Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia e l’autore

La dissoluzione della figura autoriale nei processi di produzione culturale moderni

di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@gmail.com

Nel panorama della seconda metà dell’Ottocento la fotografia vista come baudelaireiana “vendetta imbecille dell’industria sull’arte” pose la questione della “fine dell’aura” dell’opera d’arte postulata dal pensiero benjaminiano (cfr., al riguardo, il testo intitolato: “La fotografia dall’unicum alla riproducibilità”). Il sommarsi, a quest’aspetto, della crescente divisione del lavoro che andava consolidandosi anche nell’ambito del medium secondo i criteri di quella “sistematizzazione metodica” teorizzata dal taylorismo e poi sviluppata dal fordismo, sembrò porre anzitempo una riflessione anche riguardo alla contrapposizione tra “lavoro astratto” e “concreto”. Questioni che la cronofotografia e la figura di due dei suoi protagonisti, Etienne-Jules Marey e Eadweard Muybridge, parvero, allora, poter anticipare abbozzando quel processo futuro che avrebbe poi visto la figura dell’autore evolversi totalmente nel tempo. L’autore, dal primordiale e centrale status d’artigiano in grado di presidiare le varie fasi ideative e realizzative dei propri progetti creativi, avrebbe progressivamente subito l’erosione del suo status originario sino a giungere alla radicale confusione nei moderni processi produttivi, ove l’artista contemporaneo assume sovente soltanto il ruolo di uno dei tanti protagonisti

Il lavoro, tradizionale e basilare strumento di sostentamento dell’individuo anche nell’era capitalista, è stato così definito da Papa Giovanni Paolo II (1920) nella “Lettera enciclica” intitolata “Laborem exercens”:
“Con la parola “lavoro” viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità” (Giovanni Paolo II 1981, p. 3).
Esso, anche alla luce degli studi condotti nell’ambito delle varie discipline che compongono l’area delle scienze sociali, deve essere considerato come una caratteristica imprescindibile della vita umana, sia esso inteso in “senso oggettivo”, cioè nella dimensione in cui si è espresso nei vari momenti storici, sia in “senso soggettivo”, ovvero come “soggetto del lavoro” percepito nel suo portato di processo umano ove l’essere vivente non è “per il lavoro”, semmai il contrario. Una contrapposizione non irrilevante a fronte dell’affermarsi, all’interno delle “varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico”, dell’idea di lavoro inteso come “merce”, specialmente per quel che concerne l’attività prestata dall’“operaio dell’industria”, in particolar modo durante la prima metà dell’Ottocento. Un fenomeno connotatosi, quindi, sia per la tendenza a considerare il lavoro una “merce sui generis” sia il lavoratore come un mero “strumento di produzione”, e a tutti noto con il nome di “capitalismo”; un sistema di valori cui si sono contrapposti quelli fondati sul socialismo e il comunismo.
Non è plausibilmente possibile, comunque, separare facilmente lavoro e capitale, benché colui che lavora non pretende sempre ed esclusivamente un compenso economico ma, piuttosto, desidera raggiungere anche la consapevolezza di svolgere una sorta di lavoro “in proprio”, invece di sentirsi soltanto fagocitato in un sistema caratterizzato da “un’eccessiva centralizzazione burocratica”, capace unicamente di immaginarlo come “un semplice strumento di produzione” (Giovanni Paolo II 1981, pp. 15-67).
Conseguentemente, uno dei tratti specifici della “società capitalistica di massa” è il rilievo assunto, in confronto al periodo precedente, dalla relazione tra “lavoro intellettuale e divisione sociale del lavoro”. In questo mutato scenario, ogni prodotto deve essere considerato sotto il profilo del suo “valore d’uso” e “di scambio” (Asor Rosa, in Signorini 2001, p. 4).
L’analisi marxiana sottolinea come il sistema capitalistico ha fatto prima affiorare e poi affermarsi il “lavoro astratto” rispetto al “lavoro concreto” (ivi, pag. 5) da cui discende il distinguo tra il primo, il “lavoro produttivo”, e il secondo, il “lavoro improduttivo” che si fonda sul principio che il primo, nell’ottica di Karl Marx (1818-1883), (ri)produce merci e “capitale”, mentre il secondo, all’opposto, “si sottrae in qualche modo al processo di valorizzazione”.
“Sono questi i due poli teoricamente ricavabili anche nella storia dello sviluppo della produzione culturale nella fase artigianale alla sua progressiva industrializzazione. Nella storia di questo sviluppo possiamo isolare le caratteristiche di un lavoro intellettuale concreto, sempre più emarginato o integrato, da quelle di un lavoro intellettuale astratto non più determinate dal possesso del proprio ciclo produttivo ma dall’inserimento più o meno diretto in una organizzazione generale del lavoro necessario alla produzione dell’oggetto” (Abruzzese 2001, p. 37).
Il capitalismo, di norma, ha tendenzialmente favorito un aumento crescente, benché probabilmente non illimitato nel tempo, del lavoro nelle sue forme “astratte”, piuttosto che “concrete” (Asor Rosa, in Signorini 2001, p. 4). Così non era in precedenza, invece:
“Nella società precapitalistica […] dominava […] il lavoro concreto che, con qualche approssimazione, si potrebbe far coincidere con il lavoro di tipo artigianale. Solo con l’introduzione del modo di produzione capitalistico il lavoro astratto comincia a diventare una realtà del processo lavora­tivo” (ivi, pag. 4).
Il “lavoro produttivo” è, al contrario del lavoro “artigianale”, sempre “lavoro astratto”, indistinto, omogeneo, che annulla ogni singola espressione individuale e trova la sua emblematica sintesi nel lavoro dell’operaio (ivi, pag. 4).
“Il lavoro salariato, nell’ambito dei giganteschi complessi burocratici e industriali è, ai vari gradi di esecuzione, privato di senso creativo, di autonomia e di responsabilità. Con l’accresciuta meccanizzazione, il lavoro è fisicamente più sostenibile, ma con l’accresciuta specializzazione, si svuota di ogni sostanza personale: ecco dunque il lavoro parcellizzato dell’operaio di fabbrica, il lavoro astratto dell’imbrattacarte” (Morin 1962, 2002, pp. 105-106).
Diversa e più complessa è l’analisi del “lavoro intellettuale” e, ancor di più, del “lavoro artistico” che registrano un’espansione dell’attività di astrazione; un’evoluzione che, tendenzialmente, ne equiparerebbe l’esercizio agli schemi tradizionali del lavoro astratto, sebbene il “lavoro intellettuale” continui abitualmente a presentarsi come una forma di “lavoro concreto”, sebbene con modalità peculiari e rinnovate rispetto a come era in precedenza (Asor Rosa, in Signorini 2001, pag. 4).
In precedenza, infatti, l’aggregazione tra le due categorie di lavoro “manuale” e “intellettuale” raggiungeva, nei vari gradi della produzione artigianale, una combinazione armonica che l’avvento della società capitalistica ha, nel tempo, eroso e disgiunto in maniera pressoché irrecuperabile.
Un processo che, inevitabilmente, ha prodotto effetti anche sul fronte della “critica”.
“Si può dire che la progressiva divisione del lavoro intellettuale, dovuta all’estendersi dell’industrializzazione e della proletarizzazione anche in campo culturale, ha portato gli apparati della critica alla formalizzazione della loro separatezza dal processo produttivo, di cui essi analizzano i meccanismi creativi e i prodotti, all’opposizione in termini di valore tra produzione critica e produzione dell’oggetto della critica, all’ideologizzazione di una presupposta egemonia del lavoro critico, come lavoro non alienato, libero, consapevole, scientifico […], sul lavoro creativo, come lavoro determinato individualmente, storicamente, economicamente […] (Abruzzese 2001, p. 34).
Il ruolo della critica, secondo Alberto Abruzzese (1942), tende a concentrarsi, peraltro con funzioni frequentemente non essenziali, intorno ad un solo snodo della catena produttiva dell’industria culturale, ovvero quella del consumo, statuendo una corrispondenza certamente non spontanea tra le forme della conoscenza ed un’ipotetica platea di riferimento.
“La critica sempre più si configura come dimensione luddista del pensiero, regressione nel prepolitico, consolazione individualistica, alibi per sacche improduttive” (ivi, p. 35).
Un percorso che, nonostante l’intenzione di molti di resistere sul fronte del “lavoro concreto”, tende ad assorbire e annichilire nella dimensione “astratta” le espressioni che lo compongono in nome della valenza ormai generale delle sue imposizioni normative. In questa tendenza irreversibile, è possibile intravedere uno dei fondamenti delle “risposte utopiche” poi fornitedalle Avanguardie (Asor Rosa, in Signorini 2001, pag. 4).
Un processo che, nell’epoca contemporanea, ha registrato un’ulteriore fase di evoluzione giungendo, talora, anche ad una tendenziale mutazione delle originarie matrici ideologiche. Queste, nel tempo, sono state affiancate da nuove ipotesi di valorizzazione delle merci non più basate, come in passato, sull’esclusiva contrapposizione tra le forme concrete e astratte del “lavoro vivo” e del  “lavoro morto” ma riformulate, piuttosto, anche sulle base delle nuove metodologie di promozione “tecnoinformatiche” gradualmente affermatisi all’interno dei processi gestionali delle moderne culture imprenditoriali (Canevacci 2001, p. 19-20).
In ogni caso, degli effetti di queste problematiche, già a partire dalla metà dell’Ottocento, ha cominciato a risentire progressivamente pure la fotografia assumendo anch’essa, nel tempo, la connotazione tipica del prodotto industriale analizzabile, conseguentemente, alla luce delle riflessioni di Karl Marx (1818-1883) nella prospettiva di una produzione seriale dotata di un suo specifico finish. [2]
La divisione del lavoro, sebbene non ancora confortata dalle riflessioni teoriche del taylorismo – centrate sulla “sistematizzazione metodica” di “ogni atto produttivo”, la “divisione [dei] compiti” e la specializzazione (AA.VV. 1997a) – e della successiva evoluzione fordista con l’introduzione della catena di montaggio (AA.VV. 1995a), aveva comunque già manifestato concretamente i suoi effetti anche nel campo del medium fotografico ottimizzando di molto i tempi di produzione di quel “prodotto tipico” dell’epoca quale era allora il dagherrotipo, nel suo non eterno ma fortunatissimo periodo di splendore. Infatti:
“Negli studi si diceva che la divisione del lavoro [corsivo aggiunto] aveva talmente accelerato i tempi da portare la produzione giornaliera a 300 o 500 e persino 1000 dagherrotipi. Il cliente acquistava un biglietto ed era messo in posa da un operatore che non si allontanava mai dall’apparecchio. Qualcuno gli portava una lastra, già preparata dal lucidatore e dal verniciatore; quindi egli, dopo averla esposta nel suo schermo protettivo, la passava all’addetto al trattamento con mercurio che la sviluppava, all’indoratore che l’abbelliva, all’artista che la tinteggiava: quindici minuti dopo il cliente riceveva in cambio del suo biglietto il ritratto finito” (Newhall  1984, p. 54).
Una testimonianza che sembra, evidentemente, poter ben riassumere sia le analisi marxiane relative alla distinzione tra “lavoro concreto”, quale forma di lavoro individuale e/o artigianale, e “lavoro astratto” o collettivo (Abruzzese 2001) sia il graduale “processo di smembramento dell’identità autoriale” (Colombo, Eugeni 2001).
Un processo, quello della divisione del lavoro, capace di frantumare, dunque, tanto il lavoro artigianale, ad esempio con la “manifattura”, quanto “l’unità della creazione artistica”, come avverrà nell’ambito della “nuova grande arte, arte industriale tipica, il cinema” ove s’instaureranno nel tempo delle prassi operative analoghe a quelle della “fabbrica”. In questo complesso di elementi, sebbene l’autore emerga comunque come creatore dell’opera, ciò avverrà, in ogni caso, all’interno di un processo produttivo per la creazione di un’opera ideata e realizzata seguendo specifiche regole produttive (Morin 1962, 2002, p. 34).
“Il cinema è l’arte della fabbrica nel senso che racchiude in sé – nella sua stessa struttura iniziale – le forme e l’ideologia della moderna civiltà industriale. Sortie d’usine[3](1895) è l’esemplare punto di origine della futura istituzione cinematografica: i fratelli Lumière – padroni di una fabbrica di apparecchiature e materiali fotografici – sfruttarono alcune innovazioni tecniche del loro campo produttivo a fini pubblicitari, «filmando» l’uscita degli operai della loro stessa fabbrica. L’obiettivo assolutamente commerciale dei Lumière è chiaro: quei pochi minuti di proiezione dimostreranno all’acquirente la perfezione tecnica raggiunta dalla ditta, la sua consistenza in capitale fisso e mano d’opera, le infinite utilizzazioni pratiche del cinematografo. Sin dall’inizio il cinema pubblicizza se stesso: la tecnica serve a magnificare la tecnica e il pubblico si identifica con l’acquirente” (Abruzzese 1973, 2001, p. 87).
All’industria, e alla sua “vendetta imbecille”, sarebbe peraltro attribuibile,secondo il giudizio baudelairiano, anche il ruolo di “nemica più mortale” dell’arte. Quest’accusa è motivata dalla convinzione che dovesse essere ribaltato il “Credo” della “società altolocata” francese fondato sulla supposizione che “l’arte sia e non possa essere se non la riproduzione fedele della natura”. Per tale ragione, prosegue il poeta, “un’industria che ci desse un risultato identico alla natura sarebbe l’arte assoluta”. In questo contesto di pensiero, prosegue la critica baudelaireiana, intervenne poi l’azione demiurgica della fotografia, di cui “Daguerre fu il messia”. Con alle spalle queste considerazioni, “la folla disse a se stessa”, come annotò ancora Baudelaire: “Giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie desiderabili di esattezza (credono proprio questo, gli stolti![4]), l’arte è la fotografia”. Un comodo asilo, quello della “industria fotografica […] rifugio di tutti i pittori mancati”, aggiunse infine, implacabile, lo scrittore (Baudelaire 1981).
Dell’accennato e generalizzato processo di dissoluzione dell’autore, il cinema rappresenta certamente un esempio ancora più emblematico, e sin dagli albori. Nel periodo che ha preceduto la nascita ufficiale del medium cinematografico si è assistito, come si è già delineato, ad una costante ed inesorabile “con-fusione” ed annichilimento delle prerogative del fotografo professionista, così come si erano consolidate in precedenza. Un processo determinato dal progressivo impossessarsi di frazioni sempre maggiori delle peculiari incombenze e dell’ampia padronanza dei processi creativi e realizzativi delle immagini prima di spettanza dell’autore da parte dell’industria di settore (Gilardi 2000, p. 297).
Tra le figure ormai storiche che accompagnarono quegli anni emblematici, oltre ai ridetti e più noti Etienne-Jules Marey (1830-1904) e Eadweard Muybridge (1830-1914) dei quali ora ci occuperemo, citiamo anche Thomas Eakins[5](1844-1916), pittore e fotografo americano, e Albert Londe (1858-1917), fotografo francese (AA. VV. 2001a).
Questi autori non furono certo i primi a cimentarsi con il movimento. I miglioramenti tecnici dei materiali e delle attrezzature avevano, in qualche modo, già fatto intravedere a qualcuno i possibili sviluppi futuri delle istantanee. Tra coloro, infatti, che, almeno per astrazione, avevano ipotizzato l’cronofotografia troviamo nuovamente la figura di John Frederick Herschel (1792-1871) che, nel 1860, aveva previsto l’arrivo del nuovo mezzo:
“Io sono più che sicuro che avremo la possibilità di prendere una fotografia con uno scatto istantaneo […] di garantire un’immagine in un decimo di secondo […] e che avremo un congegno grazie al quale una lastra preparata potrà essere presentata, messa a fuoco, impressionata, rimossa, numerata, riposta al sicuro al buio e sostituita da un’altra in due o tre decimi di secondo” (Herschel, in Newhall 1984, p. 181).
E’ quindi possibile aggiungere che in queste ipotesi sembra emergere già, oltre alla cronofotografia, anche il cinema in embrione e, plausibilmente, altro ancora. Lo scienziato, sempre in quel periodo, consigliava inoltre di presentare le “lastre” con uno strumento molto noto per la visione animata, paragonabile allo “zoetrope” muybridgeiano di cui si accennerà successivamente: il “phenakistoscope”. La sua visione anticipatrice, prevedeva, infine, che si sarebbe giunti alla realizzazione della:
“[…] Raffigurazione di scene in movimento – la riproduzione vivida e fedele, tale da essere trasmessa ai più lontani posteri, di qualsiasi avvenimento della vita reale; una battaglia, una discussione, una solennità pubblica, un incontro di pugilato, una festa della mietitura, il varo di una nave – in breve, di qualsiasi cosa avvenga in un tempo ragionevolmente breve, e sia veduta da un determinato punto di vista” (ivi, p. 181).
Naturalmente, sarebbero passati molti anni prima che le previsioni mass mediatiche herscheliane potessero avverarsi, benché non si possa fare a meno di constatare tuttora il valore profetico e la lucidità di queste osservazioni che, grazie alla svolta impressa dall’arrivo della pellicola in rullo, diverranno poi realtà quotidiana.
Riguardo ai materiali fotosensibili, facendo un passo a ritroso prima di procedere oltre, è utile fare anche una distinzione di carattere tecnico tra: “cinema su lastra” e “cinema in striscia”. Il primo si riferisce alla “tavola cronofotografica”, ovvero la serie di immagini raffiguranti le diverse riprese di un “soggetto in movimento” poi ricomposte insieme nell’immagine riepilogativa finale, come nel caso delle celebri sequenze muybridgeiane. Il secondo, quello “in striscia”, rinvia alla cinematografia classica realizzata per la proiezione in sequenza che, a differenza delle unità distinte (le lastre) che consentono una visione singola e scomposta del moto, induce l’illusione complessiva di un movimento effettivo dei soggetti ripresi.
In questa sede, ci occuperemo, in parte, solo della prima delle due espressioni.
A questa, al “cinema su lastra” è legato il nome di uno dei primi grandi della cronofotografia, quello di Eadweard Muybridge (1830-1914). Egli fu, in precedenza, anche attivo come valido “protofotografo”, occupandosi anche di stereografia, un genere dal quale, con molta probabilità, mutuò anche l’ispirazione per realizzazione delle sue celebri istantanee.[6]Un altro nome di rilievo per la cronofotografia è stato, senza dubbio, quello del biologo Etienne-Jules Marey[7](1830-1904) che, ispirandosi agli esperimenti muybridgeiani, si specializzò, in particolare, sui problemi della deambulazione. Egli, in realtà, fu una figura singolare, ovvero qualcosa di più di uno scienziato e, al tempo stesso, qualcosa di meno di un artista rispetto a Muybridge dato che, come appena accennato, era particolarmente interessato alle problematiche connesse con la locomozione degli esseri umani ed animali (Szarkowsky 1989, p. 132).
Fu lui l’autore, tra l’altro, del termine “cronografia”, espressione che utilizzò per definire alcune delle sue prime rappresentazioni grafiche del movimento.  Inventò, inoltre, un famoso “fucile” fotografico, la prima cronofotocamera “a mano libera”, realizzato nel 1882 prendendo spunto, molto probabilmente da un analogo strumento, il jansseniano “revolver” astronomico utilizzato per fotografare periodicamente il passaggio dei vari corpi celesti del nostro sistema solare davanti all’astro maggiore. Questo strumento, chiamato da Marey “photochronographe” in quanto consentiva la realizzazione di “une série d’images prise à des intervalles de temps rigoureusement égaux”, è stato, in sostanza, un antesignano della moderna macchina da presa cinematografica (Mormorio 1997, pp. 132-144). Il suo apparecchio, dapprima dotato di “lastre” girevoli che permettevano di realizzare una dozzina di immagini e poi di una delle primissime pellicole con una capacità di quaranta riprese, era mono-ottica a differenza dell’attrezzatura dell’altro autore (Muybridge), pluri-obiettivo e montata su cavalletti fissi, così come fisse erano anche le relative “lastre” fotografiche.
La fotocamera muybridgeiana rappresentava, inoltre, un ibrido tra i citati “cinema su lastra” e quello “su striscia” in quanto consentiva la realizzazione, grazie ad un’articolata batteria di macchine pluriobiettivo sincronizzate e poste sia di fronte al modello da riprendere sia di lato, di quelli che poi sono divenuti i suoi “celebri cinema su lastra di 36 figure”. Queste istantanee venivano, quindi, montate su supporti circolari che, ruotando in un apposito visore, quali lo “zoetrope”,[8]realizzavano un’illusoria impressione di moto (Gilardi 2000, p. 305).
Al riguardo, va anche ricordato che tra i primati di questo autore c’è stato anche quello ottenuto nel 1880, presso la “Scuola di Belle Arti della California” a San Francisco. Quell’anno, utilizzando un’apparecchiatura simile, il “zoogyroscope” o “zoopraziscope”, Muybridge ha presentato, con quindici anni di anticipo rispetto al primo spettacolo cinematografico ufficiale dei fratelli Lumière a Parigi, una proiezione delle sue fotografie su uno schermo montato per l’occasione. Il “cinematografo” muoveva, dunque, i suoi primi e timidi passi (Newhall 1984, p. 165). L’americano Muybridge, quindi, potendo vantare nel corso della sua performance californiana sia la compresenza di un nutrito portfolio di cronofotografie sia l’uso di un sistema a “lanterna” da lui stesso disegnato, potrebbe essere certamente inserito nella rosa degli inventori delle figure in movimento. Non diversamente si potrebbe dire anche del fisiologo francese Marey. Questi, anche secondo la versione szarkowskyana, avendo inventato un apparecchio singolo che, a differenza di quelli multipli muybridgeiani, aveva un solo punto di ripresa, potrebbe simbolicamente fregiarsi d’aver creato una macchina assolutamente riconducibile alla tecnica cinematografica di ripresa contemporanea (Szarkowsky 1989, p. 134).
Un’esemplificativa impressione della sensazione di movimento fornita da questi apparecchi è rintracciabile nella popolare serie di immagini del trottatore “Occident” realizzate, secondo quanto è noto, per soddisfare la richiesta[9]di un facoltoso allevatore californiano. Una richiesta che, all’inizio, aveva incontrato lo scetticismo dello stesso Muybridge, convinto di non poter assolutamente affrontare né, tanto meno, superare una simile sfida. Egli, infatti, aveva alle spalle un passato di fotografo prevalentemente dedito al paesaggio e alla fotografia industriale, con incarichi di rilievo commissionatigli dal governo che lo aveva perfino nominato “primo fotografo” (Gernsheim 1987, p. 173), piuttosto che un bagaglio specifico in materia. Nonostante ciò, affrontò comunque l’impresa che lo avrebbe reso leggendario,[10]progettando e realizzando egli stesso uno dei primi e storici otturatori per macchina fotografica. Gli esperimenti proseguirono, numerosi, dal 1873 al 1874, poi, per alcuni anni, sono stati interrotti a causa di un processo per omicidio a carico del cronofotografo. Riprendendo successivamente l’attività, l’autore apportò alcune importanti modifiche al suo procedimento tra cui, fondamentale per l’ottenimento delle immagini oggi a noi tutti note, l’uso metodico di una formazione di macchine fotografiche al posto dell’unico apparecchio prevalentemente utilizzato in precedenza. Il complesso sistema prevedeva l’utilizzo di un gruppo di dodici fotocamere, tutte attrezzate di otturatori velocissimi, che erano azionate da una serie di fili di metallo “tirati” al passaggio del soggetto ripreso. Il risultato ottenuto, cinque anni dopo i primi tentativi, non fu altro che un insieme di silhouttes, benché illustrasse con sufficiente chiarezza il moto ritratto e, nel caso specifico, che il cavallo fotografato, in un momento specifico della sua corsa, aveva tutte e quattro le sue zampe staccate dal terreno (Newhall 1984, pp. 162-165). Un elemento, quest’ultimo, che era alla base della scommessa di cui si è accennato precedentemente, così come rileva finanche il compositore e musicista statunitense Philip Glass (1937) che all’epopea muybridgeiana ha addirittura dedicato “a music/theater piece”, un’opera organizzata in tre atti, dal titolo “The Photographer”:
“This project, which occupied almost the entire remainder of his [Muybridge] life, was undertaken to prove a bet – that at one time during its stride a trotting horse has all four feet off the ground” (Glass 1983, p. 3).
Questo particolare, di là dall’apparente e immediata banale funzione aneddotica, rappresentò un momento topico nella generale riflessione sull’espressione artistica dell’epoca e non solo.
“In a remarkably short time Muybridge’s horses began to look right to artists, and the horses painted according to the ancient conventions began to look wrong” (Szarkowsky 1989, p. 132).
Per la prima volta, infatti, venivano “scientificamente” messi in discussione alcuni “credo” estetici ancora profondamente radicati in quel periodo storico, quali, ad esempio, quelli relativi alle pose “dinamiche” nelle quali poter ritrarre o scolpire un soggetto equestre. Di fronte a questa nuova visione, non furono certo pochi quelli che rimasero scossi dalla “paradossale” novità di quelle immagini: le riprese del moto sembravano, infatti, assurde, irreali. “Vedere”, per la prima volta e distintamente i raggi di una ruota, ad esempio, aveva provocato, di fatto, un vero e proprio choc. Paradossalmente, dunque, un’immagine dalle prerogative fortemente “realistiche” e “scientifiche” era bollata come irrazionale, e non da spettatori qualsiasi, ma da esperti addetti ai lavori, ovvero disegnatori, pittori, ecc. E’ stato questo il caso (celebre) delle ruote di un carro in cammino dipinte su di un quadro dell’epoca;[11]un fatto che creò molta inquietudine anche nelle fila di chi già allora si occupava esclusivamente di fotografia ed è passato alla storia come il paradosso della “ruota pietrificata”. Una contraddizione che, successivamente, si è definitivamente estesa, restando perennemente irrisolta, all’intero mondo delle istantanee e, per estensione, alla fotografia nel suo complesso (Newhall 1984, pp. 165, 169).
Concorde, in proposito, anche la riflessione szarkowskyana:
“In the case of objects in motion – even moderate motion – it is difficult to know with confidence what we see, or how closely our apprehension of an event would resemble a photographic description of it. It is clear that the depiction of flying birds or running horses, or even facial expressions, or the gestures of a hand, was, before photography largely a matter of convention, and that the painter in describing such things selected from a slowly evolving catalogue of solutions that had been constructed out of intuition, trial and error, and artistic consensus. When photographic emulsion became sensitive enough – “fast enough” – to record moving objects with reasonable precision, it became apparent that surprising discrepancies existed between the camera record and that found in realist painting” (Szarkowsky 1989, p. 131).
La produzione muybridgeiana è stata notevole, nell’ordine di diverse decine di migliaia di immagini, favorita anche dai progressi tecnologici delle “lastre asciutte” comparse allora sul mercato, capaci di offrire maggiore ricchezza di particolari e tempi di posa ancora più contenuti rispetto al passato. I soggetti delle sue riprese, dopo l’iniziale ed esclusivo interesse per i cavalli, divennero poi ogni sorta di figura vivente, umana o animale che fosse, ritratta nei modi più disparati con l’intento di creare un autentico, quanto vasto, repertorio visuale delle forme del movimento. La sua opera è passata alla storia, inoltre, per la realizzazione di un insieme di “undici volumi” intitolato “Animal Locomotion” (Newhall 1984, pp. 167-168). Un’opera monumentale contenente ben 781 tavole nelle quali erano inserite oltre ventimila riprese di pose dedicate alle movenze di numerosi esseri umani, mammiferi e volatili (Szarkowsky 1989, p. 132).
L’ascendente esercitato sull’arte moderna[12]da questi due autori pur così diversi come formazione, l’uno scienziato e l’altro fotografo, è stata rilevante, a partire dal periodo stesso che li vide all’opera. Una fase storica che, come abbiamo già sottolineato, cominciava ad essere significativamente contraddistinta dagli effetti del crescente livellamento culturale operato sistematicamente dall’industria, ai quali, progressivamente, si aggiunsero i primi impieghi mistificatori dell’immagine fotogiornalistica (Gilardi 2000, p. 305).
Agli albori di questo processo evolutivo, la vera svolta in questo ambito è stata, come abbiamo già precedentemente anticipato a proposito della prima fotocamera portatile commercializzata dalla Kodak, la citata pellicola in rullo. Questa, una volta caricata nell’apparecchio, grazie al suo scorrimento da una “bobina alimentatrice” ad una “bobina d’avvolgimento” contenente la striscia appena esposta, consentiva finalmente esposizioni in più rapida sequenza rispetto al passato, alla velocità di sedici immagini e più per secondo. La pellicola a rullo rappresentò, inoltre, un elemento di successo anche per quel che concerne la proiezione delle immagini a scopo di intrattenimento. Uno dei primi strumenti di svago del genere fu il “Kinetoscope”, un proiettore ideato da Thomas Alva Edison (1847-1931) che, malgrado consentisse la visione di circa “48 fotogrammi al secondo” utilizzando una pellicola in striscia, aveva una grande difetto, ovvero l’utilizzo non era collettivo, bensì singolo. Ciò nonostante, lo strumento riscosse un notevole consenso da parte del pubblico anche se non sopravvisse, ovviamente, al “Cinématographe” dei fratelli Louis e Auguste Lumière (1864-1948, 1862-1954) che, il 28 dicembre 1895, presentarono una serie di piccole proiezioni al “Grand Café di Parigi” (Newhall 1984, pp. 181-182).
Dopo la tappa della cronofotografia e dei vari marchingegni per la proiezione, il cinema, cominciando a prendere consapevolezza delle sue potenzialità, avrebbe gradualmente colonizzato buona parte dell’immaginario collettivo, divenendo una “forma espressiva così moderna e industriale da essere la forma per eccellenza della società di massa” (Abruzzese 2003, p. 77).
“Il cinema si è legittimato alle origini come nuovo ambito di festività sociale, spazio liminare in cui si consumava un rito di iniziazione all’immaginario di massa. Del rito lo spettacolo cinematografico conservava il fatto di essere celebrato in un luogo apposito, secondo orari predeterminati e per un consumo collettivo (Abruzzese, Borrelli 2000, p. 210).
Rituale, quello del cinematografo, che prese avvio alla fine dell’Ottocento, all’apice delle facoltà metaforiche dei grandi insediamenti urbani e, subito, offrì alla visione popolare, come mai era successo prima, una “struttura semantica” del reale, una “costruzione” in precedenza mediata dalle relazioni simboliche tra il creatore dell’opera ed il suo pubblico (Abruzzese 2003, p. 68).
Tra le ripercussioni di maggior rilievo del processo di “industrializzazione della cultura”, vi è l’inserimento nelle logiche produttive dei “processi creativi” e il loro assorbimento nei criteri che governano il sistema.
Una razionalizzazione che, per quel che concerne il medium fotografico, ha lavorato non solo nella direzione di una dissoluzione della figura dell’autore, quanto anche verso la “morte dell’oggetto” stesso. Le tendenze contemporanee sembrano muoversi, in effetti, in tal senso come, ad esempio, nel circuito “generativista”, ove il sistema tecnologico è inteso in termini di autosufficienza; oppure, nel modo in cui nell’ambito “postconcettuale”, è divenuto centrale il concetto di supremazia dell’idea; o, infine, come accade per la sfera dell’astratto, nella quale l’aspetto formale occulta, di fatto, l’eventuale soggetto.
All’interno dell’impianto razionale produttivo, il cinema rappresentò dunque, e sin dagli esordi, forse uno dei più significativi, graduali ed emblematici esempi di “smembramento dell’identità autoriale”. Un processo in parte condizionato anche dalla “natura ontologicamente riproduttiva” della cinematografia, da sempre posta di fronte alla necessità di mediare sinergicamente tra la dimensione ideativa astratta e quella sovente più concreta delle fasi realizzative. Con difficoltà si potrebbe individuare un altro ambito artistico ove sia stata messa altrettanto intensamente in discussione l’idea romantica di “autore”, quanto nel mondo della cinematografia. La produzione culturale, infatti, è fondata sull’osservanza di determinate regole di mercato che mal si conciliano con l’atto individuale autonomo, con l’intento espressivo di una ideale figura autoriale. Questa contraddizione convive con una struttura organizzativa che non sempre è in grado di applicare al meglio le sue logiche distributive di standardizzazione e sistematicità per soddisfare le istanze crescenti del “mercato di massa”, prevalendo le tradizionali forme dell’organizzazione imprenditoriale, piuttosto che logiche produttive “tecnologico-razionali”. La tendenza a migliorare la produzione, la supervisione e l’organizzazione di tutte le fasi creative in un ottica ispirata alla divisione e distinzione dei ruoli, l’eccesso di specializzazione, sono tutti elementi utili al buon governo di un’impresa mercantile, benché sbriciolino la tradizionale “responsabilità autoriale” in diversi rivoli che mal si adattano con le dinamiche e l’indipendenza di un autore che non sopporti di vedere circoscritta la propria creatività. Anteponendo sistematicamente il “valore di scambio” al “valore espressivo”, l’esigenza di stimolare i consumi assume il ruolo di elemento preponderante al quale assoggettare anche l’iter creativo classico, mettendo in secondo piano l’ispirazione e l’emergenza espressiva dell’autore. In questo scenario, la figura autoriale viene progressivamente depauperata delle sue ordinarie prerogative di indipendenza creativa, con il rischio di essere relegata al ruolo di semplice comparsa di un più ampio consesso astratto. Il cinema, emblematicamente, ci pone di fronte a questa evidenza con tutto il suo impianto di ideazione e realizzazione del prodotto filmico che, solo parzialmente, possono essere riportate ad un’unica individualità creativa, così come, nell’insieme, risultò ancora essere per i primi cronofotografi. All’interno dell’articolato impianto di produzione cinematografico l’autore è, dunque, un semplice “sottosistema”; uno fra gli altri. Un epilogo singolare, dunque, dopo la non facile conquista di uno status specifico seguita alle fasi d’esordio dominate dall’essenzialità dell’istanza riproduttiva di quella che veniva apprezzata, nelle situazioni migliori, come una forma di “arte meccanica” priva, però, di ogni emergenza creativa.
Nell’autore, compresi i pionieri precinematografici della cronofotografia, è individuabile un comune e simbolico confine, talvolta invisibile, tra “creatività e standardizzazione”, piuttosto che la peculiarità di un’individualità espressiva. In esso convivono, infatti, una pluralità di espressioni che riguardano: l’aspetto giuridico dell’autore come proprietario intellettuale dell’opera, l’ambito “economico-produttivo” di figura cui compete la responsabilità del “prodotto”, il ruolo di professionista, la funzione estetico-creativa, sino alla sua dissoluzione nell’insieme strutturato di testi dei quali rappresenta, nel corso del tempo, la simbolica sintesi evolutiva. La progressiva dissoluzione dell’ideale tradizionale di autore, la sua riduzione a cifra espressiva di cui il prodotto necessita per “cristallizzarsi” porta a rimodulare la riflessione sulla “produzione artistica” che va riconsiderata, piuttosto, come struttura espressiva sociale e ambito linguistico di “oggettivazione culturale”.
In tale scenario, il cinema non è soltanto un mero mezzo di riproduzione della realtà, bensì elemento costitutivo dell’immaginario, alla cui costruzione contribuisce costantemente. Esso è, nella varietà delle sue espressioni, memoria collettiva e insieme significante che, attraverso i diversi linguaggi cinematografici, si incunea nell’immaginario collettivo e, da questo, si riversa poi nelle “pratiche sociali, sulle identità culturali, sulle percezioni dei territori e degli universi significanti”. Anche in questa prospettiva, marcatamente rivolta ad una lettura dell’opera come “costrutto socioculturale”, è possibile notare una rimodulazione del valore della figura autoriale. La strumentale differenziazione in “generi” [13]dei “prodotti”, caratteristica dell’industria culturale, [14]accentua ulteriormente il processo di travalicamento dell’identità autoriale, progressivamente “con-fusa” nel magma della serializzazione produttiva. In tale scenario la figura dell’autore può riemergere come fulcro di un immaginario della cui garanzia di qualità egli si fa portavoce, compiendo una demiurgica funzione riordinatrice nell’intricato caos visuale contemporaneo (Farinotti, in Colombo, Eugeni 2001, pp. 167-175).
E’ inoltre utile considerare il prodotto filmico, così come le prime opere cronofografiche, non soltanto come un monolite compatto, razionale e inamovibile ma, piuttosto, come una combinazione non chiusa di componenti dinamici tra loro interagenti, come avviene in un qualsiasi “testo”.[15] In tale ottica esso non ha uno spazio né, tanto meno, una funzione predeterminata, bensì è un mosaico di elementi con una disposizione mutevole e, pertanto, non sempre costante. Esso è, come tutti i “testi”, l’ambito di una “scrittura” nella quale si riflettono conflittualità, valori ed emozioni che, preesistendo all’opera stessa, tentano poi, in varia misura, di governarne il successivo indirizzo di senso (Casetti 1994, p. 234).
In ogni caso, la “con-fusione” della figura autoriale all’interno del sistema cinematografico comporta, secondo Benjamin (1892-1940), anche la perdita dell’aura dell’attore stesso. Questo, a differenza di quello teatrale che si dà tutto al pubblico in “prima persona” ogni volta che entra in scena, è sempre mediato, all’opposto, da apparecchiature. Tale divergenza distribuisce i suoi effetti su due fronti distinti: il primo relativo al fatto che la “prestazione artistica” non è necessariamente presentata nella sua globalità; la seconda inerente l’impossibilità per l’autore cinematografico, a differenza di un collega che lavora in teatro, di adattare la sua interpretazione al tipo di pubblico che ha dinanzi. Conseguentemente, il pubblico potrebbe esprimere un giudizio sull’autore senza poterglielo manifestare direttamente, per lo meno non immediatamente data la presenza ineliminabile di un apparecchio per la riproduzione. L’immedesimazione del pubblico all’attore, pertanto, non può avvenire che per mezzo di tale apparato. Il fatto, determinante, che l’attore reciti di fronte ad un congegno comporta pure, secondo l’autorevole opinione del drammaturgo italiano Luigi Pirandello (1867-1936) riportata da Benjamin, che l’interprete cinematografico si percepisca come un essere esiliato.
“In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che tremola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela […] Pensa la macchinetta alla rappresentazione innanzi al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare innanzi a lei” (Pirandello, in Benjamin 1936, 1966, p. 32).
Ecco perché, pur offrendo tutto sé stesso, l’attore che non recita direttamente davanti ad un pubblico perde, inevitabilmente, la sua aura. Peculiarità che, come abbiamo già evidenziato in precedenza, è indissolubilmente legata ad uno specifico “hic et nunc”. L’artificiosa ricostruzione del “culto del divo” per il pubblico, secondo Benjamin, non serve affatto a compensare il “disagio dell’interprete”, proprio perché la peculiarità fittizia del personaggio costruito risentirà sempre della sua intrinseca caratteristica di merce (Benjamin 1936, 1966, pp. 31-33). Una singolarità che segna inesorabilmente la figura di ciascun divo, eternamente con-divisa tra due entità contrastanti: mito o eroe, per un verso, e merce, dall’altro (D’Amato 2001).
Con l’avvento del cinema, inoltre, il processo di “fantasmatizzazione della realtà” già da tempo avviato con le Grandi Esposizioni, registrò un cambiamento importante nelle “strategie di spettacolarizzazione delle merci”[16], con il loro avvento nell’evoluzione dei “grandi media audiovisivi” (Abruzzese 2003, p. 175).
Evolvendo, questo nuovo medium si è caratterizzato poi come:
“Un linguaggio che è strategia di comando perfettamente aderente alle pratiche e alle ideologie del «progetto moderno» con tutta la sua ambizione intellettuale di ri-ordinare il mondo, razionalizzarlo, renderlo socialmente funzionale (Abruzzese 2003, p. 70).
Un potere demiurgico, quello del cinema che ha sempre provocato un diffuso eccitamento ricettivo del quale l’industria culturale.[17]del Novecento ha saputo tenere conto per   governare   dall’alto   il    fenomeno,  conscia   anche   della   originaria   natura “anti-alfabetica” del medium, una caratteristica conservata anche nella sua fase successiva di “maturità” (ivi, p. 76).
All’insieme di riflessioni fino ad ora prese in considerazione potremmo aggiungere infine, come ha sottolineato Alberto Abruzzese (1942) in “Forme estetiche e società di massa”, che per quanto non pochi siano stati in grado di intuire nell’evoluzione del medium cinematografico le sue notevoli potenzialità e prospettive di utilizzo, non molti riuscirono ad immaginare la portata del consenso di pubblico che avrebbe effettivamente riscosso, tanto come forma orale di intrattenimento presso le masse quanto quale espressione artistica nell’ambito intellettuale (Abruzzese 1973, 2001, p. 88).
“Materiale semantico che ha prodotto il racconto letterario e poi cinematografico aggrega[ndo] esperienza mitica, vita metropolitana e macchineria teatrale” (Abruzzese 1996, p. 71).


 

1 Secondo le differenziazioni arendtiane esso, nell’evoluzione dalla “cultura classica” a quella “industriale” è stato rivalorizzato moralmente come espressione peculiare dell’essere umano.
“La valorizzazione del lavoro è un fenomeno peculiarmente moderno. Infatti, in greco la semantica della parola «lavoro» (pónos) è connotata negativamente in quanto fa riferimento all’idea di penuria (penía) e definisce il lavoro come attività legata al regno della necessità. Analogamente, in latino laborare è connesso al verbo labi «scivolare, cadere», come a sottolineare che il lavoro è «l’attivita di chi è curvo come chi scivola o cade». Ma oltre a segnalare l’aspetto penoso di chi lavora, la semantica della parola latina autorizza a pensare che il lavoro sia anche considerato come «attività che produce beni effimeri destinati a scivolare». Opera, invece, è termine che esprime etimologicamente opulenza e ricchezza, l’attività che edifica il regno della libertà. Ciò che fa dell’opera una ricchezza è precisamente il carattere di durevolezza e di intellegibilità che conferisce al mondo, laddove invece il lavoro è povero in quanto si limita a fornire mezzi di sostentamento per la vita organica, costantemente sottoposti all’instabile ciclo di produzione e consumo” (Abruzzese, Borrelli 2000, pp. 176-177).

2 Karl Marx (1818-1883), nel 1857-1858, così descriveva il “circolo ecologico” del finish:
“Ma non è soltanto l’oggetto che la produzione procura al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. Allo stesso modo che il consumo dava al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Insomma, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo che a sua volta dev’essere mediato dalla produzione stessa. […] Non è soltanto l’oggetto del consumo dunque ad essere prodotto dalla produzione, ma anche il modo di consumarlo, non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale – e l’attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una produzione imprigionata nella rozzezza naturale – esso stesso come propensione è mediato dall’oggetto. Il bisogno che esso ne avverte è creato dalla percezione dell’oggetto stesso. L’oggetto artistico – allo stesso modo di qualsiasi altro prodotto – crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente creato come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e la propensione al consumo. Allo stesso modo, il consumo produce la disposizione del produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che dà una finalità alla produzione” (Marx, in Abruzzese 1973, 2001, pp. 168-169).

3 Il film, secondo l’analisi di Abruzzese (1942), è risultato anche “un piccolo capolavoro di realismo ante litteram” e, al tempo stesso, data la sua essenza sostanzialmente manipolata, già assolutamente adeguato e strumentale agli scopi del contesto sociale nel quale era venuto alla luce (Abruzzese 1973, 2001, p. 88)

4 Commenta, al riguardo, il poeta.

5 Ispirandosi alle immagini muybridgeiane, dipinse, nel 1879: “A May Morning in the Park”; il quadro raffigura, sulla scorta delle opere del cronofotografo, un “tiro a quattro” di cavalli. Sul finire degli anni Settanta dell’Ottocento ebbe, inoltre, il ruolo di supervisore su di un progetto affidato a Muybridge dall’Università di Pennsylvania. Ideò anche, grazie all’aiuto dello stesso, una macchina fotografica dalle caratteristiche analoghe a quella di Marey, con una sola ottica e una “lastra mobile”, utilizzata per realizzare sequenze di immagini dedicate al moto degli atleti (Newhall 1984, pp. 166-167).

6 La cronofotografia avrebbe anche ispirato la riflessione di un altro gigante, del futurismo questa volta: Anton Giulio Bragaglia (1860-1960).

7 Inventore di apparecchi anche molto sofisticati realizzò, inoltre, diversi trattati ampiamente dedicati alla fotografia, quali: “Sugli sviluppi del metodo grafico con l’impiego della fotografia” (1884), “Fisiologia del movimento. Il volo degli uccelli” (1890), “Il movimento” (1894) e, ultimo solo in ordine di elencazione, “La cronofotografia” (1899) (Gilardi 2000, p. 305).

8 Lo “zoetrope”, uno degli apparecchi precursori del cinematografo era realizzato come una specie di tamburo, con delle fessure poste ad intervalli regolari sui suoi fianchi e le immagini incollate in strisce all’interno. L’osservazione delle immagini viste attraverso le fessure esterne dell’apparecchio, durante la veloce rotazione dello strumento, generava una fusione delle singole fotografie in un insieme che dava l’impressione del moto del soggetto raffigurato (Newhall 1984, p. 165).

9 A proposito della quale, si è parlato di una vera e propria scommessa.

10 E’ tuttora suggestiva la cronaca dell’evento (7 aprile 1873), pubblicata sulla rivista «Alta» di S. Francisco:
“Si raccolsero tutte le lenzuola che si poterono trovare nelle vicinanze della stalla per creare un fondo bianco all’oggetto; quindi Occident si abituò a passare sopra il tappeto bianco senza paura. Si presentava ora il problema: come poteva essere fissato un corpo che si muoveva alla velocità di circa 12 metri al secondo? Il primo giorno, il primo tentativo di aprire e chiudere l’obiettivo non diede alcun risultato; il secondo giorno, aumentando la velocità di apertura e di chiusura, fu colta un’ombra. Il terzo giorno, il signor Muybridge, avendo studiato a fondo il problema, progettò di far scivolare, grazie ad una molla, due cartoni uno sopra l’altro, avendo cura di lasciare un’apertura di un ottavo di pollice [cm. 0,31] per un cinquecentesimo di secondo, nel momento in cui il cavallo passava. Disponendo di due obiettivi incrociati, riuscì a ottenere un negativo che mostra Occident in pieno movimento: un’immagine perfetta del famoso cavallo” (Newhall 1984, p. 163).

11 Il riferimento è legato al già citato quadro di Thomas Eakins ( 1844-1916) intitolato “A May Morning in the Park”. Leggiamolo:
“Se tu fotografi un oggetto in moto, ogni sensazione di movimento è perduta, e l’oggetto all’improvviso è fermo. Valga come curioso esempio ciò che capitò a un pittore subito dopo la prima presentazione in America delle fotografie di Muybridge raffiguranti cavalli in moto. Il pittore voleva ritrarre un tiro a quattro mentre percorreva una strada al rapido trotto. Disegnò e ridisegnò, fotografò e rifotografò i cavalli fin quando riuscì a ritrarne il movimento in modo più splendido. Poi affrontò la carrozza. Disegnò tutti i raggi delle ruote, e all’improvviso parve che la scena si fosse pietrificata o bloccata. Non c’era più nessun movimento. Allora macchiò i raggi, rendendoli indistinti, e diede alla carrozza la parvenza del moto. Il risultato fu che la carrozza sembrava sul punto di precipitare addosso ai cavalli che erano sempre immobili” (Newhall 1984, p. 169).

12 Un esempio emblematico è certamente l’opera duchampiana intitolata “Nudo che scende le scale” (corsivo aggiunto), realizzata ispirandosi senz’altro all’opera cronofotografica mareyana.

13 Uno strumento di differenziazione della produzione atto a garantire la riduzione dei rischi di produzione (Dante 2002, p. 132).

14 L’espressione “industria culturale” affiora per la prima volta nell’opera di Max Horkheimer (1895- 1973) e Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) intitolata “Dialettica dell’Illuminismo”. La fortunata definizione intendeva sostituire quella di “cultura di massa”, allo scopo di evitare ogni possibile confusione con un’eventuale forma di arte contemporanea proveniente dal basso, dal popolo, piuttosto che una imposta dall’alto (Horkheimer, Adorno 1997). Di norma si parla di “industria culturale” allorché ci si trovi in presenza di un sistema di produzione e distribuzione di beni culturali gestito secondo un’ottica di tipo industriale e commerciale, ovvero su vasta scala e con criteri strategici non tanto inclini alla crescita culturale quanto al mero profitto. L’uso del singolare implicherebbe, inoltre, l’esistenza di un soggetto unico, ovvero di un sistema preordinato (Stazio, in Morcellini 2000). Questo modello, cosiddetto “trickle down”, è stato poi integrato da quello “a mosaico”, caratterizzato da diversi punti di creazione culturale (Moles, in Abruzzese, Borrelli 2000). In alternativa, quindi, si può anche parlare di “industrie”, al plurale, intendendolo come sistema più complesso ed eterodiretto (Eco 1994). Al dibattito sul tema si è unito il sociologo francese Edgar Morin (1921) che, a proposito della “cultura di massa”, quella “mass-culture” che un singolare “anglolatinismo” chiama “mass media”, aggiunge che si tratta di una “Terza Cultura” realizzata con criteri industriali massificati, volgarizzata per mezzo di metodologie di diffusione commerciale di massa e rivolta ad una “massa sociale” vista come un ammasso di persone individuate sia fuori che dentro le “strutture della società”. Una forma di cultura che può anche essere interpretata come una “gigantesca etica del loisir”, un universo simbolico ove la parola d’ordine obbligata è “felicità”, vero motivo conduttore della cultura massificata. Un complesso valoriale che, “in nuce”,  si configura come una vera e propria “religione”, anche se priva di una caratteristica peculiare, ovverosia “la promessa dell’immortalità” (Morin 1962, 2002, pp. 14, 81, 159, 206).

15 Un “testo”, per la semiotica, non è esclusivamente un insieme testuale in senso stretto (parole parlate o scritte, ad esempio), bensì un più ampio contenitore di senso.

16 “Utilizzando il desiderio e il sogno come ingredienti e come mezzi del gioco dell’offerta e della domanda, il capitalismo, lungi dal ridurre la vita umana al materialismo, l’ha permeata al contrario di un onirismo e di un erotismo diffusi […] L’erotismo della merce è soprattutto pubblicitario, e pertanto concerne direttamente la cultura di massa, che ingloba i più importanti mezzi di pubblicità moderni (giornali, radio, televisione) […] Il capitalismo è il grande agente della «libidinizzazione» moderna” (Morin 1962, 2002, pp. 146, 214).

17 L’industria culturale, cogliendo delle affinità con il “nonluogo” augéiano, è uno “spazio a-topico” di vita, comunicazione ed azione (Abruzzese 2003, p. 70).

Riferimenti

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La fotografia e l’autoreultima modifica: 2008-01-03T16:10:00+01:00da
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