Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia secondo Paul Valéry (recensione)

Le riflessioni del poeta francese sulla fotografia
di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
10/01/2006

Uno degli aspetti che ha caratterizzato l’avvento dell’immagine fotografica è certamente stato il cambio di visione legato alla plausibilità di poter congelare la “realtà” in una singola raffigurazione. Riuscire, inoltre, a condensare su di una superficie bidimensionale una paradossale rappresentazione del movimento ha dato vita, poi, ad una vera e propria rivoluzione visuale, soprattutto nel campo dell’arte. Sono questi alcuni degli elementi messi in risalto da Paul Valéry nel suo celebre discorso del 1939 dedicato alla “meravigliosa invenzione” del quale, qui di seguito, si segnalano alcune pagine significative.
Nel corso del 2005 si è avuta la riconferma del fatto che la fotografia, anche in questa particolare fase di transizione dall’analogico al digitale, riviva un periodo di diffuso e rinnovato interesse. Ne è una testimonianza di rilievo la pubblicazione, per la prima volta in italiano con testo francese a fronte, del celebre Discorso per il Centenario della fotografia tenuto da Paul-Ambroise Toussaint Valéry (1871-1945) alla Sorbona il 7 gennaio del 1939. Il libro, pubblicato nel 2005 dalla casa editrice napoletana Filema edizioni, con un ampio commento del curatore Raffaele Lucariello (al quale, comunque, si rinvia per una lettura più ampia), è stato realizzato grazie ad una ricerca sostenuta dall’Istituto Italiano di Studi Filosofici che, fra le sue fonti, comprende proprio lo stesso discorso pronunciato dal poeta francese e trascritto nel testo intitolato Centenaire de la photographie, stampato a Parigi, sempre nel 1939, dalla “Typographie de Firmin-Didot”.
Valéry, in qualità di delegato dell’Académie française fece un intervento celebrativo, dai toni solenni, tipici di un’occasione formale quale era appunto quella dedicata alla commemorazione del primo centenario della data ufficiale dell’invenzione della fotografia.
Le prime parole dell’accademico francese furono infatti dedicate alla celebrazione di una “invenzione tutta nazionale” e all’omaggio rivolto ai compatrioti che l’avevano concepita. L’attenzione al tema del nazionalismo che emerge nelle prime battute del discorso – e, come vedremo, anche in quelle conclusive – aveva visto come protagonista sin dagli albori dell’invenzione lo stesso governo francese che, avendo deciso di mettere a disposizione di tutti il nuovo procedimento, impose a Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1787-1851), in cambio di un assegno periodico e del riconoscimento ufficiale del primato dell’invenzione che darà onore e gloria alla sua nazione, tutta una serie di pubbliche dimostrazioni.
Le riflessioni di Valéry sul nuovo mezzo proseguirono poi toccando un altro tema importantissimo, di tutt’altra natura, ovvero quello relativo all’inedita rappresentazione del moto sulle superfici piane fotosensibili. L’utilizzo della fotografia aveva in effetti posto l’accento su tutti quegli errori interpretativi del movimento, consolidatisi nell’immaginario collettivo attraverso il disegno e la pittura, che ora il nuovo mezzo permetteva di verificare e, conseguentemente, correggere. L’analisi di Valéry, molto probabilmente, faceva riferimento al fatto che tale passaggio costituì, effettivamente, un vero e proprio choc nelle modalità di rappresentazione del moto presenti sino al momento in cui le immagini fotografiche – attraverso le istantanee, la fotografia tout court secondo l’opinione comune – non furono in grado di fissare lo spostamento dei corpi nello spazio. Cadde improvvisamente, da allora, un insieme di convenzioni incapace di resistere di fronte alla verosimiglianza e alla “scientificità” opposte dal nuovo mezzo visuale. A risentire di questa rivoluzione furono, in particolare, i disegni e le opere pittoriche: nessuna posa “dinamica” avrebbe più potuto essere ancora raffigurata senza tener conto del nuovo sguardo introdotto dalla fotografia. Il turbamento che questa nuova visione ingenerò fu, comunque, notevole, tanto irragionevoli sembravano essere le immagini fotografiche che riproducevano, ad esempio, gli spostamenti di persone o animali in movimento. Tutto, in sostanza, sembrò quantomeno assurdo, non rispondente alla realtà, come certe pose sghembe degli arti del corpo umano, la incredibile staticità delle ruote di un carro o (tutti) gli arti contemporaneamente sollevati dal suolo di un cavallo lanciato al galoppo. Quest’ultimo aspetto, potremmo aggiungere, fu addirittura oggetto di una scommessa ormai mitica anche perché collegata alla protocinematografia insita negli esperimenti di cronofotografia effettuati da Eadweard Muybridge (1830-1914) e ideati, appunto, per verificare se un destriero in corsa avesse o meno tutte le zampe sollevate dal terreno.
Prevalse comunque, superando il disagio iniziale connesso anche a valutazioni di carattere estetico, una prospettiva strumentale fondata sulle potenzialità “documentarie” del nuovo strumento visuale. Una testimonianza rappresentativa al riguardo fu certamente quella del fisico, letterato e fotografo dilettante statunitense Oliver Wendel Holmes (1809-1894) il quale sottolineò, ai fini della realizzazione di protesi migliori da destinare a coloro che avessero subito delle menomazioni nel corso di eventi bellici, l’incomparabile valore di questi “documenti” visivi. Cominciava così  a palesarsi un universo altrimenti inavvertibile – che si caratterizzerà proprio come una delle peculiarità del medium fotografico – lucidamente condensato da Walter Benjamin (1892-1940) nella celebre espressione di “inconscio ottico”.
A questo sostrato, non solo tecnologico, si sarebbe poi aggiunto, grazie alle riflessioni di Roland Barthes (1915-1980), anche la duplice dimensione dello “studium” e del “punctum” di ciascuna fotografia; uno strumento ormai imprescindibile nelle diete visuali delle società contemporanee, gradualmente assuefatte da ingenti consumi di immagini piuttosto che, come era in passato, di credenze.
Le potenzialità del nuovo mezzo potevano però, secondo Valéry, recare degli svantaggi alle “Lettere”, sminuendone in parte il valore anche attraverso la sostituzione ad esse delle immagini fotografiche. Il poeta, a questo proposito, esemplificava la cosa ricorrendo all’esempio dei ritratti in formato fototessera presenti sui documenti di riconoscimento. Anche la descrizione più accurata di un volto, sottolineava l’autore francese, non avrebbe mai potuto reggere il confronto con la “prova” compressa nella rappresentazione fotografica.
In questa linea di pensiero, peraltro, sembra delinearsi una connessione con quelle ipotesi teoriche che avrebbero poi sostenuto che accordare una preferenza al visuale, anziché alla scrittura, può essere indotto da possibili difficoltà nell’amministrazione della polisemia delle parole. Dare la priorità ad un “testo” visivo invece che scritto o parlato si baserebbe, inoltre, sulla capacità riassuntiva caratteristica di ciascuna immagine e, nel contempo, sull’ipotetica verifica di “presenze”, piuttosto che di “assenze”, ovvero sulla preferenza verso ciò che l’immagine riprodurrebbe (denotazione), anziché del suo eventuale significato (connotazione). Pare modellarsi, così, una sorta di tirannia del visuale della quale, tornando al discorso sulla fotografia, erano comunque ben evidenti le tracce già sul finire della prima metà del Novecento, tant’è che lo stesso Valéry sottolineava come la fotografia tendesse a far dissolvere l’atto del descrivere a favore, piuttosto, di qualcosa – l’immagine, appunto – che sembra potersi autonomamente “inscrivere” da sé. Questo fenomeno avrebbe determinato, in definitiva, una crescente “evizione” della parola dall’immagine, pur sollevandola in parte anche da taluni suoi difetti tipici: quali la semplicità e la ridondanza.
Tra le caratteristiche della parola gradualmente fagocitate dall’immagine sono state sottolineate, inoltre, anche la facoltà di mentire: un’attitudine praticata dalla fotografia persino con un certo grado di autocompiacimento. In ogni caso, anche secondo il poeta francese l’immagine tendeva a prevalere sulla scrittura, per lo meno in tutte quelle circostanze in cui essa poteva apparire autosufficiente, capace cioè di  esprimersi autonomamente – se non altro esteriormente – senza ricorrere cioè al sostegno offerto da altri media, tra i quali, ovviamente, potremmo indicare la parola scritta.
Per il resto, l’autore francese non ravvisava altri particolari elementi nocivi per le “Lettere” nella progressiva diffusione della fotografia.
Ne intravedeva, anzi, dei vantaggi legati ad un potenziale utilizzo del linguaggio letterario più adeguato alle sue peculiarità e, pertanto, concentrato su una “letteratura pura” piuttosto che su ambiti di espressione nei quali, probabilmente, altri strumenti – quali quelli visuali – riescono apparentemente meglio.
Analogo, per certi aspetti, fu anche il dibattito relativo al futuro della pittura dopo la nascita della fotografia.
L’espansione delle immagini fotografiche ha avuto, oltre al resto, altri importanti riflessi, a partire dal fatto che ha modificato i riferimenti della percezione e, conseguentemente, della cultura visiva di ognuno, introducendo nell’esistenza di ciascun individuo nuove necessità e consuetudini.
Si pensi, diceva Valéry, ad un avvenimento apparentemente banale quale potrebbe essere una cerimonia di nozze o un battesimo: non sarebbe stato praticamente più concepibile immaginare questi eventi privi di una “documentazione” fotografica. Il relativo proliferare degli album di famiglia è divenuto una testimonianza concreta del risalto progressivamente assunto dal mezzo fotografico e, volendo accennare anche al plausibile contenuto di molte immagini, un sostanziale insieme di indizi inerenti lo status dei soggetti eventualmente raffigurati.
Finanche sul fronte della comprensione degli eventi storici, secondo Valéry, si delineava gradualmente il peso del contributo offerto dalle immagini fotografiche, in particolare per ciò che concerne la  “lettura” di un avvenimento alla luce della presenza, o meno, di una fotografia che ad esso faccia riferimento; magari attraverso l’apporto determinante di un “demone fotoreporter”.
Ma, al di là dell’immagine, la sfera simbolica posta oltre gli aspetti tangibili attraverso la fotografia, apparterrebbe prevalentemente alla “letteratura“. In questa dimensione si combinerebbero, tra gli altri, i diversi elementi inerenti la decodificazione di tutto quell’universo di elementi afoni ed incorporei che, altrimenti, risulterebbero incomprensibili, perché impercettibili allo sguardo.
Riguardo alla veridicità delle fotografie, poi, divenne già allora evidente che non sarebbe stato più possibile avere un approccio ingenuo con esse, date le cautele che il nuovo mezzo via via imponeva, potendo non di rado essere anche veicolo di interpretazioni errate, se non di veri e propri intenti fraudolenti. Ciò nondimeno, il poeta francese sottolineava pure come la “prova” fotografica potesse tranquillamente competere persino con le dichiarazioni di eventuali (e magari numerosi) testimoni diretti di un accaduto qualsiasi; fosse anche il più fantasioso.
Questo argomentare, sottolineava Valéry, pare condurci verso una riflessione di tipo filosofico che, partendo da una prospettiva tendenzialmente realistica della fotografia, ne favorirebbe il consolidarsi – in tal senso – in un’ipotetica dimensione tout court della filosofia.
A questo genere di (insidiose) considerazioni egli non volle comunque sottrarsi, per lo meno non del tutto, tentando di contribuire con alcune sue personali speculazioni in tema quali, ad esempio, quella relativa all’eterna e critica questione dell’obiettività. In proposito, egli sottolineava come la possibilità dell’immagine di competere con le affermazioni degli spettatori diretti di un fatto traesse sostegno dal problema della selettività dell’osservazione soggettiva. La fotografia potrebbe quindi essere, benché ciò richieda ovviamente sempre molta prudenza nelle valutazioni, un potenziale intermediario oggettivo posto tra il soggetto originale e la sua eventuale interpretazione.
Questa ed altre possibili considerazioni riportano, sottolineava ancora il poeta francese, all’antica e paradigmatica rappresentazione della “caverna di Platone”.
Cosa ancora tratteggia, in fondo, quel celebre antro nella parete della nostra cultura?
Si tratta, evidentemente, di una raffigurazione simbolica che conserva tuttora delle chiare analogie con una comune “camera oscura” tradizionale, sebbene dia l’impressione di essere la maggiore mai concepita dall’inventiva umana. In effetti, se l’accesso alla grotta avesse potuto essere reso compatibile con l’apertura di un obiettivo ideale e completato con una superficie fotosensibile si sarebbe potuto realizzare proprio una colossale fotocamera. Sviluppando, dunque, quell’ipotetico film – in un’immaginaria dimensione ante-digitale, beninteso – chissà quali epiloghi avremmo mai potuto avere in relazione all’essenza del nostro sapere.
Un patrimonio di conoscenze al quale, riaffermava infine Valéry, hanno contribuito le diverse persone che con passione si sono cimentate con questa invenzione. A costoro, a ciò che il loro impegno ha permesso – anche sopportando un iniziale ma non indifferente “isolamento … [di] pensiero” – andrebbero dunque destinati apprezzamento e gloria.
Sentimenti che, in definitiva, sono nuovamente quelli di cui si è detto in apertura, ovvero quelli relativi alla celebrazione della natia patria francese.

La fotografia secondo Paul Valéry (recensione)ultima modifica: 2007-03-23T08:50:00+01:00da
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