Fotografia, comunicazione, media e società

Fotografia, Avanguardie e proto-tv

Il medium fotografico negli anni delle Avanguardie e degli albori della televisione

di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@gmail.com
04/04/2008

Le Avanguardie furono caratterizzate dalla presenza di autori i quali, pur nella peculiarità di ciascuna espressione, furono animati dall’aspirazione di favorire un’evoluzione modernizzatrice dell’arte e, più in generale, della cultura all’interno di un consapevole processo d’interazione e di contrapposizione con lo sviluppo dell’economia di mercato. Un processo evolutivo dell’espressione artistica che mise in discussione i vincoli dogmatici classici rimodulando radicalmente l’idea tradizionale di arte, a partire dalla non più condivisa necessità delle inusuali capacità manuali dell’esecutore sino alla metaforica “scomparsa” dell’autore e alla totale rimodulazione estetica dell’opera tradizionale, come nel caso dei celebri ready made duchampiani. La fotografia, forte dell’acquisizione di questo ulteriore grado di maturità e dell’ampio grado di diffusione raggiunto anche grazie allo sviluppo tecnologico, divenne così uno strumento imprescindibile per allargare ed adattare alla dimensione del tempo gli ormai angusti limiti della visione negli anni della proto-tv.

Negli anni della proto-tv, il movimento costantemente aperto ed anticipatore delle Avanguardie con il suo portato conflittuale verso il contesto socioculturale del tempo condensò una profonda frattura culturale rispetto al periodo precapitalista (Signorini 2001, p. 3).

Un’accesa conflittualità che mutuava sostegno anche dall’esigenza di smantellare la supremazia del modello imitativo radicatosi in precedenza, fondando semmai la rappresentazione, piuttosto che su attività preminentemente mimetiche, su espressioni perfino “anti-mimetiche” (Wunenburger 1999, pp. 182-187).

In questa prospettiva, il manifestarsi della “necessità storica” (Lemagny, Rouillé 1988, p. 12) insita nell’avvento del medium può essere posta in relazione al fatto che:

“La fotografia è prima di tutto un’idea, il desiderio del fantasma, che precede la data fatidica del 1839, per vivere una gestazione durata a lungo nel tempo. E poi nella metropoli industriale che si diffonde, piattaforma essenziale dello sviluppo della comunicazione visiva generalista, che esonera l’artista dalla riproducibilità analogica del reale ed entra, fin dal suo primo annuncio, in relazione con arti, scienze, letteratura, economia e mercato dei consumi. Rapidamente si fa oggetto di riflessioni previsionali che traducono prima del tempo l’essenza della civiltà dell’immagine” (Fiorentino in Abruzzese 2003, p. 208).

Una civiltà delle immagini che fissò un altro tassello importante del suo fortunato corso con la realizzazione, a Londra nel 1925, della prima immagine tele-visiva ad opera di John Baird. Un evento al quale, dopo quattro anni, sono seguiti analoghi risultati ottenuti da due ingegneri italiani,[1] a Milano nel 1929, negli studi di quella che inizialmente è stata l’U.R.I..[2] I primi rudimentali esperimenti di invio a distanza di immagini, ancora lontani dalla successiva evoluzione elettronica, erano basati sull’utilizzo di un “disco rotante”,[3] caratterizzato da una serie di minuscoli forellini ove filtravano le proiezioni inviate da un «pennello» dopo la sua esplorazione del soggetto di cui si intendeva effettuare la trasmissione ottica. Questi primi esperimenti, per quanto concerne il caso italiano, sono passati alla storia per la trasmissione a distanza dell’immagine – emblematica essa stessa – di una bambola di panno “Lenci”. Dovranno passare, però, ancora altri tre anni, affinché la prototelevisione italiana compia ulteriori passi avanti e possano essere realizzate le prime sperimentazioni di quella che fu definita la «radiodiffusione» (Grasso 2000, p. 3).

Nel frattempo, il fenomeno delle Avanguardie, che aveva già presentato un suo primo dispiegamento di forze già nella seconda metà del XIX secolo, si sarebbe poi rivelato a pieno e fin dagli inizi del Novecento “in non casuale coincidenza con l’estendersi, nei paesi occidentali più avanzati, di una “società capitalistica di massa” (Signorini 2001, p. 3).

Lo stesso concetto di avanguardia è legato indissolubilmente, in un vincolo di vita e probabilmente perfino di morte, con questo modello di società.

Le Avanguardie sono nate, in effetti, dal rifiuto dell’evoluzione della pratica “artistica e letteraria” (ma anche altrove) a causa del contagio dilagante della dimensione mercantile a discapito dei tradizionali concetti di “lavoro concreto” e “valore d’uso”. L’utopia concentrata nell’anelito di fondere insieme la dimensione esteriore dell’autore e, insieme, la negazione di alcuni canoni classici della produzione artistica si inquadrarono in un panorama più ampio di forte contrapposizione ideologica tra il passato e la contingente dimensione produttiva capitalista, in particolare per ciò che concerne il “lavoro intellettuale”, anche attraverso l’incontro con gruppi interessati ad un’analisi critica del “rapporto tra “élite e massa” (Asor Rosa, in Signorini 2001, p. 5).

Di fronte ai vari ambiti artistici, letterari, umanistici si delinearono, dunque, le prospettive produttive e distributive progressivamente offerte dal sistema capitalista. Uno scenario evolutivo che, come contropartita, manifestava però una costante tendenza all’annichilimento della singola espressione autoriale, anche a causa delle relative politiche di “valorizzazione” che, in prospettiva, avrebbero reso affine ad una qualsiasi altra “merce” anche la produzione intellettuale.

Da questa angolazione critica, sebbene:

“L’arte trov[i, N.d.R.] il suo mer­cato proprio in quanto rifiuta certe leggi dominanti della produzione capitalistica (vende cioè forma a chi non ha forma, libertà a chi non ha libertà, indi­vidualità a chi non ha individualità)” (ivi, p. 5).

deve, però, mettere in conto che, pur creandosi un proprio circuito commerciale, deve accettare:

“Le regole del mer­cato capitalistico ed è perciò costretta a introiettare lavoro senza qualità, senza forma, senza libertà, senza individualità, e ad accostarsi sempre di più agli umori, ai gusti, alle abitu­dini, alle tendenze e alle richieste delle masse, che chiedono visioni di libertà e di riscatto ma impon­gono poi lo spessore delle proprie mediazioni intellettuali e mo­rali per accettarle (e “comprarle”)” (ivi, p. 5).

Innanzi a questa irriducibile contraddizione, succube di una certa impotenza di fronte ai modi di produzione capitalistica e ai suoi processi di segmentazione dell’attività lavorativa, la produzione avanguardista assunse il ruolo di simbolica spia e testimone di questa incorreggibile tendenza dell’animo umano verso una qualche deriva alienante, così come, emblematicamente, tentò di sottolineare il dadaismo (ivi, p. 5).

Con il dadaismo, innanzi tutto:

“L’opera d’arte diventò un proiettile” (Benjamin 1936, 1966, p. 43).

Dada fu, infatti, il rifiuto del procedimento di attribuzione di valore tradizionale, considerato il fatto che, concretamente, l’opera vale per il suo creatore, in quanto combinazione di componenti aggregati casualmente e non desidera affatto divenire un mero mezzo di elaborazione della realtà pur non potendo, al di là di eventuali intenzioni contrarie, sfuggire in assoluto ad un processo di valorizzazione materiale. Nonostante, quindi, un’apparente negazione, il mercato riesce a promuovere e vendere persino questa rinuncia, in quanto:

“Il mercato mercifica il rifiuto del mercato. Il massimo della libera­zione dall’alienazione coincide con la contemplazione nuda, assoluta ed immobile del­l’alienazione”[4] (Asor Rosa, in Signorini 2001, p. 5).

Un’ancora contro l’alienazione fu, appunto, il rifiuto dei valori tradizionali a favore, piuttosto, dell’emergere di una “nuova naturalità” in una altrettanto nuova dimensione “dialettica” non più in contrapposizione con il passato e foriera, pertanto, di una dissoluzione della ragion d’essere stessa della rivoluzione[5] avanguardista che, anche allo scopo di attuare una distinzione dai percorsi in qualche modo affini registrati in seguito, è stata poi definita “avanguardia storica”.

Una delle sconfinate e rilevanti conseguenze prodotte da questa “rivoluzione interrotta” risultò l’aver rimesso profondamente in discussione la tradizionale contrapposizione, sebbene inevitabile in una dimensione capitalistica, tra lavori di alta e bassa “qualità”.

L’“avanguardia storica” sollecitò, infatti, una violenta risemantizzazione dei valori concernenti il lavoro, considerandone talora persino antiproduttive le sue stesse qualità intrinseche, e stimolando, conseguentemente, gli artisti ad indirizzare altrove il processo di attribuzione di valore delle loro produzioni. Traguardo ideale di questo nuovo corso divenne la realizzazione di opere che, pur non negando la presenza concreta nelle opere di significativi “elementi di astrazione” e di “genericità”, restassero ancora nell’ambito del “lavoro concreto”.[6]

Nell’insieme, si è, di norma, trattato di esplicite manifestazioni simboliche che, intenzionalmente, erano tese a rivoluzionare il quadro dei rapporti tradizionali preesistenti allo scopo di “modificare il mondo senza uscire dalla forma”. Qualora, invece, quest’ultima sia stata abbandonata, ciò può essere avvenuto anche per consolidare il principio che le regole esistono anche in funzione del fatto che qualcuno [leggasi: le Avanguardie, N.d.R.] possa, quindi, farle a pezzi per poi passare oltre (ivi, pp. 6-7).

Anche il Surrealismo, emerso nei primi decenni del XX secolo quale strumento per affrancarsi dalla realtà borghese, ha poi registrato la sua definitiva consacrazione dissolvendosi definitivamente, nell’ultimo quarto del Novecento, nella prassi massificata:

“Dall’abolizione dei nessi spazio-temporali all’automatismo verbale, dall’uso della droga e dell’erotismo in funzione di perdita dell’identità e di estasi fino alla scomparsa, almeno apparente, di ogni distinzione fra arte e non arte” (Fortini, in Signorini 2001, p. 17).

Tutti questi comportamenti “mentali e linguistici” surrealisti vengono incuneati nella società contemporanea innanzitutto per il tramite dei canali televisivo e pubblicitario (ivi, p. 17).

A tale scopo, il canale privilegiato per la sollecitazione mercantile rimane, da sempre, la réclame, apparsa per la prima volta in Francia nel 1820. Essa pur apparendo come un evidente elemento della contingente economia di mercato è stata, in realtà, una manifestazione tipica del capitalismo sviluppato, acquisendo un certo valore nella sua fase di concentrazione nell’ambito industriale avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento. In tale periodo, nelle “case distinte”, persisteva ancora una diffusa ostilità finanche nei confronti dei piccoli avvisi commerciali. In quel momento storico la propaganda commerciale era ancora considerata disdicevole, ragion per cui il vero commercio veniva prioritariamente regolato “face to face”, così come l’antagonismo negli affari si affidava ancora alla promozione a voce (Habermas 2000).

La popolare e mediatica forma di Surrealismo contemporaneo è ormai distante dallo status originario già individuato dall’analisi adorniana, capace, cioè, di veicolare una carica scandalistica nella quale era insita anche una vera e propria garanzia di appagamento. In seguito esso ha funzionato, piuttosto, come amplificatore di fantasie e necessità analoghe a quelle che “il sistema produttivo” era già pronto a soddisfare, di modo che:

“Il Surrealismo […] è divenuto […] il fissativo storico dell’Avanguardia, il veicolo che l’ha portata al di là dei suoi caratteri originari, ed ha finito col farla diventare una contraddizione in termini: ossia l’Avanguardia-Di-Tutti […] simmetrica e non antagoni­sta alla alienazione tecnocratico-produttivistica di massa” (Fortini, in Signorini 2001, pp. 17-18).

La stessa fotografia, intimamente, è un’autentica rappresentazione surreale. Il surrealismo, di fatto, diviene un elemento essenziale della fotografia allorché essa crea un altro reale, un universo riprodotto, una realtà secondaria tanto apparentemente più contenuta quanto, per la intrinseca carica di pathos caratteristica di ogni istantanea, altamente più emotiva di un’osservazione reale (Sontag 1978, p. 46).

La fotografia potrebbe, quindi, essere considerata come una vera e propria forma di surrealismo ante litteram.

Contro il crudo realismo delle istantanee si diresse quella che, allora, diventò la mal  riuscita  lotta  del  Fotodinamismo  futurista[7]  dei  fratelli Bragaglia. Un percorso avviato prendendo spunto dalle suggestioni ispirate dall’esperienza della cronofotografia della quale non accettavano, però, la razionale meticolosità stilistica. L’azione, dal loro punto di vista, doveva essere inafferrabile pur risultando, al tempo stesso, ben visibile; in altri termini, inseguivano l’ideale dinamico di un’immagine senza soluzione di continuità visiva, alternativa a fotografie inevitabilmente frazionate per periodi. A questo scopo tentarono di riprodurre ripetutamente l’esecuzione di movimenti e, insieme, il relativo tempo di svolgimento, entrambi simultaneamente congelati nelle celebri scie che caratterizzarono le fotografie del movimento fotodinamista. Rappresentazioni contraddittorie, ossimori visuali che, pur non esercitando grande ascendente all’epoca in cui furono realizzate, rimarranno per sempre un’emblematica espressione di radicalizzazione della riflessione sulle prerogative del medium fotografico (AA. VV. 2001, p. 103). Il cammino comune con la pittura futurista, sia per questioni di rivalità sia per problemi di tipo tecnico, non fu né lungo né affiatato, tutt’altro. Resta il fatto che, nonostante le idiosincrasie fra il polo futurista fotografico e quello pittorico, quest’esperienza si caratterizzò per la possibilità concreta di collaborazione offerta a istanze creative formalmente diverse, benché concretamente accomunate da un intento sostanzialmente analogo: la resa del moto su una superficie piana, a prescindere che si trattasse di quella di un quadro o di una fotografia (Lemagny, Rouillé 1988, p. 106).

La contrapposizione delle avanguardie al sistema era indirizzata, inoltre, contro la tendenza all’autonomizzazione e all’istituzionalizzazione dell’arte nell’ambito borghese, ritenendo critico il distacco dal quotidiano, dal reale, dell’espressione artistica.

Nello specifico la critica contro l’istituzionalizzazione e il distacco dalla vita concreta dell’arte si manifesterà, innanzi tutto, attraverso un principio di vero è proprio superamento dell’arte stessa; un percorso che, prendendo spunto dalla contingente e tendenziale autonomia dell’arte dalla concretezza del reale, sfocerà anche in una valutazione complessiva dell’utilità/inutilità dell’arte così come era precedentemente concepita. L’opposizione delle avanguardie si estese anche all’aspetto inerente la “produzione” delle opere, inteso come peculiare momento di espressione individuale, al quale opposero, invece, la dissoluzione della figura autoriale unitamente ad un atteggiamento di diffidenza nei confronti del mercato di settore, emblematicamente condensati nelle provocatorie creazioni duchampiane.[8]

Tendeva a contrarsi, infine, la tradizionale “ricezione individuale” dell’opera. Ad essa si sarebbe affiancata, piuttosto, una nuova relazione, una potenziale dissoluzione delle figure di creatore e fruitore, individuando, per quest’ultimo, finanche un ruolo partecipativo, non tanto nell’ambito della realizzazione in senso stretto dell’opera, quanto nella sfera dell’utilizzo della stessa in funzione emancipatrice (Signorini 2001, pp. 7-8).

Volendo, a questo punto, riprendere alcuni punti del contributo delle Avanguardie potremmo, sinteticamente, accennare al discorso sui materiali con i quali si esprime l’artista, a quello relativo alle modalità tecniche dell’esecuzione e a quello inerente la  funzione stessa dell’autore, non solo in ambito pittorico. Un patrimonio di valori simbolicamente riassunto in alcune opere dall’emblematicità estrema quali, ad esempio, ciascun ready-made. In tale ottica, le Avanguardie, rimodulando profondamente la lettura dell’arte del XX secolo, sottolinearono la fine della supremazia del “quadro”, tanto come oggetto fisico quanto come strumento teorico, considerandolo solo una, tra altre, delle possibili modalità di espressione dell’artista visivo. Quanto all’ambito delle modalità di esecuzione, la non comune abilità manuale, prima considerata patrimonio fondamentale di ogni autore “di rilievo”, cessò di essere un elemento fondamentale del bagaglio espressivo dell’artista. Un elemento, questo, che poteva addirittura scomparire, non risultando più necessario, per le Avanguardie, che l’autore fosse anche il materiale esecutore dell’opera, potendosi circoscrivere la sua azione alla sola ideazione della stessa. Di quest’ultimo aspetto, Marcel Duchamp (1887-1968) rappresentò l’incarnazione esemplare limitandosi, attraverso l’invenzione dei ready-made, soltanto ad immaginare e suggerire al destinatario ideale quale fosse l’opera, anche fotografica, piuttosto che realizzarla concretamente (Marra 2001, p. 17).

Una “verifica” italiana di questo genere applicazioni concettuali è stata esplorata dal fotografo Ugo Mulas (1928-1973). Egli realizzò un’opera dedicata inizialmente a Nièpce che, riflettendo poi sulla prassi Dada, dedicò, in seguito, anche a Duchamp. Si trattava, concretamente, di una stampa per contatto di un’intera pellicola non esposta, se non per la parte iniziale del film posta all’esterno dell’involucro protettivo del rullo fotosensibile, poi sviluppata e fissata come è ancora prassi normale fare con i materiali fotografici tradizionali. In quest’opera, in particolare in quell’iniziale “pezzetto di film” di cui si è accennato, era condensata, secondo l’analisi iniziale di Mulas, l’invenzione fotografica. Ma l’accostamento successivo alla prospettiva duchampiana emerge, inatteso, nel tentativo, poi realizzato, di biffare l’opera per ridurne la relativa tiratura. In quel gesto, secondo l’autore, c’è stato l’effettivo slittamento semantico che ha motivato l’inserimento tra i destinatari della “dedica”, oltre che di Nièpce, pure di Duchamp. Aggiunge, quindi, a proposito del clima culturale in cui è maturata questa creazione:

“La fotografia non ha affatto sganciato la mano dell’uomo da un fatto creativo, [benché si sia] prestata a operazioni molto ambigue. Mi è così venuto in mente di chiamare l’oggetto che ne è venuto fuori, questa fotografia o questa non-fotografia, verifica” […] Ho dedicato questa cosa a Duchamp, perché dopo averla fatta mi sono reso conto che la prima verifica, quella dedicata a Nièpce non l’avrei mai fatta se non vivessi in questo clima che si rifà in parte a certe ribellioni Dada e soprattutto a un certo spirito di Duchamp, a quell’atteggiamento di apparente negazione che è stato la base dei suoi ultimi 50 anni; direi che è stato la base di quasi tutto il suo lavoro, non soltanto dell’ultimo, anche prima” (Mulas 1989).

Quale conseguenza di questa nuova concezione, l’arte avvertì l’esigenza di ridiscutere le sue distanze dal quotidiano, per evitare o, all’opposto, favorire la sua stessa “morte” eventuale (Marra 2001, p. 17).

Il discorso sulle “assenze”, in realtà, ha sempre incrociato il cammino del medium fotografico, soprattutto con l’intento di patrocinare una visione tendente ad affermare la sua ipotizzata aureferenzialità linguistica. Questo, a differenza della pittura, è sempre stato sbilanciato sul fronte della presunta e sostanziale obiettività, secondo una linea di pensiero determinista, che certamente ha ispirato la concezione baziniana dell’assenza umana nella fotografia, rispetto a quanto avviene, invece, in altre espressioni artistiche (Bazin 1973).

Riguardo, nuovamente, al tema dell’abilità manuale, va detto che esso assunse un ruolo centrale nella feroce critica che il poeta francese Charles Baudelaire (1821-1867), nei suoi celebri “Scritti sull’arte” dedicati al “Salon del 1859 ”, indirizzava nei confronti della fotografia. Il poeta, infatti, asseriva che, in contrapposizione al nuovo medium fotografico, l’arte “vera” nega in modo assoluto la natura reale delle cose, per cui non si può essere al cospetto di un’opera d’arte in presenza dell’imitazione speculare della realtà tipica della fotografia. Il tono si faceva ancora più aspro nei confronti di coloro che, nel mezzo fotografico, vi avevano trovato rifugio provenendo da altri ambiti espressivi, ragion per cui la fotografia diveniva l’emblematica “palestra dei pittori mancati”, di tutta quella massa di autori senza grandi qualità e prospettive di successo artistico e, quindi, estranei all’arte in senso stretto. In essa, come già sottolineato precedentemente, dovrebbe potersi esprimere soltanto chi sia concretamente e intellettualmente dotato di quelle qualità peculiari caratteristiche del vero artista. Non mancava, infine, nell’analisi baudelaireiana anche un’accusa al connubio fotografia/industria, alla sostanziale riconducibilità all’ambito industriale del medium visivo e tale aspetto rappresentava, nuovamente, un altro elemento a riprova della sua estraneità alla sfera dell’arte (Baudelaire 1981, p. 216 e segg.).

I fotografi, nel tentativo di opporre valide argomentazioni a tale impianto critico, tentarono, in vari modi, di rivestire i panni dell’artista tradizionale. A tale scopo, cercarono di dare prova, per mezzo di raffinatezze manuali volte a contenere per quanto possibile gli automatismi delle fotocamere, di essere in grado di poter presentare al pubblico dei “prodotti” che, considerate le complessive modalità di produzione e “non tanto per i soggetti e le modalità espressive”, potessero essere inquadrabili nell’ambito della produzione artistica, così come questa era allora percepita (Marra 2001, p. 18).

Sforzi verosimilmente vani, se si tiene conto del fatto che:

La fotografia assomiglia a un quadro ma di fatto funziona come un ready made”[9] (Marra 2000, p. 15).

Una considerazione che, nel rendere centrale il prelievo dalla realtà operato con il ready-made, si discosta definitivamente dall’idea di un’arte fondata sulla “techne”, sulle abilità nella creazione di un “manufatto”.

Il movimento avanguardista, alla questione dell’autonomizzazione dell’arte, affiancò, inoltre, quello della rinegoziazione dell’organicità, della “coerenza unitaria dell’opera”, frantumandone la precedente concezione “organica” e sostituendola con l’allegorica astrazione benjaminana di “opera d’arte non organica”.

Un’opera d’arte “organica”, o «simbolica», è caratterizzata dalla sintesi dell’universale e del particolare in un’unica dimensione. Una unitarietà indiretta è riscontrabile, invece, in quella “non organica”, o “allegorica”, ove tale connessione è, all’opposto, non immediata, ricomponendosi, talvolta, solo attraverso la figura del soggetto destinatario. In altri termini, nel primo caso, quello che domina la compattezza, l’unitarietà dell’opera è un’idea generale di struttura, mentre, nel secondo caso, le frazioni, rispetto al tutto, sono dotate di una più ampia flessibilità, anche interpretativa, e autonomia nei confronti della totalità. Le parti del tutto, pur nell’immediata e apparente svalutazione di senso rispetto ad un insieme unitario significante, riacquistano, nel contempo, autonomamente nuovo valore come “segni” essenzialmente collegati ad un reale concreto, piuttosto che all’opera nel suo insieme (Signorini 2001, p. 8).

Tutta questa serie di elementi modernisti hanno anche contribuito ad un plausibile superamento dell’avanguardia classica in “un’avanguardia in senso lato” favorendo, altresì un radicarsi della stessa come “seconda natura di tutta l’arte moderna” (Poggioli, in ivi, p. 9).

In questo panorama, avendo la fotografia favorito uno svuotamento dell’utilità pratica dell’espressione artistica, quest’ultima, per una sorta di scambio simbiotico, ha gradualmente sgombrato la fotografia dei suoi più peculiari “materiali”, riutilizzandoli al suo interno per i propri specifici fini estetici e simbolici. In questo graduale ma costante processo, la fotografia tende, al di fuori del suo utilizzo “scientifico”, sovente all’annichilimento, mentre nel campo artistico, paradossalmente, la fagocitazione del medium fotografico è sempre più usata in funzione della creazione di opere progressivamente più astratte dal reale. Il mezzo ritenuto comunemente più “realistico” si ribalta, quindi, in un concentrato d’astrazione in ambito artistico (Gilardi 2000, pp. 307-309).

Nel movimento avanguardista, l’analisi adorniana intravide poi una sorta di reazione di fronte al tentativo di mercificazione dell’arte e della letteratura. Uno sforzo vanificato dalla rapida mutazione del sistema mercantile capitalista nel suo opposto esemplare, il museo,[10] altrettanto capace di rendere inoffensiva la protesta dell’espressione artistica. Del sovversivo patrimonio simbolico delle Avanguardie storiche oggi, nel rinvigorito panorama “neocapitalistico”, restano soltanto semplici schemi ad uso e consumo della comunicazione del nostro tempo, quali reduci esausti di quel complesso di valori rivoluzionari di un tempo ormai definitivamente andato (Fortini, in Signorini 2001, p. 16). Un’epoca che si è lasciata alle spalle anche le idee antiscientifiche sui media elaborate tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, quale quella passata alla storia con il nome di “teoria ipodermica” o “teoria del proiettile”.[11]

Occorrono, dunque, modalità per mezzo delle quali un’autentica espressione artistica d’avanguardia possa, di fatto, distaccarsi dalla manipolazione del reale operata dall’industria culturale nel contesto della società di massa attuata attraverso una politica che tende a rendere tutto acriticamente simile, intercambiabile e condizionato al solo “valore di scambio”. In questa prospettiva, una via d’uscita è rappresentata dall’arte avanguardista che reagisce evadendo tramite un cambio di “forma”. In tal modo, secondo la visione adorniana, l’arte diverrebbe critica attraverso la propria “forma”.

“Tutta l’arte d’avanguardia nell’ambito visivo nei primi decenni del nostro secolo (specialmente negli anni 1910-1925) cerca di mettere in atto questa distanza e tale dimensione critica – di far emergere una nuova aura -attraverso la costituzione di un nuovo codice iconico, non rappresentativo, inoggettivo, astratto” (De Paz, in Signorini 2001, p. 12).

Le successive trasformazioni della società capitalistica intervenute tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, modificando e quasi annichilendo il portato storico dell’avanguardia tradizionale, hanno profondamente trasformato il contributo della stessa ad una mera forma di ironia formalizzata ed ormai intorpidita (Fortini in Signorini 2001, p. 17).

“Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il nuovo totalitarismo si manifesta precisamente in un pluralismo armonioso, dove le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un mare di indifferenza. Prima […] la letteratura e l’arte […] alimentavano e proteggevano la contraddizione, la coscienza infelice del mondo diviso, le possibilità frustrate, le speranze non realizzate, e le promesse tradite. Erano una forza razionale, cognitiva, volta a rivelare una dimensione dell’uomo e della natura che era repressa e respinta nella realtà. […] [Erano] il Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è. […] Ora questa lacuna essenziale tra le arti e l’ordine sociale in atto […] viene progressivamente colmata dalla società tecnologica in espansione. Con la sua graduale scomparsa, il Grande Rifiuto viene a sua volta rifiutato; l’“altra dimensione” viene as­sorbita nello stato di cose prevalente. Le opere […] sono incorporate in questa società e circolano come parte integrante dell’attrezzatura che adorna lo stato di cose prevalente […]. Esse diventano in tal modo strumenti pubblicitari — servono a vendere, a confor­tare o ad eccitare” (Marcuse in Signorini 2001, p. 39).


 

[1] Alessandro Banfi e Sergio Bertolotti.

[2] Ovvero l’Unione Radiofonica Italiana poi divenuta EIAR, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (Grasso 2000, p. 3).

[3] Disco di “Nipkow”, inventato nel 1906.

[4] Lo studio del mondo del lavoro, secondo quanto si affermano le analisi di ergonomia (la scienza che studia le modalità più idonee per adattare l’attività lavorativa all’essere umano, e non viceversa), sottolinea la possibilità che emerga, fra altri, un rischio fondamentale, peraltro capace di svilupparsi in qualsiasi ambito lavorativo: quello relativo all’insorgere di varie forme di “alienazione”. Queste, in sintesi, possono essere distinte in tre categorie, ovvero l’alienazione: “mentale”, “professionale o culturale”, “sociale”. La prima riguarda quei soggetti, ancora apparentemente integrati nella società che, invece, sono degli «esclusi dall’interno», ripiegati su sé stessi a causa della mancanza di confronto con l’esterno; sono coloro che fanno in modo di fare sempre e solo ciò che sanno già fare. La seconda, quella “professionale o culturale”,  attiene quei gruppi, caratterizzati da un’analoga linea di pensiero, che, per eludere il confronto con la realtà, con ciò che potrebbe essere diverso da loro, formano congregazioni settarie: professano il culto del “modello unico” in opposizione alla “cultura dell’alterità” tendendo, costantemente, all’autoreferenzialità. La terza tipologia di “alienazione”, la cosiddetta forma “sociale”, riguarda quei soggetti che pur lavorando concretamente e con competenza non riescono ad affermarsi come tali, perché letteralmente ignorati; questi individui, di fatto, sono costretti a vivere in una sorta di isolamento psicologico, costretti a condividere costantemente soltanto “l’esperienza di ciò che gli resiste”, dato che non vi è riconoscimento della “qualità” del loro lavoro (Ivaldi 1999).

[5] In origine, in effetti, uno dei proponimenti di base dell’Avanguardia era, proprio, quello rivoluzionario, la realizzazione di una diversa quotidianità ottenuta per mezzo della rivoluzione. Ben diverso fu, in effetti, la consuetudine che l’Avanguardia vide poi emergere, con l’evolversi, nel tempo, della società industriale e del contributo sempre più significativo in esse espresso dalle masse (Asor Rosa, in Signorini 2001, p. 6).

[6] Paradigmatici e, al tempo stesso, concreti esempi di questa nuova tendenza ideologica possono essere rintracciati nella effettiva compresenza di aspetti fortemente concettuali, connotanti singolarità e peculiarità, insieme ad un grado rilevante di indistinzione, intesi quali elementi distintivi di un qualcosa di “uguale e indifferenziato” per chiunque come condensano: il quadrato bianco di Malevic (Asor Rosa, in Signorini 2001, pp. 6-7), in ambito pittorico, e le opere di Man Ray, per quel che concerne il medium fotografico.

[7] Il “Manifesto” della “Fotografia Futurista” (1931), redatto nella fase centrale del regime mussoliniano, circa vent’anni dopo l’invenzione del fotodinamismo dei fratelli Bragaglia, immaginava così la fotografia:

“La fotografia di un paesaggio, quella di una persona o di un gruppo di persone, ottenuta con un’armonia, una minuzia di particolari ed una tipicità tali da far dire: «sembra un quadro», è cosa per noi assolutamente superata. Dopo il fotodinamismo o fotografia del movimento creata da Anton Giulio Bragaglia in collaborazione con suo fratello Arturo, presentata da me nel 1912 alla Sala Pichetti di Roma e imitata poi da tutti i fotografi avanguardisti del mondo, occorre realizzare queste nuove possibilità fotografiche: 1. il dramma di oggetti immobili e mobili; e la mescolanza drammatica di oggetti mobili e immobili; 2. il dramma delle ombre degli oggetti contrastanti e isolate dagli oggetti stessi; 3. il dramma di oggetti umanizzati pietrificati cristallizzati o vegetalizzati mediante camuffamenti e luci speciali; 4. la spettralizzazione di alcune parti del corpo umano o animale isolate e ricongiunte alogicamente; 5. la fusione di prospettive aeree marine terrestri; 6. la fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso; 7. le inclinazioni immobili e mobili degli oggetti o dei corpi umani ed animali; 8. la mobile o immobile sospensione degli oggetti ed il loro stare in equilibrio; 9. le drammatiche sproporzioni degli oggetti mobili ed immobili; 10. le amorose o violente compenetrazioni di oggetti mobili o immobili; 11. la sovrapposizione trasparente e semitrasparente di persone e oggetti concreti e dei loro fantasmi semiastratti con simultaneità di ricordo sogno; 12. l’ingigantimento straripante di una cosa minuscola quasi invisibile in un paesaggio; 13. l’interpretazione tragica o satirica della vita mediante un simbolismo di oggetti camuffati; 14. la composizione di paesaggi assolutamente extraterrestri, astrali o medianici mediante spessori, elasticità, profondità torbide, limpide trasparenze, valori algebrici o geometrici senza nulla di umano né di vegetale né di geologico; 15. la composizione organica dei diversi stati d’animo di una persona mediante l’espressione intensificata delle più tipiche parti del suo corpo; 16. l’arte fotografica degli oggetti camuffati, intesa a sviluppare l’arte dei camuffamenti di guerra che ha lo scopo d’illudere gli osservatori aerei. Tutte queste ricerche hanno lo scopo di far sempre più sconfinare la scienza fotografia nell’arte pura e favorirne automaticamente lo sviluppo nel campo della fisica, della chimica e della guerra.” F.to Marinetti Tato (Gilardi 2000, p. 303).

[8] Marcel Duchamp (1887-1968), nel 1913, elevò ad “opera d’arte” un tipico prodotto seriale: una “Ruota di bicicletta” (Bürger, in Signorini 2001, p. 8).

[9] Corsivo nel testo.

[10] “Un tempo luogo deputato alla conservazione e all’esposizione delle belle arti del passato, il museo è diventato una grande istituzione educativa-emporio, una delle cui funzioni è quella di esporre opere d’arte. La funzione primaria è un misto di intrattenimento e istruzione, insieme alla commercializzazione di esperienze, gusti e riproduzioni” (Sontag 2003, p. 105).

[11] La teoria ipotizzava una diretta corrispondenza tra il messaggio veicolato dai media e le reazioni passive dei suoi destinatari, analogamente all’effetto di un proiettile o ad un ago ipodermico. Nel periodo successivo, si assistette ad uno slittamento che, rimodulando il modello precedentemente fondato sulla contrapposizione “Stimolo-Risposta”, proponeva lo schema “StimoloInterpretazioneRisposta”, fondato invece sull’ipotesi di variabilità della potenziale risposta del soggetto destinatario, considerato nella sua peculiarità di individuo e non più come elemento di una massa indistinta e, praticamente, acefala. Sulla scorta di queste speculazioni teoriche, si affermeranno poi, negli anni Quaranta  del Novecento  sia la figura degli “opinion leaders” sia lo schema del “two-steps flow” (Wolf 2000).

Riferimenti

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Abruzzese A., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003
Baudelaire C., Salon del 1859. Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1981
Bazin A., Che cos’è il cinema?, Garzanti Editore, Milano, 1973
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966
Gilardi A., Storia sociale della fotografia, Mondarori, Milano, 2000
Grasso A., Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano, 2000
Habermas J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 2000
Ivaldi I., Ergonomia e lavoro, Liguori Editori, Napoli, 2005
Lemagny J. C., Rouillé A., Storia della fotografia, Sansoni, Milano, 1988
Marra C., Il battito della fotografia, Il Mulino, Bologna, 2000
Marra C., Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Mondarori, Milano, 2001
Mulas U., Ugo Mulas, Federico Motta, Milano, 1993
Signorini R., Arte contemporanea. Riflessioni e scenari per il XXI secolo, Tavola rotonda a cura dell’Associazione La Camera Chiara c/o la Biblioteca Dergano Bovisa, Milano, 2001
Sontag S., Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1978
Sontag S., Davanti al dolore degli altri, Mondarori, Milano, 2003
Wolf M., Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano, 1992
Wolf M., Teorie delle comunicazioni di massa, Bompiani, Milano, 1995
Wunenburger J.-J., Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999

 

Fotografia, Avanguardie e proto-tvultima modifica: 2008-02-27T21:15:00+01:00da
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