Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia come camera chiara (recensione)

Un’analisi sulle relazioni tra il medium e il campo immaginario
di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
Roma, 01/03/2006

Nel suo saggio recentemente pubblicato dal Museo di Fotografia Contemporanea, Sergio Giusti analizza il probabile nuovo statuto della fotografia alla luce delle problematiche che l’evoluzione verso il digitale, in particolare sul fronte teorico, ha indubitabilmente introdotto. L’analisi dell’autore, investendo sull’idea di “campo immaginario”, riprende la discussione sulla natura di indice delle immagini fotografiche addentrandosi nella questione della virtualità, da sempre immanente nell’atto fotografico stesso, e sui possibili riflessi per la rappresentazione di una realtà che, non essendo mai uscita completamente di scena, si ripresenta ora sotto altre vesti.
La creazione del Museo di Fotografia Contemporanea (cfr.: www.museofotografiacontempora nea.org) ha portato con sé anche la nascita di un premio dedicato allo storico e critico della fotografia Paolo Costantini – studioso noto a livello internazionale per i suoi contributi sul fronte dell’analisi storica e critica – prematuramente scomparso nel 1997. La giuria istituita presso il Museo – ove, sino al 12/3/2006, sarà anche possibile visitare la mostra dedicata alle immagini realizzate dalla fotografa tedesca Candida Höfer (cfr., su “Il Sole 24 Ore” del 5/2/2006, p. 42 anche l’interessante articolo di Anna Detheridge dedicato all’esposizione) – per la prima edizione del Premio Paolo Costantini per la Saggistica sulla Fotografia era composta da: Pierangelo Cavanna, storico della fotografia, docente di Storia della fotografia all’Università degli Studi di Torino; Elio Grazioli, critico d’arte contemporanea, consulente editoriale per Bruno Mondadori Editore; Marina Miraglia, storica della fotografia, già responsabile delle collezioni fotografiche dell’Istituto Nazionale della Grafica; Roberto Signorini, studioso di fotografia; Roberta Valtorta, storica e critica della fotografia, direttore scientifico del Museo di Fotografia Contemporanea. Il premio è stato assegnato al saggio intitolato “La caverna chiara. Fotografia e campo immaginario ai tempi della tecnologia digitale“, scritto dallo studioso Sergio Giusti e pubblicato come Quaderno di Villa Ghirlanda n. 4. I giurati hanno anche segnalato i testi presentati da Lorenzo Jucker, dal titolo “Bernd e Hilla Becher. La fotografia documentaria come sogno collettivo”, e da Francesco Zanot, con il titolo “Il momento anticipato. Meyerowitz/Misrach“.
Il testo di Sergio Giusti, come precisa Roberta Valtorta nella prefazione, è stato apprezzato per gli aspetti qualitativi relativi alla metodologia adottata, per la coesione della discussione affrontata, per la densità speculativa e, non ultima, per la persistenza sulla tematica affrontata.
La direttrice scientifica del Museo sottolinea, inoltre, che lo sviluppo anche in Italia di contributi specificatamente teorici dedicati alla fotografia sono indicativi, anche in relazione alla fase di transizione dall’analogico al digitale, del momento particolarmente favorevole che la riflessione sull’espressione fotografica sta vivendo in questo periodo. Meccanismi propulsori di tale processo di crescita d’interesse sono certamente stati l’aumento dello studio della fotografia anche nelle sedi universitarie, lo sviluppo del livello di conoscenza internazionale sul suo utilizzo come mezzo espressivo, il diverso credito ora riscosso dalle opere fotografiche in ambito artistico e, insieme, il rilievo che ha assunto sul fronte dei beni culturali.
Questo, dunque, il favorevole sostrato culturale dal quale emerge la riflessione di Giusti il quale alla speculazione teorica, della quale ci occuperemo tentando di evidenziarne alcuni tratti salienti, unisce anche la pratica di fotografo.
Lo studio di Giusti si rivela interessante sin dal titolo, creato riferendosi alle celebri figure di Platone e Roland Barthes e alle altrettanto note riflessioni della “caverna” per il primo e della “camera chiara” per il secondo. Tracciando un ideale percorso che unisca entrambi, l’autore coinvolge nelle proprie riflessioni anche altre importanti figure, quali: Charles Sanders Peirce, Philippe Dubois, Rosalind Krauss e, non ultimo, Jacques Lacan.
Tre sono le macroaree all’interno delle quali, se si esclude una piccola annotazione finale, si muove l’analisi dell’autore. Esse sono, in sintesi: un discorso sulla complessa dimensione del virtuale, la riapertura del dibattito sullo statuto di indice della fotografia e un discorso sulle possibili diversità o affinità tra l’atto fotografico tout court e quello digitale ove, peraltro, verrà sottolineata l’irruzione del “campo immaginario”.
In relazione a questo ultimo aspetto, è interessante rilevare con Giusti, e come vedremo ancora in seguito, che la realtà, apparentemente defenestrata dalle nuove tecnologie, tenda poi a rientrare dalla porta principale sotto una nuova veste, ma non per questo meno desiderata.
Riguardo alla prima area l’autore sottolinea, innanzitutto, che i processi di virtualizzazione esistono da sempre, per lo meno da quando esistono gli uomini. Pensando a Pierre Levy, Giusti annota come essa non sia soltanto una trasformazione in un differente ambito plausibile, bensì un vero e proprio cambio di specificità, un diverso nucleo di gravità ontologico rispetto all’oggetto cui si fa riferimento. La virtualizzazione si presenta, piuttosto che come semplice dissoluzione della realtà, come un opposto dell’attualizzazione, quel processo attraverso il quale l’oggetto, invece che trovare valore in una diversa sfera problematica, trova sostanzialmente la sua essenza nella sua apparente attualità. Ai fini del discorso di Levy, in ogni caso, i diversi termini (attuale, reale, virtuale) non sono mai segnati da differenti livelli qualitativi di valutazione, essendo tutti contemplati come possibili modalità dell’essere. Il virtuale, come tale, non può essere quindi posto a priori  in relazione esclusivamente con l’illusione o la falsità, bensì, e per tutta una serie di considerazioni, con una insopprimibile “pulsione di realtà”, sostenuta anche dal ricorso all’immaginazione.
Ma l’immaginazione, ci ricorda Giusti, è per Platone una delle forme di conoscenza meno elevata – trattandosi di un ambito inerente “copie di copie” – rispetto alla dialettica che si basa, invece, sulla razionalità del linguaggio (orale). Per le immagini questo comporta, inevitabilmente, una declassificazione del loro valore. Fu la Chiesa, precisa poi l’autore, con la scelta politica fatta durante il Concilio di Nicea (VIII secolo d.C.) di apertura alle immagini, a decretare la completa riammissione delle icone. La Chiesa, potremmo aggiungere, sostenne infatti i cosiddetti iconoduli contro quella parte di suoi stessi seguaci, noti come iconoclasti, contrari all’uso delle immagini perché considerate veicolo di lusinga pagana. Le dispute tra le due fazioni, che avevano portato finanche all’accecamento di molti monaci iconoduli, traevano sostegno anche dall’esigenza – non propriamente di carattere estetico o religioso in realtà – di recuperare le sostanziose ricchezze tesaurizzate sui supporti di metallo prezioso (monete, gioielli, ecc.) sui quali erano impresse le icone oggetto di condanna. E benché il sostegno all’egemonia delle immagini fosse accompagnato dalla raccomandazione che esse fossero da considerarsi come una mera imitazione e, pertanto, dette raffigurazioni dovevano essere oggetto di venerazione soltanto per i simboli che veicolavano, questa valorizzazione, annota Giusti, ha di fatto ribaltato a favore della percezione sensoriale il primato precedentemente attribuito alla dialettica. Il ribaltamento di valori che questo cambio di rotta a generato nella cultura occidentale, fa si che ora domini la sensazione che nelle immagini si celi una potenza immane e che tale forza – fosse anche una semplice suggestione – sia da preferire alla forza insita nella parola, se non altro per la sua immediatezza. Non è inverosimile ipotizzare, prosegue quindi Giusti, che tale ordine di idee abbia prodotto dei riflessi anche nelle riflessioni postmoderniste. Tra queste, quelle baudrillardiane hanno immaginato il nostro tempo come dominato dalla supremazia del simulacro che, essendo un’immagine di “terza potenza” che non ha alcun rapporto di intermediazione con la realtà, è ormai soltanto pura virtualità.
A questo apparente riemergere di una nuova stagione iconoclasta, sembra poter offrire un’alternativa la sola referenza fotografica, quale tenace difesa del reale contro l’evanescenza della virtualità.
La battaglia tra la parola e l’immagine, anche nell’era postmoderna non sembra comunque essersi mai conclusa. Anche di fronte alla lyotardiana fine delle “grandi narrazioni” non pare essersi ancora del tutto dissolta l’importanza del pensiero nel confronto dialettico con le immagini. Né, tanto meno, siamo d’innanzi alla completa scomparsa della realtà, emergendo, in ogni caso, una persistente tensione verso il reale.
L’immagine, anche sulla scorta dell’analisi lacaniana, conserva quindi la sua “funzione morfogena” e ogni imago si configura come un elemento peculiare per la speculazione psicanalitica. Da ciò deriverebbe, concorda Giusti, l’importanza del ruolo degli specchi, in particolare nelle prime fasi dell’infanzia, nella fase di approccio con l'”altro da sé”, quale è, appunto, il doppio prodotto da uno specchio. Il processo oggettivante della visione riflessa rappresenta, pertanto, un incrocio nodale nella costruzione dell’identità del soggetto che, riconoscendosi nella narcisistica finzione offertagli dalla “sua” immagine speculare, contribuisce alla formazione del proprio io attraverso questi primi contatti con la virtualità. La costruzione dell’io, sulla base di una sorta di alienazione illusoria, scaturirebbe perciò anche dalla percezione dell’immagine, praticamente un simulacro, dell’altro. Come conseguenza inevitabile, la rappresentazione offerta dallo specchio nella sua dimensione alienante – sebbene si possa trattare di una freudiana totalità immaginaria – consentirebbe all’essere di poter realizzare se stesso solo al di fuori di sé, ovvero, nel nostro caso, attraverso il medium (lo specchio, appunto) che la riflette.
Facendo riferimento al pensiero di Rosalind Krauss, Giusti aggiunge poi che le imago, per quel che concerne la dimensione antecedente il verbale – e l’accostamento con l’accennata tematica del “campo immaginario” – potrebbero inoltre essere poste a confronto con le immagini indiziali fotografiche, se non altro per la loro essenza di deittici, ovvero di segni che scollegati dai propri referenti appaiono privi di senso a livello verbale, dovendo limitarsi, come si dirà ancora in seguito, ad indicare semplicemente qualcosa. In questa sfera preverbale è la parola che, intervenendo, tenta di completare le lacune di significato avvertite senza tuttavia dissolvere del tutto quell’aura di enigmaticità che, comunque, connota ogni immagine. La didascalia, aggiungeremmo, assolve dunque ad un importante compito di orientamento interpretativo, sebbene possa talvolta indirizzare verso letture anche contrastanti rispetto ad altri “testi” volti all’interpretazione di una medesima immagine; ove per “testo” immaginiamo che si pensi, non tanto ad uno scritto in senso stretto, bensì ad un qualsiasi contenitore possibile di senso.
L’autore precisa poi che, nel processo di significazione, oltre all’immagine e alla dimensione simbolica, andrebbe identificata anche un’altra “realtà” (lacaniana), non sonora, che non riflette significati, resiste ad ogni significante e che coinciderebbe con la “Cosa” freudiana: mitico oggetto originario perduto, “l’oggetto ‘a’” dell’appagamento primordiale, successivamente rimosso. Ad essa, sotto la spinta di quella che Freud identifica come una “pulsione di morte”, ci ricondurrebbe l’oppressione verso la riproduzione di uno stesso atto, ancorché sgradevole.
Questa connessione tra la “Cosa” e la “pulsione di morte” rinvia, tra l’altro secondo Giusti, alla concezione della fotografia vicina a Roland Barthes (1915-1980) e alla sua idea di impronta del soggetto assente del quale, attraverso l’immagine, si tenta di preservarne la memoria.
L’enigmatica natura della fotografia è dunque connessa, oltre che alla dimensione del “campo immaginario” (di cui si dirà ancora in seguito), ad una realtà ormai irrimediabilmente dissolta cui ci lega soltanto l’eventuale interpretazione fornita da un qualunque significato correlato ad una raffigurazione.
Nell’immagine virtuale poi, aggiunge Giusti, il reale smarrito è doppio, facendo riferimento, oltre che alla già citata “Cosa” freudiana, alla scomparsa del referente stesso della rappresentazione.
La fotografia e il virtuale, apparterrebbero quindi alla dimensione del “campo immaginario” in quanto capaci di nutrirsi, al tempo stesso, della verosimiglianza con il mondo reale, così come di elementi fantasmagorici e allucinatori, proprio come in un immaginario gioco di rifrazioni dell’holmesiano “specchio dotato di memoria”.
Nella seconda parte del saggio, Giusti si è dedicato alla riflessione inerente i riflessi del digitale sullo “statuto indiziale” della fotografia. L’idea peirceiana di indice – inteso come segno che è in connessione (fisica) con il suo referente – rimanda immediatamente alla fotografia quale impronta chimica prodotta dall’azione della luce su un determinato supporto. La riflessione del semiologo americano comprendeva, oltre al segno-indice, anche l’analisi dell’icona – legata al referente per via della somiglianza con il soggetto rappresentato – e del simbolo con i suoi impieghi cultuali o culturali. Tra le diverse dimensioni, quella dell’indice è, plausibilmente, una delle più problematiche, anche in ragione del fatto che di fronte ad una fotografia scatta, immediata, quella relazione metonimica che ce la presenta come una traccia del mondo nel quale viviamo. In questa stretta connessione con il reale è insita la natura di indice dell’immagine fotografica che, altrimenti potrebbe essere invece vista come mera icona. Rifacendosi a Jean-Marie Schaeffer, l’autore aggiunge anche che, da un punto di vista pragmatico-concettuale, la fotografia – contenendo un potenziale intento semiotico – diviene un “segno naturale” che esprime la sua capacità comunicativa non tanto nella fase creativa quanto in quella interpretativa, ovvero nel corso della sua fruizione. E’ pensando a quello specifico frangente che Giusti, richiamando Roland Barthes, ci ricorda che la fotografia si configura come la “contingenza assoluta“. L’espressione è riconducibile all’appartenenza delle immagini fotografiche a quella tipologia di indici denominati deittici o commutatori. Questi segni, senza il sostegno di un referente – verso il quale un indice ci invita, di fatto, a guardare dicendoci semplicemente: “Lì” – non hanno alcun significato, sono praticamente vuoti. La fotografia, dunque, convalida il suo referente, ma come deittico non ci spiega nulla del loro senso, presentandosi come qualcosa di vuoto e ottuso. Collegandosi poi al discorso sul digitale, Giusti annota, innanzitutto, l’opportunità di una distinzione di questa sfera in due ambiti distinti: il primo legato a quelle immagini che utilizzano le nuove tecnologie semplicemente in alternativa ai mezzi tradizionali; il secondo – è il caso, ad esempio, dei “rendering” – relativo all’utilizzo degli strumenti informatici per la creazione di “immagini mediali completamente sintetiche”, ovvero rappresentazioni che non hanno più alcun contatto concreto con un contesto materiale. Concordando con William Mitchell, l’autore aggiunge poi che, nel primo caso, la problematicità dell’evoluzione al digitale si condensa essenzialmente intorno al ritenere o meno ancora opportuno pensare alla fotografia, ora strutturata attraverso la codificazione numerica, quel segnotraccia caratteristico della dimensione tradizionale ante-digitale, ove al posto dell'”insieme discreto di punti” attuale trovavamo, invece, “una rappresentazione analogica e quindi continua“. Conseguentemente, l’asse della riflessione si sposta su un piano linguistico – con tutte le cautele del caso, aggiungeremmo – dove potremmo trovarci di fronte a tracce di tipo analogico nei confronti delle quali la codificazione linguistica stenta, in realtà, ad inserirsi. In proposito, Giusti ricorda giustamente il noto paradosso di Barthes della fotografia intesa come “messaggio senza codice”, reso celebre, appunto, dalla contraddittoria compresenza dell’idea di messaggio che, in quanto tale, non può essere considerato avulso da un ipotetico sistema di codificazione, potendosi configurare, in caso contrario, come una manifestazione priva di qualsiasi legame con un codice qualsiasi.
(In proposito, e più in generale sulla questione delle relazioni della fotografia con l’ambito linguistico connesse con il passaggio al digitale, consiglieremmo anche l’interessante lettura delle considerazioni di Claudio Marra contenute nel testo del 2001 indicato in bibliografia.)
Riprendendo nuovamente la prospettiva delineata nel testo, proseguiamo rilevando con Giusti che la natura indicale della fotografia viene comunque dispersa dalla digitalizzazione, compromettendone ulteriormente la sua funzione di testimone del reale e trasformandola, piuttosto, in un soggetto incerto per quanto eventualmente somigliante alla realtà stessa. L’indice lascerebbe il posto, con effetti analoghi alla dissoluzione dell’aura determinata dall’avvento della fotografia, ad un’estetica del dubbio, tipica della postmodernità. In questa evoluzione, il linguaggio algoritmico delle immagini digitali, considerate le infinite possibilità di rielaborazione cui possono essere sottoposte le rappresentazioni visuali, ci conduce inevitabilmente verso uno scenario in cui non è più possibile ipotizzare, se non con estrema cautela, la presunta veridicità di un’immagine persino dinnanzi all’apparente e schiacciante verosimiglianza di una qualunque raffigurazione. Non è dunque più indicato un simile impianto concettuale, ormai inadeguato dinanzi alla fotografia dopo la fotografia, una fotografia decisamente sbilanciata verso l’ambito linguistico, così come la ipotizza Hubertus von Amelunxen, curatore del progetto Photography after Photography (cfr., sempre su Mediazone, il testo pubblicato nel dicembre 2005 con il titolo: “Fotografia e Post-fotografia. Mutazioni di un medium nell’era della sua molteplicità”).
Nello scenario postfotografico, non potendosi comunque immaginare una rottura definitiva tra le immagini analogiche e quelle digitali, si delinea piuttosto un diverso orizzonte basato su un approccio prudente verso la raffigurazione del reale, che avvicina concettualmente la fotografia alle forme di rappresentazione della realtà virtuale.
Rimane problematico, in ogni caso, il rapporto della fotografia con il reale.
Giusti, a titolo esemplificativo, ci propone anche l’interessante riflessione di Martha Rosler a proposito dell’utilizzo delle immagini fotografiche nell’ambito in cui esse sono considerate – sino a prova contraria, ovviamente – la testimonianza per eccellenza, ovvero la sfera giudiziaria. Anche in questo contesto, proprio perché la fotografia non è più considerata un semplice oggetto inattivo, durante la performance forense si attivano tutta una serie di elementi volti più che a dimostrare l’indiscutibilità del “documento” visuale, il suo essere capace di sostenere una plausibile ipotesi di base.
Tanti ancora sarebbero, tuttavia, i possibili esempi relativi a questa complessa dimensione della fotografia.
Può soccorrerci, secondo Giusti, quella che Guido Molinari ha chiamato l'”effetto realtà”. In questa prevedibile espressione si condenserebbe, dunque, l’esigenza fondamentale di ogni creatore di immagini fotografiche intento a generare – tramite i “suoi” prelievi di reale – quello che, ancor più appropriatamente, potrebbe essere definito come “effetto fotorealtà”.
Nella terza parte del testo, l’autore tenta infine di indagare, sulla scorta delle riflessioni di Philippe Dubois, l’atto fotografico digitale stesso.
Nell’immagine-atto occorre individuare, innanzitutto, quella che, pensando a Roland Barthes, Giusti chiama “pulsione alla metonimia”; stimolo che nella Camera chiara emerge attraverso l’attaccamento del semiologo francese alla fotografia dell’amata madre scomparsa; una tensione affettiva che, inevitabilmente, convive con quell’impulso verso la morte di cui si è già detto in precedenza. Ecco, dunque, che il mistero dell’onnipresente indicalità peirceiana della fotografia e il desiderio della “Cosa” perduta di lacaniana memoria di cui si è già detto precedentemente s’intrecciano in un unico oggetto che, nel caso del testo barthesiano, è la fotografia della madre nel giardino d’inverno; una fotografia della quale, aggiungeremmo, non vi è peraltro assolutamente alcuna traccia nel libro, rendendo il discorso che la riguarda ancor più interessante ed emblematico.
Arrivati a questo punto, Giusti si chiede poi se è ancora possibile fare riferimento al medesimo orizzonte teorico anche in presenza di immagini digitali assolutamente prive di un possibile referente. Al riguardo, l’autore precisa prima di tutto che di fronte a tale tipologia di rappresentazioni risulta tuttavia ancora possibile parlare – per quanto questo possa sembrare assurdo – di un’eventuale pulsione metonimica. Tale spinta è giustificata dal fatto che questa non è legata all’oggetto in sé, bensì alla fase di fruizione dell’immagine stessa la quale, con il suo portato di realtà continua a ricondurci al referente originario. Questo legame indicale, nondimeno, ci espone al rischio di vedere nella fotografia quella che, ricordando ancora Dubois, viene individuata come una manifestazione del referente, piuttosto che esso stesso. Si profilerebbe, in tal caso, una pericolosa tendenza alla mitizzazione della mimesis volta ad enfatizzare l’immedesimazione della fotografia con il soggetto ripreso. A tale pericolo occorrerebbe reagire spostando invece l’attenzione sui cosiddetti effetti d’assenza, considerati un elemento di correlazione tra l’ambito analogico e quello digitale del medium. Questi “effetti” sono, prima di tutto, una difesa contro l’insistente presenza del referente anche nel panorama digitale. Vi sono, poi, altri tre aspetti d’interesse al riguardo. Il primo è la dimensione di deittico delle immagini indicali che attesta delle presenze, piuttosto che svelare l’opacità del senso, come già detto precedentemente. Il secondo è quello riferito allo scatto come il frangente indicale più autentico della fotografia intesa come immagine-atto; prima e dopo di questo momento la presenza dei codici è certamente considerevole. Il terzo è connesso con lo scarto che intercorre tra il qui dell’immagine realizzata e il del referente (assente) cui la stessa è riconducibile. Nell’indicalità della fotografia – a differenza del ready-made che si nutre non di assenze, bensì di iperpresenze – non troveremo quindi mai un momento in cui ci sia una stretta aderenza tra il segno e il soggetto cui esso fa concretamente riferimento, non potendosi palesare altro nell’immagine che una contingenza ormai passata. E di passato, in effetti, si deve parlare persino nel caso del digitale sebbene questo, ancor più velocemente di una tradizionale polaroid, ci offra praticamente subito la raffigurazione della ripresa immediatamente prima effettuata.
Non si avrà comunque mai un hic et nunc, semmai un è stato.
In questo scarto è anche individuabile quella dimensione allucinatoria, fantasmatica che imparenta da sempre la fotografia con il mondo dei sogni e con quel campo immaginario del quale si è parlato in precedenza.
L’immersione nel campo del fantastico e dell’allucinazione è anche legata alla possibilità che la supposta diversità tra la dimensione analogica e quella digitale della fotografia si poggi, essenzialmente, sulla ipotizzata distanza dal referente individuabile in ciascuno di questi due media. In questa prospettiva, l’immagine digitale completamente artificiale – priva, pertanto, di qualsiasi collegamento diretto con un soggetto reale – potrebbe condensare il massimo della distanza da un possibile referente concreto rispetto alla fotografia analogica tradizionale.
L’immagine mediale, secondo Giusti, tenderebbe perciò verso un’indicalità estrema, prossima allo zero rinnovandone ulteriormente, nel contempo, la dimensione enigmatica, già caratteristica della fotografia predigitale.
Parlare, quindi, di deittico e di referente per questo tipo di immagini numeriche – che non hanno né un  da indicare, né un soggetto cui fare riferimento – è, effettivamente, una forzatura che non consente neanche, e paradossalmente, di definirle agevolmente dei segni senza un senso, proprio perché risultano prive anche di un referente qualsiasi. Eppure, nonostante il fatto che tutto ciò non possa non apparire irragionevole, queste immagini, in realtà, continuano ad “indicare” qualcosa, sebbene poi si tratti, in sostanza, di un riverbero dell’oggetto “a” , ovvero la nostalgia della lacaniana “Cosa” perduta di cui si è già detto.

La fotografia come camera chiara (recensione)ultima modifica: 2007-03-23T11:20:00+01:00da
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