Fotografia, comunicazione, media e società

“Verità” fotografiche

La perenne ambiguità della fotografia
di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
10/08/2006

A causa dell’elevata concentrazione simbolica che non di rado le caratterizza, le fotografie si prestano spesso ad un uso fraudolento, talvolta fondato anche su subdole motivazioni ideologiche di fondo. A queste ultime, in sostanza, fanno capo tutte quelle “dimostrazioni” artificiose – veicolate dalle immagini fotografiche – che si basano proprio sul fatto di anteporre nel pretestuoso preambolo visivo l’eventuale (reale) argomentazione finale.
Le fotografie, così come qualsiasi immagine, possono portare ad errate interpretazioni riguardo all’eventuale contesto reale di riferimento e divenire, anche inconsapevolmente, il canale privilegiato per veicolare un inganno. Un’eventualità insita nella tendenza, tipica di ogni immagine, a celare dietro un’esteriorità fittizia la rappresentazione di un qualcosa, a prescindere dal fatto che esso sia una verità oppure una falsità. A ciò occorre aggiungere che qualunque immagine tende sempre a scostarsi dal raffigurato in considerazione del fatto che, trattandosi di una rappresentazione, cioè di qualcosa di diverso dal soggetto originario, la relazione tra le due entità risentirà sempre ed inevitabilmente dello “scarto” esistente tra l’originale e la sua eventuale copia, verosimigliante o meno che possa essere, proprio perché si è in presenza, comunque, di una duplicazione.
Aspetto, questo, del quale si deve necessariamente tener conto, in particolare nel caso in cui ci si trovi di fronte a fotografie fortemente stereotipate. Queste, così come altri tipi di immagini, a causa dell’alta concentrazione simbolica che spesso le connota, si prestano ad un uso che può anche essere basato su subdole motivazioni ideologiche di fondo sulla scorta delle quali si elaboreranno delle “dimostrazioni” artificiose – le immagini fotografiche, appunto – anteponendo nel preambolo visuale l’eventuale (vera) argomentazione conclusiva. Si tratta, evidentemente, di raffigurazioni anemiche piegate a uno scopo settario che, private della connaturata varietà e singolarità metaforica caratteristica di ogni immagine, vivono unicamente con lo scopo di far apparire come oggettiva un’ipotesi fraudolenta e pregiudiziale.
Ecco perché una fotografia – ogni immagine, in fondo – deve dunque essere vista ed interpretata con sguardo critico anche in relazione al contesto di riferimento nella quale si trova nel momento specifico della sua fruizione; una sfera simbolica che la dimensione postmoderna ha reso progressivamente ancor più incerta e frammentata.
Per molte ragioni, quindi, la divulgazione di una fotografia su un qualsiasi mezzo di comunicazione fa emergere diversi aspetti problematici, non ultimo, ovviamente, quello relativo alla possibilità che un’immagine sia eventualmente capace, o meno, di essere un’autonoma rappresentazione concreta di un evento determinato, ovvero se richieda comunque il sostegno di un altro strumento comunicativo, quale potrebbe essere una apparentemente innocua didascalia esplicativa.
Quale che sia la modalità di presentazione, occorre comunque tener presente che la possibilità che una fotografia sia un documento effettivamente attestante un fatto concreto può essere al massimo un’eventualità e non, viceversa, sempre una certezza.
La fotografia era e sarà, in ogni caso, un segmento di un più ampio e complesso insieme del quale, eventualmente, l’immagine può talvolta rappresentare solo una circostanza particolare, per quanto rilevante, e mai la complessità della realtà effettiva.
Un ambito nel quale, emblematicamente, sembrano potersi ben condensare tutte le questioni che la fotografia pone con la sua distintiva frammentazione del reale e le conseguenze che da ciò possono derivarne è, certamente, quello del fotogiornalismo.
Storica icona riassuntiva di tutte queste problematiche è stata e rimane tuttora la famosa immagine – realizzata il 5 settembre 1936 da Robert Capa (Endre Friedmann detto, 1913-1954) e pubblicata per la prima volta sul settimanale francese illustrato Vu – raffigurante un miliziano spagnolo colpito a morte nei pressi di Cordoba nel corso dei combattimenti avvenuti durante la guerra civile spagnola.
Altrettanto famosa, benché diversamente rilevante per i fini che qui ci interessano, è anche la fotografia scattata da Korda (Alberto Diaz Gutiérrez detto, 1928-2001) al più noto Che (Ernesto Guevara de la Serna detto, 1928-1967). La popolare icona (cfr., sempre su Mediazone, anche l’articolo intitolato: “La fotografia del Che“), originariamente un semplice scatto fra i tanti realizzati durante una commemorazione dove Guevara era solo una delle molte comparse presenti, non sarebbe probabilmente mai divenuta così celebre se non fosse poi intervenuto il contributo dell’editore Feltrinelli. Questi decise di riprodurre la leggendaria fotografia in un’innumerevole serie di affiche divenute, in seguito, esse stesse oggetti di culto da collezionare. Un fenomeno del quale ha offerto una testimonianza la mostra intitolata “Affiche” organizzata a Torino nel 1999, presso lo spazio fine (fotografia e incontri con le nuove espressioni), dall’omonima Associazione Culturale no profit. L’esposizione, accompagnata da testi critici dello storico e critico della fotografia Pierangelo Cavanna (1952) e dell’autore di questo testo, fece conoscere una significativa selezione di manifesti dedicati proprio alla rinomata fotografia kordiana poi riadattata in veste grafica e riprodotta all’infinito su qualsiasi tipo di supporto (cfr.: www.sgurz.it/fine).
Anche l’immagine di Capa, sebbene viva da tempo una fortunata solitudine come simbolo della lotta senza tempo per la conquista della libertà da parte di chiunque sia oppresso, faceva parte, in origine, di un più ampio reportage complessivo.
Riguardo a quell’ultima immagine circolano, tuttora, storie diverse e, talora, contrastanti, a partire dal fatto che a qualcuno non risulti giustificabile nemmeno la presenza stessa del reporter sul luogo della ripresa. Non di meno, risulterebbe similmente sospetta la cattura proprio dello specifico momento in cui sarebbe avvenuta la morte del combattente spagnolo. A rafforzare questi dubbi, si è unita la posizione stessa dell’autore che non avrebbe mai fornito, di fatto, elementi particolarmente utili a sostegno dell’eventuale verità. Sulla questione della veridicità o meno dell’immagine si sono registrati, nel tempo, vari contributi fra i quali, a difesa della sua autenticità, anche quella di uno storico spagnolo – la giornalista inglese Rita Grosvenor, secondo quanto riportato dalla Magnum Photos, la celeberrima e tuttora attiva agenzia fotografica internazionale fondata, insieme con altri fotografi, proprio da Robert Capa – che avrebbe affermato, nel 1997, che il miliziano spagnolo ritratto nella fotografia era, in realtà, Federico Borrell García, riconosciuto come tale anche dalla sua famiglia di appartenenza. Questa testimonianza avvalorerebbe, quindi, l’ipotesi della presenza effettiva di Capa sul posto; una località denominata Cerro Murriano, un villaggio situato a qualche chilometro a nord di Cordoba.
Tutto chiarito, dunque?
Niente affatto, tant’è che sono emersi ancora altri resoconti sull’evento, tra cui, quello proposto da Ando Gilardi (1920) il quale ha sostenuto che nel 1971, sulla rivista Fotografia italiana, sarebbe stata pubblicata un’immagine successiva a quella del momento del trapasso del combattente spagnolo dove lo stesso comparirebbe, insieme con altri miliziani, in festa per la conquista di una postazione avversaria. La sequenza delle immagini realizzate quel giorno, come ha potuto verificare tempo fa anche chi scrive a Madrid, conterrebbe, in effetti, anche una fotografia ritraente un gruppo esultante, sebbene nella mostra visitata la ripresa venisse proposta prima di quella più nota relativa alla presunta morte di Borrel García. Sempre negli anni Settanta del Novecento, inoltre, un altro giornalista affermò che l’immagine era falsa in quanto sarebbe stata effettuata, nientemeno, nel corso di un’innocua esercitazione preparatoria e non durante un combattimento vero e proprio.
Come si può constatare si tratta, in definitiva, quasi di un giallo, peraltro ancora non del tutto risolto.
La mancata risoluzione del caso, plausibilmente, forse è anche (ingegnosamente) voluta. Viene alimentato così, per ovvi motivi, sia l’interesse nei confronti del celebre scatto fotografico e del suo autore sia l’improbabile mitologia del fotografo free lance – redditizia, innanzi tutto, per i produttori di apparecchiature e materiali per la ripresa – eroicamente sacrificato ad una giusta causa, il quale combatte solitario con la sua fotocamera in pugno in difesa dei nobili valori della verità.
Quell’immagine resterà, comunque, una pietra miliare della storia del medium fotografico, se non altro perché sembra poter esemplarmente riassumere in sé l’eterno dibattito sull’ambiguità del mezzo fotografico pur non potendo provare, in assoluto, che quel fatto sia effettivamente avvenuto.
Detto questo, non si può non considerare che nel contesto postmoderno le diverse controversie relative all’immagine di Capa, pur non perdendo totalmente interesse a causa della loro rappresentativa esemplarità, potrebbero apparire, a molti, solo dei discutibili rigurgiti nostalgici.

“Verità” fotograficheultima modifica: 2007-03-23T12:00:00+01:00da
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