Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia dall’unicum alla riproducibilità

L’aura di Benjamin nell’era dell’evoluzione dal dagherrotipo alla matrice fotografica
di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@gmail.com
01/10/2007
Intorno alla metà dell’Ottocento, l’avvento delle prime matrici fotosensibili riproducibili, con la possibilità di moltiplicazione delle immagini, alimentò, fra l’altro, l’avvio di un “ciclo del positivo”, una produzione seriale che solo l’unicum dagherrotipico, per via dell’apparente irriproducibilità meccanica che lo rendeva analogo ad un’opera pittorica tradizionale, sembrò inizialmente contenere. La riproducibilità avviò, conseguentemente, una profonda trasformazione simbolica, capace di incidere, di fatto, sia sul “valore” intrinseco delle opere, che andò trasformandosi da “cultuale” ad “espositivo”, sia sugli aspetti relativi agli usi sociali del mezzo connessi con la sua progressiva volgarizzazione. Un passaggio epocale emblematicamente condensato nella figura di Louis-Jacques-Mandé Daguerre il quale, negli anni dell’ufficializzazione della nascita della fotografia, rappresentò una sorta di crinale intorno al quale ruotarono anche le accanite dispute inerenti al primato dell’invenzione dello “specchio dotato di memoria”.
La comparsa delle nuove immagini fotografiche, modificando ed estendendo il campo della rappresentazione, ha sottratto alle raffigurazioni prefotografiche quel primato secolare che, da quel momento, non gli sarebbe più appartenuto. Un passaggio epocale che, sarà in qualche misura mitigato soltanto dalla natura di pezzo unico tipica della prima forma ufficiale di fotografia: il dagherrotipo. [1] Durante un non breve arco temporale la dagherrotipia ha vissuto un autentico stato di supremazia al quale è subentrato, soppiantando l’unicum dagherrotipico, il procedimento negativo/positivo.

Le dispute intorno alla paternità dell’invenzione aperte dall’avvento della fotografia, concretamente, non hanno mai avuto fine. Esse, sostanzialmente, ruotano da sempre attorno ad un simbolico crinale, rappresentato dalla figura di Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), l’inventore ufficiale del medium.

Fu tanto il rancore, l’astio generato dalla determinazione all’esperto francese di “diorama” della priorità dell’invenzione, quanto l’entusiasmo che il nuovo mezzo originò nella breve stagione nel corso della quale percorse i suoi primi passi.

Riguardo alle varie e, in parte note, posizioni relative alla querelle dell’appartenenza del primato dell’invenzione, può risultare forse utile una panoramica storica sia per tratteggiarne meglio il quadro di riferimento sia per cercare di delinearne taluni riflessi che la questione indusse anche per quel che concerne l’avvio del precedentemente citato “ciclo del positivo” (Lemagny, Rouillé 1988, pp. 20-31).

A quegli anni peculiari sono stati dedicati non pochi studi, tra cui alcune celebri storie del medium; [2] del loro contributo ci avvarremo per comprendere meglio in quale clima si consolidò l’epocale passaggio dall’opera unica alla riproducibilità del molteplice.

Prima di affrontare i diversi contributi relativi alla disputa sul primato dell’invenzione occorrerebbe, innanzi tutto, riflettere sul fatto che:

“One could reasonably claim that the idea of photography was invented by the person who first conceived the possibility of yoking together the familiar camera obscura and the new, fragmentary knowledge of photo-chemistry, to produce a picture formed by the forces of nature” (Szarkowski 1989, p. 21).

La fotografia, quindi, è in sostanza un procedimento attraverso il quale è possibile fissare immagini su sostanze, o apparati, fotosensibili. L’azione della luce su alcune materie era, comunque, già nota in passato, come nel caso delle modifiche subite dalla clorofilla vegetale e dal colore di taluni tessuti per via dell’alterazione o della modifica di alcune sostanze, tra cui i sali d’argento. Nel XVIII secolo, ad esempio, lo scienziato tedesco Johann Heinrich Schultze scoprì la fotosensibilità dei composti contenenti acido nitrico, carbonato di calcio e soluzione d’argento, che battezzò “phosphorus” e scotophorus. [3] Facile immaginare la notorietà internazionale che ebbe successivamente questa scoperta. Nel frattempo, la silhouette, il physionotrace [4] e la camera lucida [5] hanno continuato, comunque, a riscuotere un notevole successo (Newhall 1984, pp. 6-10).

Riguardo al “merito” dell’invenzione, intanto, questo è quanto afferma Gernsheim (1913-2000) nel suo testo:

“Benché il merito di avere inventato il primo procedimento fotografico vada a Niépce, spetta al suo socio Daguerre quello di aver reso la fotografia praticabile e non solo possibile” (Gernsheim 1981, p. 25).

Per quel che concerne la popolarità raggiunta dall’unicum dagherrotipico, aggiunge, poi, perentorio:

“Per dodici anni, anzi, il dagherrotipo regnò sovrano in tutti gli studi fotografici del mondo […] Forse nessun’altra invenzione soggiogò l’immaginazione di tutto il pubblico e conquistò il mondo intero con rapidità fulminea come la dagherrotipia” (ivi, p. 25).

Relativamente ai primi tentativi di realizzare una fotografia, andando a ritroso all’undicesimo secolo, allorché “Guglielmo il Conquistatore” invase “l’Inghilterra”, possiamo già trovare delle prime tracce in proposito, relative all’utilizzo della camera obscura. Accenniamo, brevemente, che ulteriori studi su questo mezzo furono realizzati da Leonardo da Vinci (1452-1519) e, nel Cinquecento, da Giambattista della Porta (1535-1615) il quale la integrò poi con un obiettivo (AA. VV. 1991b, p. 13).

Per sinteticità, giungiamo poi velocemente verso la fine del Settecento, dove troviamo la figura di Thomas Wedgwood (1771- 1805) che, pur non riuscendo nell’impresa di produrre immagini durature a causa dei problemi che ebbe con il fissaggio, eseguì diversi “disegni fotogenici di foglie, ali di insetti e di dipinti su vetro, allora di moda, ponendoli semplicemente su carta o su pelle bianca sensibilizzata con nitrato d’argento”. Un insuccesso a metà, dunque, quello di questi specimen che, in ogni caso, hanno conservato il primato dimostrativo della percorribilità della fotografia. Un obiettivo che sarebbe divenuto anche il “pensiero fisso” di Daguerre che, per via di questa idea fissa, andò “fuori di sé” dato che “la cosa non [era ancora] possibile”, nonostante il fatto che non si potesse dire, già allora, che tale stato di cose sarebbe rimasto così per sempre né, tanto meno, che si fosse potuto “liquidare come pazzo chi cerca[va] di realizzarla”. Un’ossessione che, una volta perfezionato il “suo” metodo sulla base degli esperimenti niépceiani, lo condusse ad avere “a cuore soltanto l’onore di essere considerato l’inventore, perché egli accettava ancora che i profitti del nuovo procedimento fossero divisi in parti uguali” (Gernsheim 1981, pp. 11-26).

Il memorabile annuncio, riportato da un quotidiano dell’epoca, la “Gazette de France”, diceva:

“Annunciamo un’importante scoperta del nostro famoso pittore del Diorama, M. Daguerre. La scoperta ha del prodigioso. Sconvolge tutte le teorie scientifiche della luce e dell’ottica, e rivoluzionerà l’arte del disegno. […] Vedrete quanto lontani dalla verità del Daguerotype [sic] siano le vostre matite e i vostri pennelli […]” (Newhall, in Newhall 1984, pp. 22-23).

Una notizia che pur esaltando il valore del nuovo medium, intendeva rassicurare riguardo alle sorti dell’eterna sorella, la pittura, della quale, in ogni caso, avrebbe conservato le caratteristiche dell’unicità e della dipendenza allo stesso universo simbolico:

“Il disegnatore e il pittore non disperino; i risultati di M. Daguerre sono qualcosa di diverso dalla loro opera e in molti casi non possono sostituirla. […]” (ivi, p. 22).

Le “meravigliose immagini di Daguerre”, pur destando una generale ammirazione non avrebbero retto, però, il confronto con la rivoluzione veicolata dalla naturale riproducibilità insita nelle opere talbotiane. Un primato che, in precedenza, si reggeva anche sul fatto che non era ancora possibile ipotizzare, come scrisse John Frederick Herschel (1792-1871), in “quale altro modo si [sarebbe potuto] arrivare alla moltiplicazione delle copie”, benché agli esordi le opere di Daguerre si siano dimostrate superiori sia per la maggiore ricchezza di dettagli sia per i più contenuti tempi di esposizione (Gernsheim in Gernsheim 1981, p. 42).

Per il procedimento dagherrotipico, nonostante questi iniziali vantaggi, l’esordio non fu certo privo di problematiche, sia a causa delle apparenti difficoltà di preparazione e realizzazione delle lastre – conseguentemente, il governo francese, avendo deciso di mettere a disposizione di tutti l’invenzione, impose all’inventore pubbliche dimostrazioni – sia per via degli alti costi dell’attrezzatura [6] necessaria per equipaggiarsi dello “specchio dotato di memoria”, come lo definì Oliver Wendell Holmes (1809-1894), letterato, fisico e fotografo non professionista americano in Sun-Painting and Sun-Sculture (Newhall 1984, p. 44).

Il primo ad aver ottenuto una fotografia sarebbe stato, però, il fotografo Hippolyte Bayard (1801-1887) che, secondo un’altra fonte, avrebbe persino esposto, con ben due mesi d’anticipo rispetto all’annuncio ufficiale dell’invenzione, una raccolta di suoi positivi realizzati direttamente su carta. Una vicenda che ha condotto l’autore, in segno di protesta, a realizzare un emblematico autoritratto dove incarnava se stesso, ormai cadavere in via di putrefazione a seguito della morte per annegamento, accompagnato da una didascalia che, tra l’altro, recitava:

“Questo che vedete è il cadavere di Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto e di cui finirete per apprezzare i meravigliosi risultati […] Ebbe molti riconoscimenti ma nemmeno un [soldo]. Il governo, che fatto anche troppo per Daguerre, ha detto di non poter far nulla per Bayard, che si è buttato in acqua per la disperazione” (Lo Duca, in Gilardi 2000, p. 2).

Se a Bayard andrebbe attribuito il primato della prima immagine fotografica positiva, sarebbe altresì da assegnare a John Frederick Herschel (1792-1871), un astronomo, matematico, fisico e chimico inglese, la vera e propria scoperta della fotografia, così come ancora oggi generalmente la si intende, ovvero nel noto binomio negativo/positivo. Lo scienziato avrebbe anche proposto, per primo, termini quali quello stesso di fotografia, insieme a positivo e negativo (ivi, pp. 4-7).

L’annuncio della nascita della fotografia scatenò, peraltro, anche in altre nazioni diverse rivendicazioni per l’attribuzione della priorità dell’invenzione; pretese che riguardarono anche la terminologia del nascente mezzo, come nel caso del termine “photographie” che sarebbe stato coniato qualche anno prima che John Frederick Herschel (1792-1871) suggerisse a William Henry Fox Talbot (1800-1877) il lemma “photography” (Newhall 1984, p. 31).

La priorità dell’invenzione, quindi, non spetterebbe in alcun caso a Joseph Nicéphore Niépce [7] (1765-1833) il quale, piuttosto, ricercava sostanze sensibili alla luce per scurimento o schiarimento, [8] o meglio prodotti adatti alla creazione di matrici industriali inchiostrabili, quali il bitume di Giudea, un materiale adatto alla creazione di una “matrice spontanea”, come quella da lui poi battezzata “eliografia” (una lastra ideata per usi analoghi a quella litografica). [9] A Niépce occorre sicuramente riconoscere d’aver, invece, intuito gli evidenti ed enormi vantaggi derivanti dalla molteplice riproducibilità ad inchiostro di un’impronta ottenuta grazie alla realizzazione “spontanea” di un unico cliché. Ma per quanto, a parte quest’ultimo, molti aspetti come l’uso stesso della camera oscura [10] fossero conosciuti già da tempo, uno dei problemi comuni a tutti quanti coloro che si cimentavano con l’invenzione restava quello del fissaggio definitivo delle immagini, sebbene anche questo notorio problema fosse stato già affrontato all’inizio del XIX secolo da un altro chimico inglese, Humphry Davy (1778-1829). Un problema che avrebbe pregiudicato per sempre la perdita del primato della scoperta anche al principale antagonista di Daguerre, anch’egli inglese: William Henry Fox Talbot (1800-1877), padre della calotipia. [11] Un problema successivamente sperimentato e risolto una volta per tutte dal solito e più schivo John Frederick  Herschel  (1792-1871)  (Gilardi  2000, pp. 1-18).

Fra coloro che, probabilmente, ebbero consapevolezza dell’idea, concordemente con Gernsheim (1913-2000), anche Szarkowski colloca Thomas Wedgwood (1771-1805), autore di uno dei tanti noti quanto sfortunati esperimenti di sensibilizzazione purtroppo ancora vittime della mancata conoscenza di chimici adatti a fissare le effimere impronte prodotte dalla luce; un insuccesso che non volle sfiorare per il resto della sua breve esistenza (Szarkowski 1989, p. 21).

Cercava invece altro nei suoi esperimenti, analogamente a quanto già affermato nella “storia sociale” dello storico della fotografia Ando Gilardi (1920), Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833), affascinato dalla nuova tecnica litografica:

“It was already clear that lithography made possible a new standard of precision and objectivity in the reproduction (or more properly, the transcription) of works originally produced in other media. Niépce was interested in lithography as a reproductive medium, and so he concerned himself with finding a method of trasferring the design to the lithographic stone not manually but automatically – a method that might rescue reproduction from interpretation” (ivi, p. 21).

Un aspetto questo, non del tutto noto, per lo meno non quanto gli insuccessi di questi tentativi.

“They did, however, establish in Niépce’s mind the idea that photography – what he would call heliography – was a part of the history of the graphic arts, and wholly compatible whit ink. A little later he would arrange this prodigious marriage (ivi, p. 23).

Per ciò che concerne le qualità del nascente calotipo, leggiamo ancora che:

Unlike the daguerrotype, which – like the modern Polaroid photograph – presented its maker in one step with a finished and essentially unalterable product, the calotype process was highly plastic […] The calotype was also greatly superior to the daguerrotype in the degree of spontaneity, and the freedom of movement, it allowed the photographer (ivi, p. 44).

Per cui:

Talbot’s process provided the foundation on which photography until now has been built; Daguerre’s was ephemeral, and in half generation – by the late 1850s – it was obsolescent. Nevertheless, during photography’s first decade surprisingly little was done with Talbot’s idea” (ivi, p. 48).

Fra le diverse ragioni che, in misura differenziata, hanno contribuito a quest’avvio così singolare, oltre all’iniziale impermanenza caratteristica delle opere del primo periodo, si deve certamente tener conto anche dell’accanita difesa dei diritti legali innescata da William Henry Fox Talbot (1800-1877) contro ogni uso non autorizzato della sua invenzione. A questi aspetti può essere aggiunta la plausibile esigenza del governo francese di non offrire alcun sostegno e, nello stesso tempo, visibilità ad un’invenzione “straniera”, specie dopo l’annuncio ufficiale della dagherrotipia e la scelta “politica” di permetterne il libero uso a chiunque, sebbene costoro fossero solo quelli in grado di potersi permettere l’acquisto della relativa e costosa attrezzatura necessaria. In ogni caso:

“In France photography was in significant measure supported by the State, which directed the medium’s attention to matters of importance to the national polity” (ivi, p. 60).

Per una “volgarizzazione” del medium passerà, comunque, del tempo. Un processo che si tentò di favorire con l’impianto e lo sviluppo delle prime imprese commerciali e dall’immanente, connaturata “divisione del lavoro”, come è stato nella circostanza che vide “Blanquart-Evrard to found the first commercial photofinishing plant, the Imprimerie Photographique […] à Lille”. Blanquart-Evrard, in effetti:

“Had found a way to make large numbers of photographic prints quickly and cheaply, and therefore, he thought, a way to bring photography into the world of common publishing (ivi, p. 60).

L’attenzione verso il nazionalismo della Francia ottocentesca, inteso come ragione di prestigio internazionale, è un elemento presente anche nell’analisi di un altro importante storico italiano del medium, Italo Zannier, che si è qui presa in esame. Una dimensione di valori concretamente espressa in quest’intensa e patriottica citazione:

“Vi sono molti motivi differenti di amare, di ammirare la brillante invenzione della fotografia, che sarà l’onore del nostro secolo e la gloria della nostra patria” (Figuier, in Zannier 1998, p. 43).

Quest’enfatico enunciato trovava sostegno nell’abile e orgogliosa scelta politica [12] del governo francese di dare al mondo intero la possibilità di sfruttare la nuova invenzione annunciata alle “Accademie delle scienze e delle belle arti, emblematicamente riunite”. [13]

Riguardo alla contesa sull’inventore l’autore aggiunge:

“I francesi, nonostante la coeva invenzione inglese di William Henry Fox Talbot del photogenic drawing (la cui relazione era giunta però più tardi alla Royal Institution di Londra, per voce del fisico Faraday, il 25 gennaio dello stesso anno [1839], diciotto giorni dopo l’annuncio parigino del dagherrotipo, ch’era avvenuto il 7 gennaio), non riconobbero mai altre priorità che quella dei francesi Niépce e Daguerre, rivendicando politicamente, se non commercialmente, anche in seguito, la paternità dell’evento tecnologico forse più importante del secolo scorso, [14] che avviava a una nuova era della comunicazione visiva, precisatasi poi nel cinematografo [15] (a sua volta rivendicato dalla Francia, con i Lumière e Marey, nonostante le precoci ricerche di Edison), nel fotogiornalismo, e infine nella televisione (ivi, p. 43).

Per tali ragioni:

Il nazionalismo francese trovò nella fotografia, […] uno degli ultimi motivi di prestigio mondiale […] Daguerre avrebbe spiegato “lui-même à toute l’Europe, [16] quand la France , libérale et désintéressée entre toutes les nations du monde lui aura fait, à l’Europe le noble présent” (ivi, p. 43).

Tornando ora alla contrapposizione di fondo tra unicum e riproducibilità che qui c’interessa, l’attenzione andrà nuovamente rivolta all’altro antagonista della dagherrotipia: il metodo talbotipico negativo/positivo. [17] Il suo inventore, William Henry Fox Talbot (1800-1877), riuscendo, dopo una lunga serie di infruttuosi tentativi, a trovare un “metodo preservativo” per il fissaggio stabile delle opere prodotte, era finalmente riuscito a presentare ufficialmente la calotipia [18] sempre nel 1839, sebbene con il breve scarto temporale di cui si è detto che, conseguentemente, gli costò la perdita del primato dell’invenzione. [19]

Anche a William Henry Fox Talbot (1800-1877) deve essere, comunque, riconosciuto d’aver chiaramente compreso le potenzialità di riproducibilità del nuovo medium, poiché:

“Il 28 febbraio 1835 Talbot descrisse come si poteva ottenere un’immagine positiva dalla negativa (Newhall 1984, p. 24).

Ecco, infatti, cosa aveva annotato sul suo libretto d’appunti quel giorno:

“Nel processo fotogenico o sciagrafico (dal greco shia, ‘ombra’), se la carta è trasparente, il primo disegno può servire come oggetto, per produrre un secondo disegno, nel quale la luce e le ombre appariranno rovesciate” (Arnold, in ivi, p. 24).

Da queste premesse, prese poi avvio la stagione del “positivo” di cui si è accennato in apertura, collocabile all’incirca metà del secolo XIX. In precedenza, prevalendo “un ciclo del negativo”, la riproducibilità era sostanzialmente riconducibile all’esigenza di contenere, per quanto possibile, il tempo (non breve) necessario alla realizzazione di una rappresentazione verosimile del reale; questa, solo successivamente avrebbe consentito, una volta riprodotta, una concreta “volgarizzazione” dell’opera (Lemagny, Rouillé 1988, pp. 30-34).

Per diverse ragioni, dunque:

“Il 1851 [20] è un anno importante anche perché vede nascere […] un primo tentativo di moltiplicazione delle copie. [21] Si inizia così il “ciclo del positivo” che, per un cinquantennio, mirerà ad assicurare la “volgarizzazione” delle immagini fotografiche. La ricerca della riproducibilità e, al di là di questa, della molteplicità delle immagini si iscrive nel quadro delle trasformazioni che in questo periodo caratterizzano nell’occidente la rivoluzione industriale” (ivi, p. 31).

Il procedimento negativo/positivo era, dunque, una conquista ormai consolidata benché, al momento, non si fosse ancora giunti a produrre industrialmente copie positive. Ragioni tecniche, economiche e sociali si intrecciarono, come è tipico in un periodo di rinnovamento come quello, nel tentativo di soddisfare i bisogni che da più parti la fotografia si sentiva sollecitata ad appagare. Restavano, però, da risolvere ancora altri problemi prima di poter affermare che la fotografia avesse indubbiamente raggiunto uno stadio di completa “volgarizzazione” a causa delle limitazioni che continuavano a pregiudicare i positivi: la non illimitata riproducibilità e, non secondaria, la loro alterabilità. [22] Un deterioramento che tendeva anche a disincentivare possibili investimenti industriali dato che i processi di lavorazione non erano in grado di garantire la stabile durata del “dominio del simbolico sul tempo”, dei prodotti, in un’epoca in cui questo era ritenuto un valore capitale. Questi problemi, di fatto, sono stati poi risolti con l’utilizzo dei procedimenti eliografici e litografici, [23] già precedentemente noti. Processi che, consentendo una svolta memorabile in quanto capaci di garantire un’ampia ricopiabilità, sarebbero rientrate nelle “condizioni della stampa […] questo grande mezzo di volgarizzazione”, di riproducibilità tecnica in un’economia di mercato (Lacan, in ivi, p. 33).

Ambito della duplicabilità ove, secondo l’ottica benjaminiana, vanno certamente incluse le opere d’arte. Secondo l’autore, infatti:

“In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini” (Benjamin 1936, 1996, p. 20).

La produzione di un’immagine ipotizza, dunque, la possibilità di una duplicazione, anche solo schematica, di un soggetto originario.

“In questo senso qualsiasi posizione filosofica che miri a custodire gelosamente l’unicità dell’essere, ovvero la sua singolarità, la sua non-duplicabilità, rende impossibile o illegittima l’immagine e concepisce la sua riproducibilità o la sua riproduzione come una forma di alienazione” (Rosset, in Wunenburger 1999, p. 138).

“C’è dunque immagine solo quando un essere, oggetto o idea che sia, si riproduce” (ivi, p. 138).

Una riflessione da integrare alla presenza di fattori tecnologici nuovi, in quanto: “La riproduzione tecnica dell’opera d’arte [diviene] invece qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l’una dall’altra, e tuttavia con una crescente intensità”. Con l’arrivo della litografia, ad esempio, l’illustrazione grafica introdusse sul mercato, e con modalità giornalmente cangianti, oltre ad una mole notevole di nuovi prodotti visuali, l’inedita possibilità di affiancare la forma illustrata al quotidiano. La fotografia è andata oltre liberando, inoltre, la mano dell’autore dalle antecedenti “incombenze artistiche” precedentemente coinvolte nella riproduzione della realtà e, quindi, riassunte nelle “spettanze dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo” (Benjamin 1936, 1966, pp. 20-21).

Analogamente, la riproducibilità avrebbe favorito, in genere, l’evoluzione verso una civiltà delle immagini, una dimensione quotidiana oggi così familiare, come già ci ricordava questa esplicativa riflessione:

“Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entreranno grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano” [24] (Valery, in ivi, p. 21).

Una produzione che, tenuto anche conto del fatto che “l’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione”, non riesce a colmare la fondamentale mancanza dell’opera riprodotta, anche nel caso di elevati livelli di perfezione, ovvero: “l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”. Un elemento di capitale importanza intorno al quale ruota tutta la serie di interessi e modificazioni di cui potrebbe essere protagonista l’opera. L’“hic et nunc” è il fattore di indissolubile legame con il prodotto originario e, quindi, con la stessa genuina veridicità dell’opera in questione: “L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità”. Contrapponendo gli ambiti dell’autenticità e della riproducibilità emerge, di fatto, una loro sostanziale antinomia che, nel caso di opera riprodotta, ne comporta l’inevitabile “svalutazione” della sua autenticità, la vera quintessenza del manufatto, non ultimo per i riflessi connessi con il suo valore di testimonianza di prodotto originale. La riproducibilità mette a rischio questo impianto e, facendo vacillare l’autorità dell’opera, ne compromette inevitabilmente la sua “aura” sottraendola alla sfera della tradizione (Benjamin 1936, 1966, pp. 21-23).

“Ciò che Benjamin [1892-1940] chiamò aura risiede nel valore d’uso [25] che un oggetto d’arte possiede finché resta radicato nel contesto tradizionale e finché è collegato a processi di carattere cultuale” (De Paz, in Signorini 2001, p. 9).

Alla qualità della realizzazione singola (come potrebbe essere, ad esempio, anche lo stesso dagherrotipo) si sostituisce la molteplicità di “una serie quantitativa di eventi”, ognuno rifruibile in contesti differenti, detemporalizzati e deterritorializzati, con l’attualizzazione di ciascuna riproduzione.

Il concetto benjaminiano di aura è inoltre ricollegabile agli “oggetti naturali”, definibili delle: “apparizioni uniche di una lontananza, per quanto possa essere vicina”. Un concetto che è ulteriormente illustrato come:

“Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo” (Benjamin 1936, 1966, p. 25).

La perdita dell’aura insita nella riproducibilità emerge tanto sul fronte della possibilità di rendere le opere “spazialmente e umanamente” più disponibili alle “masse” quanto sul versante del superamento dell’unicum, del quale è infine possibile “impossessarsi” attraverso la riproduzione della sua immagine. Lo smarrimento dell’aura è foriero di un processo di democratizzazione dell’opera d’arte che, liberando il prodotto originario dalla sua nativa “guaina” elitaria, tende ad una “uguaglianza di genere anche in ciò che è unico”, favorendo, nel frattempo, un’evoluzione dalla “portata illimitata” (ivi, p. 25).

“Nella prospettiva di Benjamin [1892-1940] la demolizione cosciente dell’Aura diviene un compito cri­tico dell’artista che, parallelamente all’opera, perde la propria «aureola» e si proleta­rizza dive­nendo produttore” (De Paz in Signorini 2001, p. 10).

La rifruibilità di un’opera non è, comunque, un’esclusiva dell’epoca della riproducibilità tecnica in quanto, anche nell’ambito della tradizione, uno stesso prodotto potrebbe essere protagonista di un’interpretazione ed un conseguente utilizzo “straordinariamente mutevole”. Emblematicamente, l’analisi benjaminiana condensa questo diverso sguardo in una breve riflessione dedicata alla statua della Venere che, da originario s-oggetto di culto nell’antichità greca, diviene feticcio demoniaco nel Medioevo. In ogni caso, “ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura”. Ciò perché: “Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto”. Nella funzione rituale dell’opera riemerge anche il rilievo della dimensione unica del prodotto tradizionale; in questo suo “valore d’uso” originario, riecheggia l’importanza della sua “autenticità” e il suo alimentarsi anche attraverso forme terrene di “culto della bellezza” (Benjamin 1936, 1966, p. 26).

Un rito che ha forti legami con il medium fotografico.

“[…] Con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente al delinearsi del socialismo), l’arte avvertì l’approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è divenuta innegabile, essa reagì con la dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teologia dell’arte. Successivamente da essa è proceduta addirittura una teologia negativa nella forma dell’idea di un’arte “pura”, la quale, non soltanto respinge qualsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento oggettivo” (ivi, p. 26).

Questa svolta così radicale, rileva l’analisi benjaminiana, pone la società di fronte ad una “scoperta” di primaria importanza giacché: “La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale”. Il riprodotto diviene sempre più il calco di un prodotto predisposto “alla riproducibilità”; cosicché anche l’annosa questione della “stampa autentica” perde di valore.

La fotografia, nel suo insieme, è, quindi, una rappresentazione emblematica di questa mutazione.

Questo processo di smarrimento dell’autenticità innesca, inoltre, anche una trasformazione nodale del ruolo dell’arte, che dal basarsi sul “rituale”, quale era il suo valore originario all’interno dell’ambito della tradizione, andrà poi “a fondarsi sulla politica”.

Gli effetti di questa trasformazione si riverbereranno sulla modalità stessa di ricezione dell’opera d’arte che, quindi, poggerà sempre più sul “valore espositivo”, piuttosto che su quello “cultuale” assumendo anche nuove funzioni e relegando ad un ruolo non essenziale quella basilare artisticità così fondamentale in passato. [26] Un passato ove, nei casi in cui era prevalsa la linea dell’assoluta valorizzazione “cultuale”, l’opera era stata finanche sottratta alla visione, al pari di uno strumento magico a disposizione solo di una determinata cerchia di iniziati.

La sostituibilità del “valore cultuale” con quello “espositivo” sottolinea ulteriormente la dimensione paradigmatica del medium fotografico che, alla luce del cambiamento epocale che ha veicolato, impone anche una diversa riflessione anche sull’intero universo dell’arte. Essa, pur conservando la sua capacità di proiettarsi in avanti generando “bisogni” al momento inappagati, sembra aver definitivamente perso la sua secolare autonomia a causa della “riproducibilità” […] e della sua capacità di cambiare per sempre “il rapporto delle masse con l’arte” (Benjamin 1936, 1966, pp. 26-42).

“La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato un modo diverso di partecipazione” (ivi, p. 44).

L’analisi benjaminiana, secondo De Paz, è, tuttavia, criticabile allorché propone una (estrema) contrapposizione “fra l’opera auratica e l’opera tecnologica”, sovradimensionando l’eventuale indipendenza della prima; un’indipendenza che, per l’opera “cultuale”, non è mai esistita in assoluto, nemmeno sul piano estetico, neanche nell’epoca che ha preceduto la secolarizzazione e la successiva presunta autonomia alimentata dall’avanzamento della “società del mercato” e, con essa, “dell’indivi­duo borghese”. Nella dimensione contemporanea delle co­municazioni di massa, l’opera d’arte salvaguarda comunque una certa sua aura pur superandola nella prospettiva di un panorama che, ormai, si fonda sulla negazione del suo precedente portato tradizionale, ormai diretto, piuttosto, verso una “nuova aura”, intesa:

“Come emergenza messa in atto da parte dei produttori artistici di modalità formali/strutturali […] porta­trici di distanza critica in rapporto alla stereotipia e alla reificazione della realtà esi­stente […] L’aura cioè subisce, per così dire, un processo di interiorizzazione e si rifugia nella struttura estetica stessa dell’opera” (De Paz, in Signorini 2001, p. 12).

Se, quindi, a Benjamin (1892-1940) occorre riconoscere, per un verso, di aver compreso a pieno “la scomparsa dell’aura” determinata dal radicarsi dello sviluppo tecnologico moderno, per l’altro, è possibile criticare il suo eccesso di speranza riguardo alle potenzialità “politiche” [27] veicolate da questa nuova fenomenologia, nonostante l’apparente frattura con quel tradizionale passato fatto di “arte individualistico/aristocratica” che si sarebbe, in prospettiva, evoluta in una costante “democratizzazione del consumo dell’arte”. Questa “democratizzazione” è legata, suo malgrado, ad una progressiva “volgarizzazione” dell’arte e ad un assorbimento nella sfera mercantile delle cosiddette “pratiche artistiche”; una “dimensione antindividualistica” certamente gradita anche ai “regimi totali­tari antidemocratici” per via di un processo di:

“Dissolvimento del soggetto nella massa per fini di eterodirezione manipo­latoria, la quale sarebbe tanto più disturbata nella mi­sura in cui i soggetti conservas­sero la propria specifica individualità e capacità critica” (ivi, p. 11).

Su questa scia, la critica adorniana sottolinea come l’assenza di dialettica riguardo all’aura può favorire quelle prevaricazioni e contraffazioni tipiche di una “disartizzazione del­l’arte”, di un processo di impoverimento dell’arte, ovvero del suo carattere intrinseco originario che, nella distrazione generata dall’allontanamento dalla consuetudine del quotidiano, camuffa il reale tornaconto dell’industria di massa o “culturale” (ivi, p. 11).

In ogni caso, la riproducibilità fotografica rappresenta, quindi, l’esemplare antitesi dell’unicum dell’opera d’arte tradizionale (Grazioli 1998, p. 24).

“L’incontrollabilità fotografica gioca tra l’uno e l’infinito, il limite e l’illimitato, l’irriproducibile naturalmente e il riproducibile artificialmente, tra l’istante irripetibile della vita e il frammento visivo che si ripete potenzialmente all’infinito. Allo stesso tempo prodotto individuale e seriale, oggetto industriale e oggetto d’affezione, forma di comunicazione visiva infinitamente fruibile, destinata alle masse e ad ogni singolo individuo (Fiorentino 2003, p. 34).

La specificità della riproducibilità, ha permesso inoltre alla speculazione teorica dell’altro eroe del discorso sulla fotografia [28] di ripensare la cultura della modernità sulla base dei presupposti derivanti, appunto, dalla nuova prospettiva della “riproduzione meccanica” e, cioè, che: è alla luce di questo nuovo paradigma che “gli oggetti che compongono il paesaggio culturale” vengono selezionati e valorizzati. Uno studio, quello benjaminiano, che nei concetti di “scomparsa dell’aura” e di “relativismo storico della nozione estetica di originale” ha trovato i dispositivi critici ideali per la sua analisi (Krauss 1996, p. 2).

La questione della riproducibilità, in termini assoluti, non dovrebbe essere comunque ricondotta soltanto all’avvento del medium fotografico, sebbene questo abbia standardizzato e reso disponibile, nel tempo e a chiunque, un procedimento diversamente non poco problematico e riservato, piuttosto, ad un “immaginario letterario” o alla pratica di un ristretto nucleo elitario (Marra 2000, p. 164).

Tra i diversi aspetti d’interesse veicolati dall’avvento rivoluzionario del medium fotografico nell’epoca della riproducibilità, come già in qualche misura accennavano le summenzionate riflessioni benjaminane sul “socialismo”, occorre, inoltre, prendere atto anche dell’emergere della sua cosiddetta “versione fotografica”, postulata attraverso il manifesto del “movimento” dal suo primo teorico, Paolo Mantegazza [29] (Gilardi 2000, p. 197-198):

“La fotografia possiede un pregio preziosissimo, quello di essere democratica. La scienza è di certo la più fedele e potente alleata della vera democrazia, di quella che tende ad innalzare chi sta in basso, non già ad abbassare chi sta in alto![…] La ferrovia trasporta oggi con uguale velocità il principe e il proletario! […] La luce elettrica brilla per le nostre vie sul capo del povero come del ricco! […] La fotografia oggi con pochi soldi permette a tutti di conservare le fisiche sembianze della persona più cara, ciò che una volta non era concesso che ai grandi signori! […] Benediciamo la fotografia, una delle più giovani e simpatiche figlie della scienza” (ivi, p. 198).

Tra i fondamenti di questa visione teoretica socialista possono essere certamente posti i riflessi derivanti dalle posizioni assunte dalla Chiesa, nel secolo VIII, nel corso del Consiglio di Nicea a favore dei cosiddetti “iconoduli” e contro quella parte di suoi stessi seguaci, noti come “iconoclasti”, contrari all’uso delle immagini, di fatto considerate veicolo di lusinga pagana [30] (ivi, p. 276).

Nella sua “storia infame” lo storico della fotografia Ando Gilardi (1920) sostiene, tra l’altro, [31] che l’arrivo della fotografia rese addirittura ridicola la precedente dimensione auratica del dipinto, in particolar modo a causa dello “spasimo per la verosimiglianza” che la fotografia aveva provocato alimentando l’utopico tentativo di cogliere nell’icona un doppio della realtà.

“Il “genio pittorico” che garantiva prima ancora del quadro, uno “spirito” misterioso indispensabile per la sua esecuzione; apparve, di colpo, non la prova dell’umano sublime, ma della nostra penosa incapacità di simulazione” (ivi, p. 4).

Riguardo, ancora, alla questione della riproducibilità anche la Chiesa , dopo adeguato “processo”, oltre a sentenziare in ordine alla presunta “prerogativa metafisica” dell’invenzione, avrebbe assolto e accettato, sebbene con (una non irrilevante) riserva, questo nuovo procedimento che: “[…] Appare inconfondibile con ogni altra matrice delle immagini, per forma evidente e per essere amplificabile e riducibile nella stampa degli esemplari” (ivi, p. 10).

Riepilogando, con l’avvento della riproducibilità tecnica si è assistito, in definitiva:

“[A]l venire meno dell’autenticità del valore estetico (connessa al concetto di aura) che corrisponde alla spoliazione del significato “cultuale” dell’arte e all’accentuazione del suo valore “espositivo”, alla funzione essenzialmente politica che l’arte acquisisce in quanto evento spettacolare inseparabile dalla sua natura di feticcio. Vi riconosciamo dunque il carattere più vistoso del processo di valorizzazione capitalistica dell’arte e della cultura” (Scurti, in Abruzzese 2003, p. 203).

Con l’avvento della fotografia e degli altri media contemporanei, inoltre:

“[…] le forme espressive della riproducibilità tecnica iniziarono la loro più poderosa vicenda sociale e commerciale: l’immagine […] a distanza [poteva] rispondere in pieno alle esigenze di socializzazione e trasparenza collettiva della massificazione moderna e dei suoi mercati. La trama di intersezioni metropolitane tra spazi domestici e spazi pubblici si andò evolvendo rapidamente grazie a queste forme di produzione e consumo personali. […] Il prodursi, in questo processo, di un attrito continuo tra oggetti materiali e oggetti immateriali rilanciava ed esaltava la spinta della fotografia a fantasmatizzare la realtà […] bisogno collettivo che aveva a lungo fatto perno sui desideri narcisistici e sugli automatismi sociali di cui la fotografia si era fatta precoce espressione: gettare gli occhi nello scorrere della vita quotidiana e sottrarla alla morte (Abruzzese 2003, pp. 656-657).

Nel processo di massificazione avviatosi tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del successivo:

“La fotografia aveva tracciato gli orizzonti futuri della comunicazione. La perenne tensione dei media verso un’integrale immersione nell’esperienza diretta delle cose […] mezzi di riproduzione della realtà […] condivisione di simulacri collettivi [per] costruire la propria identità e verificare il proprio sistema di credenze (ivi, p. 657).

[1] “Il dagherrotipo è un’immagine fotografica ottenuta mediante un apparecchio fotografico […]su di una lastrina di rame argentato (detta plaqué), preventivamente sensibilizzata con vapori di iodio rendendo evidente l’immagine con i vapori di mercurio, riscaldato in uno speciale contenitore di metallo” (Zannier 1998, p. 46).

[2] Le diverse storie della fotografia non sempre sono concordi sui giudizi da attribuire all’analisi degli eventi e dei soggetti da questi interessati, in quanto, come rileverebbe un noto storico italiano: “A ben vedere, non sono nemmeno storie della fotografia, ma della collezione dei fossili fotografici di proprietà dell’autore, o dell’industria per conto della quale questi ha scritto il libro” (Gilardi 2000, p. 1).

[3] Un “portatore di luce” il primo, “portatore di tenebre” il secondo (Newhall 1984, pp. 6-10).

[4] Questo sistema non richiedeva particolare abilità e permetteva la realizzazione di una minuscola lastra di rame, una matrice poi riproducibile.

[5] Il mezzo, attraverso un prisma di vetro posizionato all’altezza degli occhi, consentiva la riproduzione di un soggetto su di un foglio di carta da disegno.

[6] L’attrezzatura costava quasi quanto il vitalizio mensile concesso a Daguerre dal governo: 400 franchi (Newhall 1984, p. 36), riservando, di fatto, l’invenzione soltanto ad una ristretta cerchia di facoltosi borghesi.

[7] Questi, peraltro, sarebbe divenuto un’altra delle “vittime” dell’abile Daguerre, avendolo questi convinto ad unirsi a lui in società per proseguire gli esperimenti già da tempo avviati.

[8] In una lettera del 1816 esponeva al fratello, tra l’altro, quella che plausibilmente “è la descrizione precisa di un negativo”: «[…] E’ soltanto un tentativo assai imperfetto […] Mi sembra quasi dimostrata la possibilità di dipingere in questa guisa […] Il fondo del quadro è nero e gli oggetti sono bianchi, vale a dire più chiari del fondo» (Niépce, in Newhall 1984, pp. 12-13).

[9] Le cosiddette matrici storiche, anche in relazione al materiale di cui sono composte (legno, metallo o pietra) e al modo di essere incise, possono essere sostanzialmente suddivise in tre tipologie di base, o meglio in: rilievografiche, incavografiche e planografiche (Gilardi 2000, p185).

[10] “The use of the camera oscura as a drawing aid seems not to have begun in earnest until the early seventeenth century. By 1611 the great Johannes Kepler had designed a portable camera constructed as a tent, and finally gave the device a name that stuck: camera obscura (Szarkowski 1989, p. 21).

[11] Procedimento noto anche con il nome di “talbotipia” (Gilardi 2000, p. 34).

[12] Difficilmente, nel caso si fosse scelto di non “donare” al mondo il nuovo mezzo, un qualsiasi governo avrebbe potuto gestire la diffusione dei “segreti” relativi all’utilizzo della nuova invenzione se non a costo di molti sacrifici.

[13] Corsivo aggiunto.

[14] Il XX secolo.

[15] Parola di origine greca che significa, letteralmente: “scrittura in movimento” (Abruzzese, Borrelli, 2000, p. 101).

[16] L’Europa, precisa ancora l’autore, era considerata all’epoca “il Mondo” tout-court (ivi, op. cit.).

[17] Un procedimento, quello matrice/copia, che in realtà era già stato esplorato in precedenza, come nel caso della prima “fotografia” oggi conservata, l’eliografia realizzata da Niépce nel 1826.

[18] Dal greco kalos, bello e typos, impronta.

[19] In realtà il calotipo basato sul procedimento negativo/positivo vero e proprio è stato ideato, sempre da Talbot, nel 1840 e presentato l’anno successivo. I primi calotipi erano, in effetti, “impressioni” dirette (specimen) della luce di oggetti posati su fogli di carta sensibilizzata con sali d’argento (Zannier 1998, p. 46).

[20] Nel 1851 fu realizzata anche la “Grande Esposizione” ospitata nel Crystal Palace di Londra dove, tra l’altro, furono esposti numerosi dagherrotipi (Newhall 1984, p. 50).

[21] In quell’anno fu pubblicata la prima edizione di una raccolta di immagini positive, chiamata “Album photographique”, dedicata ad una rassegna di “soggetti architettonici e paesaggistici”.

[22] L’utilizzo delle fotografie nelle pubblicazioni alle quali erano destinate, ancorché fossero state realizzate in serie mediante lo sviluppo dell’immagine latente, richiedeva necessariamente il loro fissaggio con collanti nei testi di destinazione; un procedimento delicato, ancorché lento, cui si aggiungeva l’alterabilità (delle sostanze chimiche) delle immagini.

[23] Con il procedimento eliografico è stata realizzata la prima “fotografia” nota, attribuita a Niépce e datata 1826. Sia l’eliografia che la litografia sono procedimenti che, partendo dalla produzione di un cliché, consentono la realizzazione di innumerevoli copie stampate ad inchiostro, preferibili per costo e durata, in ambito industriale, rispetto alle stampe tradizionali.

[24] Paul Valéry, Pièces sur l’art [Scritti sull’arte], Parigi, 1934.

[25] Corsivo aggiunto (N.d.R.).

[26] Aspetto, quest’ultimo, che verrà ripreso nel corso nell’ambito di una (successiva) riflessione dedicata, tra l’altro, anche al movimento delle Avanguardie.

[27] Allo scopo di favorire l’avvento del “socialismo”.

[28] Il riferimento è a Benjamin; Barthes sarebbe l’altro protagonista dell’analisi sul medium fotografico (Krauss 1996).

[29] Presidente effettivo della Società fotografica italiana (SFI), “senatore del Regno d’Italia” e “professore ordinario di patologia generale all’Università di Pavia, docente di antropologia all’Istituto di studi superiori di Firenze, fondatore e direttore del Museo antropologico etnografico della stessa, creatore dell’Archivio di antropologia ed etnografia” (Gilardi 2000, p. 196).

[30] Le dispute tra iconoduli e iconoclasti, che portarono finanche all’accecamento di “molti monaci iconoduli” traevano sostegno anche dall’esigenza, non propriamente di carattere estetico in realtà, di recuperare i supporti di metallo prezioso (monete, gioielli, ecc.), le sostanziose ricchezze tesaurizzate, sui quali erano impresse le icone, le immagini, oggetto di condanna (ivi, p. 276).

[31] Gilardi, infatti, afferma che:

“Nella vicenda avventurosa delle immagini sessuali […] una successione di eventi colpevolmente taciuti dagli autori delle insipide storie ufficiali della fotografia, da sempre espurgate con meticoloso moralismo, fin oltre il limite di grottesco palese. Siamo certi che un giorno, quando la diffusione inarrestabile dell’immagine totalmente automatica sarà ripensata con sufficiente serenità, gli studiosi della sua storia non sapranno se ridere o recere su quanto è stato scritto fino a ora, con il patto e sotto il vincolo della ripugnante omertà fra i mistificatori. Essi per la loro paura d’offendere quella morale opportuna che è più della merce che del cielo, non seppero nemmeno dipingere quelle ombre tenui delle opinioni vagamente modulate, e fingere le pur flosce polemiche, richieste dalla decenza del mestiere di storico il quale sa almeno mimare l’imparzialità soggettiva” (ivi, p. 5).

Riferimenti

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AA. VV., The family of man, Moma , New York , 1990

Abruzzese A., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003

Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1936, 1966

Fiorentino G., Il valore del silenzio, Meltemi, Roma, 2003

Gernsheim H., Storia della fotografia. Le origini, Electa, Napoli, 1981

Gernsheim H., Storia della fotografia. L’età del collodio, Electa, Napoli, 1981

Gilardi A., Storia sociale della fotografia, Mondarori, Milano, 2000

Grazioli E., Corpo e figura umana nella fotografia, Mondarori, Milano, 1998

Krauss R., Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1990

Lemagny J. C., Rouillé A., Storia della fotografia, Sansoni, Milano, 1988

Marra C., Il battito della fotografia, Il Mulino, Bologna, 2000

Newhall B., Storia della fotografia, Einaudi, Torino, 1984

Signorini R., Arte contemporanea. Riflessioni e scenari per il XXI secolo, Tavola rotonda a cura dell’Associazione La Camera Chiaraù c/o la Biblioteca Dergano  Bovisa, Milano, 2001

Szarkowski J., Photography until now, M.o.M.A., New York1989

Wunenburger J.-J., Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999

Zannier I., L’occhio della fotografia, Carocci, Roma, 1998

La fotografia dall’unicum alla riproducibilitàultima modifica: 2007-10-01T16:50:00+02:00da
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