Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia: un’immagine “automatica”

Il passaggio dalle rappresentazioni “sintetiche” a quelle “meccaniche”

di G. Regnani
gerardo.regnani@gmail.com

07/08/2007

Le immagini che hanno preceduto la fotografia, come ad esempio i disegni, avevano l’esigenza di concentrare e riepilogare un determinato evento in un unico “testo” sinottico. Il valore di credibilità attribuito a questo tipo di rappresentazioni era tale da farle sovente considerare come degli autentici documenti, vere e proprie “prove” di un accaduto. In questo scenario, l’arrivo di immagini “automatiche”, quali la fotografia, ha profondamente modificato la dimensione simbolica delle rappresentazioni visuali, innanzitutto riguardo alla loro verosimiglianza, aprendo nuove e radicali prospettive, a partire dal particolare spicciolo al più ampio fronte dell’estetica del medium.La specie umana ha prodotto immagini, praticamente, da sempre. Un’immagine[1], per convenzione, può essere intesa come:

“Una rappresentazione concreta, sensibile (a titolo di riproduzione o di copia) di un oggetto (modello referente), materiale (una sedia) o concettuale (un numero astratto), presente o assente dal punto di vista percettivo, e che intrattiene un tale legame col suo referente da poterlo rappresentare a tutti gli effetti e consentirne così il riconoscimento e l’identificazione tramite il pensiero. In tal senso l’immagine si distingue nettamente sia dalle cose reali in se stesse, considerate al di fuori della loro rappresentazione sensibile, sia dalla loro rappresentazione in veste di concetto: forme che, a prima vista, non intrattengono alcun rapporto di somiglianza o di connessione con la cosa, in quanto oggetto separato da ogni intuizione sensibile del suo contenuto (Wunenburger 1999, p. 5).

In ogni caso, l’immagine rinvia ad un’esperienza molteplice che attinge nel trascorso, nel contingente e nel futuro. Ogni immagine, oscillando tra concretezza ed astrazione, tra visibile e immaginario, tra percettibile ed impercettibile, presuppone la presenza di un limbo sfaccettato e fuorviante di cui, essa è la “rappresentazione intermedia”. Una raffigurazione che costituisce una forma di consapevolezza della realtà e, insieme, una sorta di disgregazione nel non reale che, partendo dall’esperienza sensoriale, si nutre poi anche dell’universo culturale e simbolico di ognuno di noi.

Un’espressione visuale può, inizialmente, risultare preferibile ad una di tipo linguistico per il forte legame che conserva con l’oggetto cui fa riferimento. In tal caso, un soggetto che preferisse la visione alla lingua si legherebbe, tendenzialmente, ad un “immaginario” fondamentale sottomesso prevalentemente alla sola norma del “piacere”; un legame che, nella preferenza accordata ad un ambito di visione immaginaria piuttosto che ad una simbolica, incide anche sulle modalità di ingresso e di adeguamento alla sfera della socializzazione a causa delle sue carenze nella vitale gestione della polisemia dei lemmi. Accordare una precedenza al visivo, alla sua capacità di sintesi rispetto alla parola è indice, quindi, di una scelta verso la constatazione di presenze, piuttosto che di assenze, e perciò più favorevole ad una dimensione denotativa[2] piuttosto che connotativa.[3] Una distinzione ed una contrapposizione che, pur considerando una inevitabile tirannia del visuale, non sono affatto, e fortunatamente, unicamente indicatori della negazione di un confronto, di un dialogo, come manifesta invece da sempre la scrittura, con la sua emblematica trama di correlazione, ad esempio, tra il suono e l’apparenza.[4]

In ogni caso si tratta di differenze che hanno, talvolta, origini remote: già decine di migliaia di anni fa, in effetti, i nostri progenitori tracciavano delle riconoscibili, quanto primordiali, forme animali capaci di rappresentare con una certa efficacia i tratti di soggetti con un proprio volume specifico. Le rappresentazioni, anche se condensate in pochi segni essenziali, sono state, quindi e sin dalla preistoria, un fondamentale veicolo simbolico.

Le immagini possono poi essere divise, volendo ulteriormente sintetizzare per grandi insiemi, in due gruppi rilevanti: materiali ed immateriali. Le prime consentono una forma di percezione che può essere anche collettiva; non altrettanto si può affermare, invece, per le seconde. Diverso, nei due casi, è anche il lessico usato per nominarle. Si incontrano sia termini specifici per una delle due categorie, come ad esempio “fantasma” per l’ambito immaginario, sia lemmi che possono indicare entrambe le tipologie, come è nel caso del termine “simbolo”. Le immagini materiali, inoltre, possono essere disponibili su supporti mobili (riflessi, proiezioni, ecc.) o stabili (pietra, carta, ecc.); quest’ultima fattispecie, in particolare, può essere rappresentata come fissa o animata. La loro rappresentazione potrebbe presentarsi tanto attraverso figure esemplificate, quali un contorno o uno schizzo, quanto come riproduzione plausibilmente fedele, realistica di un soggetto o fenomeno sensibile, come nel caso della fotografia o del disegno di un’entità simulata, quali un “mostro” o una “divinità”. Quando la forma si plasma senza uno specifico intervento umano si è, di norma, di fronte ad una “immagine naturale” (come nel caso di una rifrazione su di una superficie riflettente), benché, salvo rari casi (si pensi alla Sindone,[5] per esempio), sia prevalentemente l’azione (tecnica) dell’uomo a generare “immagini artificiali” determinando spesso, e talvolta inaspettatamente, singolari intrecci “tra  il sensibile e il senso” per la creazione di rappresentazioni secondarie, intermedie “tra la percezione sensibile e la concettualizzazione intellettuale” (ivi, pp. 8-70).

Un momento di fondamentale importanza nell’evoluzione delle forme rappresentative è stata, persino nel caso in cui sia stata rimessa in discussione, l’ideazione della prospettiva:

Perspective drawing was a system that produced a geometrically coherent description of three dimensions on a flat surface. Greek and Roman painters had experimented tentatively with perspectival effects, and about 1300 the Florentine painter Giotto managed to design, by some empirical method, a reasonably persuasive illusion of three-dimensional spaces to contain his new, psychologically individuated characters. But the first clear definition of this epochal invention, and a recipe for a primitive method of its application, was written by Leone Battista Alberti in 1435. In its essentials Alberti’s idea proposed a method of making pictures that described a segment of the visible world as it could be seen by one eye at one place at one time. To do this he conceived of the surface that would bear the picture as a transparent plane placed between the artist and the motif, intersecting the cone of vision that comes to a point at the artist’s eye. If each part of the subject was the drawn in the size, shape, and position in which it appeared on the transparent plane, it would appear in the picture in correct geometric relationship to all the other parts” (Szarkowski 1989, pp. 15-16).

Di seguito, in proposito, leggiamo ancora:

“The painter of the fiftheenth century composed his pictures much as a theatrical director composes his: from the “front”, and from a safe distance, he would arrange his actors and his furniture” (ivi, pp. 18-19).

Sintetizzando, infine, per gli aspetti che qui ci interessano:

“A picture so conceived might be thought of as a handmade photograph” (ivi, p. 16).

L’invenzione della prospettiva ha, comunque, dimostrato che la ricostruzione (estetica) finale è qualcosa di dissimile dalla dimensione riprodotta che, in misura diversificata, risponde a delle regole di congruenza con l’impressione oggettiva: una convenzione, in definitiva, che mette in discussione sia il concetto di “mimesis” che quello di “filiazione”. La rappresentazione diverrebbe, dunque, un “segno iconografico”, una demiurgica riorganizzazione delle tre dimensioni del reale che mutua significati specifici in un determinato ambito culturale:

“La prospettiva si presenta dunque come una costruzione fittizia, immaginaria, chiamata ad emulare la percezione sinottica, a tre dimensioni della realtà visibile. […] L’invenzione della prospettiva conferma l’idea, […] secondo cui le arti plastiche costituiscono “luoghi” e “figure” che sono veri e propri sistemi artificiali chiamati a visualizzare spazi mentali, astratti o immaginari: “luoghi” e “figure” i quali, più che riflettere una visione del mondo, la impongono. […] La rappresentazione virtuale disegnata dalla prospettiva è conforme o non conforme al mondo quanto qualsiasi altro sistema” (Wunenburger 1999, pp. 170-173).

Per cui:

“L’organizzazione strutturale dell’immagine costituirebbe comunque un doppio del reale” (ivi, pp. 170-173).

Caratteristica costante e comune di questo genere di opere (di sintesi) è, comunque, il loro essere, di norma, una visione sinottica. Una rappresentazione tesa, contando sulla presenza di specifiche abilità e talora di un’intenzionale obiettività, ad offrire un quadro logico generalmente esente da contraddizioni palesi, percepibile, sostanzialmente, come verosimile rispetto alla scena originaria di riferimento. Questa forma rappresentativa, definita appunto “immagine sintetica” (Sorlin 2001, Intr. p. X-XII), è quella che ha preceduto e influenzato le modalità di percezione della realtà sino all’avvento del medium fotografico.

L’analisi danteiana, in proposito, suggerisce anche un’ulteriore distinzione tra l’immagine marxianamente definita come “non creata”, ovvero quale apparenza che non abbia relazioni con un “artifizio”, e quella, invece, “creata”, quale potrebbe essere, ad esempio, una fotografia di quel medesimo soggetto (Dante 2002, p. 7).

In ogni caso, il valore di credibilità attribuito a questo tipo di rappresentazioni era tale da farle sovente considerare come dei documenti autentici, delle “prove” di un accaduto. Non era, dunque, necessario che l’immagine ricostruisse un evento concreto con scientifica minuziosità, bensì che fosse in grado di fornirne un’interpretazione concettualmente non contraddittoria di un accaduto (Sorlin 2001, Intr. p. XII).

In Occidente, in particolare, è la plausibile verosimiglianza delle rappresentazioni sintetiche che ha abitualmente dominato nell’espressione artistica, sebbene sia stata mediata dall’esigenza di coniugare il bello al vero, anche a costo di pregiudicarne talvolta la fedeltà (ivi, Intr. p. X-XII).

Una sorta di paradigma, nel campo pittorico, di questo desiderio di realismo è stato certamente il quadro del pittore fiammingo Johannes[6] Van Eyck (1390 ca-1441), intitolato “I coniugi Arnolfini”, realizzato nel 1434. Il ritratto della coppia, caratterizzato da un estremo grado di analiticità e naturalismo e dalla famosa iscrizione “Johannes Eyck fuit hic”, ha portato lo storico dell’arte austriaco Ernst Gombrich (1909) a mettere in evidenza che quella particolare modalità pittorica faceva emergere delle forti analogie con le immagini fotografiche utilizzate a fini legali, quale testimonianza di un evento concretamente avvenuto. In questo caso, l’autore assume le vesti di un autentico testimone diretto e la stessa verosimiglianza diviene un vero e proprio elemento di prova (Dante 2002, p. 56).

La trasfusione del reale in un artefatto non si è imposta, comunque, attraverso un rigido ribaltamento obiettivo, bensì come medium favorito per la realizzazione di una creazione capace di creare un legame, una relazione con il mondo e l’infinito; una relazione che, secondo i casi, ha imposto ricostruzioni la cui plausibilità non è stata certo esente da perplessità.

In quest’ipotetica cornice all’interno della quale poter delimitare il diffuso bisogno di realismo con il quale, con varie modalità, la rappresentazione ha dovuto perennemente confrontarsi potremmo idealmente inserire anche altre due espressioni, apparentemente contrapposte, quali il trompe-l’oeil e la silhouette.

Lo scopo delle “immagini sintetiche”, attraverso la condensazione di particolari elementi (movenze, espressioni, ecc.) è stato (ed è), dunque, quello di offrire un mood, l’umore di un episodio, tanto più se esso era già noto e radicato nell’immaginario collettivo.

Anche l’uso, prima dell’avvento della fotografia, di diversi media quali le varie camere chiare o oscure, anche qualora siano state egregiamente controllate, non ha mai potuto essere del tutto esente da condizionamenti estetici, innanzi tutto afferenti la cultura dell’autore o esecutore dell’opera.

A tal fine sia un gesto, esemplificativo di un’azione, sia l’accumulo di più momenti topici, giustapposti gli uni accanto agli altri per simulare un’ideale sequenza temporale, erano tutti mezzi espressivi utili a testimoniare l’essenziale di un fatto. La valenza di tali compresenze era giustificata dall’esigenza di combinare su di un’unica superficie tanto elementi simbolici quanto componenti dinamiche. Ciò ha motivato l’uso frequente, e talvolta fantasioso, di pose immaginarie, nelle quali la rappresentazione dei soggetti era il frutto una sorta di compromesso, di linea mediana tra le varie fasi precedenti e successive di un’azione di un qualche interesse (Sorlin 2001, Intr. p. XII). Una “immagine sintetica” è, in definitiva, una specie di tabula rasa nella quale l’autore tenta di ricostruire un piccolo universo più o meno astratto. Tentando una sintesi, si potrebbe dire che i disegni, così come i quadri sono, a differenza delle immagini analitiche che ritagliano parti del mondo,  un vero e proprio mondo[7] a sé stante.

Una simbolica concretizzazione di tale linea di pensiero, nel periodo che precedette la nascita della fotografia, fu certamente rappresentata dal ritratto, in particolare quello da cavalletto, che è stato uno degli elementi di distinzione dell’aristocrazia, almeno sino all’avvento del medium fotografico. L’arrivo della fotografia moltiplicò ed adattò alla dimensione borghese questo costume.

“Il ritratto fotografico nasce quasi contemporaneamente alla fotografia. E da subito è un genere che riscuote un grandissimo successo: il nuovo mezzo narrativo, molto democraticamente, consente ad un pubblico sempre più vasto di ottenere a costi contenuti un’immagine di sé e di tramandarla alle future generazioni. A partire dal 1850 studi fotografici attrezzati con sale posa, abiti e decori a disposizione dei clienti nascono un po’ ovunque. La tecnica è lenta, le persone vengono messe in posa con gli abiti migliori e i margini interpretativi concessi al fotografo sono molto ridotti. Il ritratto fotografico nasce quindi con stretti legami con la memoria e l’invenzione di sé, con il desiderio di proporsi nel migliore dei modi” (Calvenzi, in Ranzani 2003, p.3).

Negli anni successivi l’evoluzione della tecnica e del linguaggio svincoleranno i fotografi e i soggetti dall’obbligo dell’immobilità e della ristretta gamma delle possibilità narrative, ma permane sempre l’esigenza di un dialogo creativo tra i due protagonisti dell’azione fotografica.

Rimangono quindi immutati il desiderio di essere rappresentati in modo gratificante, da un lato, e il tentativo di cogliere in un unico momento non solo l’aspetto fisico ma anche la personalità, dall’altro. Un buon ritrattista doveva, e deve, trovare un equilibrio tra le sue capacità e intenzioni narrative e le aspettative del suo soggetto” (ivi, p. 3).

I fotografi, compresi quei “pittori falliti” di baudelaireiana memoria, si arricchirono grazie ad una “società immonda” (uomini d’affari, banchieri, imprenditori) presa da “una follia, un fanatismo straordinario” allo scopo di procurarsi quel ritratto prima privilegio solo di una ristretta élite; una smania che non risparmiò lo stesso poeta francese, ritratto più volte, tra gli altri, proprio da Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851) e Gaspar-Félix Tournachon detto Nadar[8] (1820-1910); di quest’ultimo, in particolare, fu a lungo amico e debitore[9] (Marcenaro 2004, pp. 44-45). Di questa rinnovata esigenza di visibilità, la borghesia diverrà comunque, attraverso questa “arte senz’arte”, una rappresentativa figura simbolica.

Di fatto:

“Tra le scienze e le belle arti, la fotografia nasce con la borghesia e per la borghesia, risponde all’esigenza di dare corpo a un fantasma di classe divenuto fantasma culturale. E’ l’immagine che riveste di dignità visiva e riconoscibile l’esigenza di affermazione della classe borghese. E’ ritratto[10] di una classe che nella fotografia trova il mezzo di autorappresentazione adeguato alle proprie condizione economiche e ideologiche, è la conferma iconica, ed eterna, alla materializzazione dell’esperienza, all’evoluzione della struttura sociale nella civiltà moderna” (Fiorentino, in Brunetta, 2001, pp. 54-55).

La successiva, ulteriore democratizzazione, o trivializzazione[11] del medium fotografico, avrebbe sempre più ingolfato gli studi dei ritrattisti di artigiani, piccoli negozianti, gente comune; un processo che ha favorito anche il nascere di vere e proprie mode, nuovi generi, come nel caso del ritratto militare, potenziale ultimo messaggio di saluto del protagonista ai suoi cari (Sorlin 2001, p. 16), e delle cosiddette carte de visite.

Per vari motivi, quindi, la fotografia, al di là dell’esame specifico delle diversificate tipologie d’uso che la hanno accompagnata nel corso del tempo, è sembrata distinguersi, sin dagli esordi, per la sua natura di mezzo nato al fine di appoggiare una sorta di “necessità storica” (Lemagny,  Rouillé 1988, p. 12). Una condizione per cui anche un’invenzione come la fotografia non poteva nascere, se non eccezionalmente, dal caso, bensì da un insieme di motivazioni, culturali ed economiche, dettate da necessità sociali particolarmente sentite e generalizzate, sebbene la strada per la conquista vera e propria del successo e dell’affermazione sia stata poi percorsa, anche per ragioni di censo, da una sola persona o da un ristretto nucleo di figure particolari.

In quest’ottica, quindi:

“The invention of photography depended on the confluence of three streams of thought. Two of these tributary sources had long histories as scientific disciplines called optics and chemistry; the third was a poetic idea that it might be possible to snatch from the very air a picture formed by the forces of nature” (Szarkowski 1989, p. 11).

Una “storia lunga” dunque o, per lo meno, non semplice e breve quella delle “immagini analogiche” che, diversamente da quelle “tradizionali” (o “sintetiche”), dovremmo definire, piuttosto, come “immagini tecniche”; queste ultime, secondo l’analisi flusseriana, sono il frutto indiretto dell’elaborazione di opere scientifiche. Le “immagini tradizionali”, invece, preesistevano agli studi scientifici e, pertanto, sono forme di concettualizzazione di “primo grado”, mentre le “tecniche” lo sono di “terzo”, in quanto astratte dai “testi scientifici” che, a loro volta, rivengono dalle immagini provenienti dalla realtà (Flusser 1987, p. 17).


[1] Da: eikon (icona), che significa rappresentazione, riproduzione della realtà tanto come raffigurazione mentale quanto riproduzione materiale; eidolon che indica immagine; eidos, forma, che rinvia a phantasma, visione. Ad eikon sono, inoltre, avvicinabili i termini: idea, apparenza; morphe, figura; schema, modello; typos, traccia. Da considerare, infine, l’etimo incerto di imago e, vicino, i termini species e simulacrun.

[2] Fa riferimento a che cosa si tratta.

[3]  Riferita al suo significato.

[4] Un’interdipendenza alla quale sovente attinge tanta “arte contemporanea”, come nel caso della proposta di rappresentazioni infografiche e, ad un livello ancor più diffuso, molti processi di sintesi adottati nel campo pubblicitario.

[5] La Sindone rappresenterebbe, in effetti, un raro caso di impronta prodottasi involontariamente, riguardo ad un’eventuale “intenzione” umana, su un supporto tecnico prodotto dall’uomo (Wunenburger 1999, p.68).

[6] Altrove riportato anche come “Jan” (AA.VV. 1995a) o “Jean” (Dante 2002).

[7] Secondo il pensiero di Stanley Cavell, citato da Lewis Balts, AA. VV., Fotologia n. 12, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, Firenze, 1990, p. 73.

[8] Nadar, in una sua celebre “testimonianza”, definì così la sua idea di “ritratto”:

“La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che avvince le intelligenze più elette, un’arte che aguzza gli spiriti più sagaci, e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli … la teoria fotografica s’impara in un’ora; le prime nozioni pratiche, in un giorno … Quello che non s’impara … è il senso della luce .. è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate … Quello che s’impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto – è quell’intuizione che ti mette in comunione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza più favorevole, la somiglianza intima” (Prinet, Nadar, in Newhall 1984, pp. 92-95).

[9] Nadar ritrasse ben cinque volte il suo perennemente squattrinato amico Baudelaire, tra il 1854 – ovvero 1855, secondo altre fonti – e il 1862 (Marcenaro 2004, p. 45).

[10] Corsivo aggiunto (N.d.R.).

[11] Un costume che la progressiva massificazione del consumo di fotografia, insieme ad un generale e progressivo aumento della vita media, hanno successivamente e in parte riorientato in quelle diffuse e consuetudinarie pratiche di rappresentazione della realtà dettate da una comune “intention de fixer, c’est-à-dire de solenniser et d’éterniser” (Bourdieu 1965) tipiche, ad esempio delle “fotografie di famiglia”. Un immaginario esemplarmente riassunto nel 1927 in alcune frazioni di Aurora il primo film hollywoodiano – tratto dal racconto di Hermann Sudermann e scritto da Carl Mayer intitolato Sunrise: A Song of Two Humans – di Friedrich Whilhelm Murnau; l’opera, restaurata, è stata riproposta nelle sale nel corso dell’estate 2004.

Riferimenti

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AA. VV., Fotologia 12, Alinari, Firenze, 1990

Bordieu P.,  Un art moyen, Les Editions de Minuit, Paris, 1965

Baudelaire C., Salon del 1859. Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1981

Brunetta G. P., Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2001

Dante U., L’utopia del vero nelle arti visive, Meltemi, Roma, 2002

Flusser V., Per una filosofia della fotografia, Agorà Editore, Torino, 1987

Lemagny J. C., Rouillé A., Storia della fotografia, Sansoni, Milano, 1988

Newhall B., Storia della fotografia, Einaudi, Torino, 1984

Marcenaro G., Fotografia come letteratura, Mondarori, Milano, 2004

Ranzani P., 99 x Amnesty ritratto a Nord Ovest, Gribaudo, Torino, 2003

Sorlin P., I figli di Nadar. Il “secolo” dell’immagine analogica, Einaudi, Torino, 2001

Szarkowski J., Photography until now, M.o.M.A., New York, 1989

Wunenburger J.-J., Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999

 

La fotografia: un’immagine “automatica”ultima modifica: 2007-07-23T19:35:00+02:00da
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