorrerà essere sempre più consapevoli, innanzitutto per le favorevoli implicazioni che ne potrebbero derivare.
La fotografia, forte della sua indeterminatezza e facendo attivamente leva sulla sua presunta “medianità”, è stata pertanto protagonista di tutto un processo di metamorfosi che ha determinato una tendenziale “s-definizione dell’arte” stimolando, viceversa, una diffusa “artisticizzazione della vita”. La relativa facilità d’uso della fotografia è divenuta, conseguentemente, uno dei motori delle espressioni concettuali dell’arte contemporanea, anche anticipandone generalmente l’evoluzione.
In quella che era, in definitiva, soltanto la “sorella povera” della pittura è risultata coesistere, di fatto, una concreta forma d’espressione concettuale ante litteram.
Dei riflessi di questa arte mediana sono intrisi tutti quei campi extra-artistici che vanno dalle comuni pratiche d’uso utilitaristico della fotografia all’utilizzo in contesti professionali, quali i ridetti fotogiornalismo e pubblicità. Questi confini, ovviamente, sono sovente labili e, per tale ragione, soggetti a cambiamenti talvolta radicali, in grado di determinare il riutilizzo di un’immagine di reportage anche in ambito artistico. La convivenza di una dimensione estetica all’interno di una fotografia – oltre ai caratteristici elementi pratico-funzionali – può favorire, peraltro, la propensione alla mistificazione caratteristica di ogni immagine. La medianità della fotografia può inoltre emergere, come si è detto, proprio nell’ambito pubblicitario e sempre a causa della coabitazione nella rappresentazione visuale di elementi estetici miscelati – in una costante fluttuazione interdipendente – a quelli più concretamente utilitaristici.
La crescente presenza di immagini di moda, pubblicitarie e giornalistiche all’interno di spazi espositivi tradizionalmente orientati alla proposta di opere d’arte è un’ulteriore ed evidente dimostrazione della natura mediana ed ambigua della fotografia.
Tra gli usi mediani più diffusi del mezzo fotografico un posto di rilievo va sicuramente assegnato anche alla già citata fotografia di famiglia, sia per la sua diffusione sia per le ovvie ripercussioni della stessa a vari livelli (simbolico, culturale, commerciale, tecnologico, ecc.). Ciascun individuo, in effetti, se ne può avvalere tanto per favorire l’evoluzione del proprio immaginario quanto per correlarsi con tutto un complesso ambito di legami a lui esterni. La somma dei  singoli comportamenti di ogni “consumatore”, ovviamente, ha dei riflessi anche sulle politiche industriali inerenti la produzione di apparacchiature, materiali e, conseguentemente, sugli apparati distributivi. Nella pratica sociale della fotografia di famiglia, per di più, potrebbe persino essere individuato una specie di modello concettuale della fotografia nel suo insieme, capace di condensare in sé molte delle caratteristiche del mezzo: traccia, documento, memoria, norma (sociale), relazione (interpersonale), ecc..
Oltre l’ambito “familiare”, un altro campo di espressione della medianità del mezzo fotografico è quello relativo all’area linguistica ove, con opportuni adattamenti, il medium oscilla, a seconda dei casi, tra i livelli della pratica comune e quella dell’arte. Il primo vicino ad una concezione della fotografia quale specchio della realtà; il secondo, all’opposto, rappresenta una propensione verso la realizzazione di immagini completamente avulse dal reale ove, dal ruolo di referente (denotazione) del vero, si passa invece ad un livello di effettiva artificialità (connotazione). Da un punto di vista comunicativo si passerebbe, quindi, da una dimensione di assenza di linguaggio ad un vero e proprio codice linguistico. Occorre inoltre aggiungere che, se si contempla la fotografia in una prospettiva di completa specularità rispetto alla frazione di reale ripreso, non si potrebbe proprio parlare di un sistema di simboli dato che questo sussiste solo nel caso in cui vi è una “trasformazione” linguistica, ovvero culturale della realtà originaria. Ecco, dunque, che il soccorso offerto dall’ipotesi di medianità della fotografia risulta strategico anche in questo caso, se non altro per superare un inesorabile stato di stallo teorico.
In proposito è utile ricordare, infine, che l’emergere della dimensione digitale ha portato non poca acqua al mulino di quanti risultavano propensi ad accreditare un’idea della fotografia che, anziché l’evidente replica del reale, fosse in effetti un oggetto essenzialmente linguistico. Le vivaci dispute al riguardo, lungi dal condurre ad una soluzione definitiva, sembrano tuttora confermare proprio la costante oscillazione del mezzo fotografico tra le diverse dimensioni esaminate. Questo esito non significa certo che la fotografia, stretta tra i vari fronti, sia una sorta di linguaggio a metà che non riesce a divenire – come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto – né un codice vero e proprio né, all’opposto, la sua concreta negazione. In quest’atmosfera di potenziale inerzia speculativa la dimensione mediana della fotografia risulta essere capace, piuttosto, di rimettere in discussione ogni eventuale posizione estrema proprio grazie alla sua peculiare essenza (inter)media.

La fotografia come arte (inter)mediaultima modifica: 2007-03-23T08:35:00+01:00da
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