Fotografia, comunicazione, media e società

Cosimo Savina, Pierpaolo Mazza. Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo.

Recensione di G. Regnani, intitolata "Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo", relativa al progetto e alle fotografie di Cosimo Savina e Pierpaolo Mazza

Cosimo Savina, Pierpaolo Mazza. Frazioni, totalità.

di G. Regnani

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 (versione ridotta)

Pelle, pellicola, corpo, individuo.

Dalle suggestioni evocate da queste parole si delinea il percorso tracciato dalle opere componenti “Il Particolare Ritratto”, ideato e realizzato da Cosimo (“Mimmo”) Savina e Pierpaolo Mazza. Un progetto che, attraverso l’ambiziosa meta di oltre duemila immagini, invita ad esplorare la superficie “sensibile” – una pellicola anch’essa, in fondo – di un corpo umano nella apparente varietà dei suoi molteplici centimetri quadrati di pelle.

Una dimensione produttiva che, tra l’altro, rievoca le note riflessioni benjaminiane sulla riproducibilità tecnica caratteristica del medium fotografico.

Il soggetto sottoposto a questo vero e proprio tentativo di mappatura è quello di uno degli autori stessi del progetto.

L’idea di sottoporsi ad un simile processo richiama prioritariamente alla mente tutta una serie di performance che nel corpo umano hanno trovato e concentrato il loro interesse, quali quelle di Gina Pane e Orlan. Rievoca, nel contempo, anche un altro pensiero ormai ricorrente: la tendenza all’atomizzazione di ciascun individuo, o multividuo, secondo un diverso orientamento teoretico, della dimensione sociale ed urbana contingente. Una sfera simbolica dove la commistione tra realtà singole e collettive, tra il vicino ed il distante, tra il locale e il globale pone nuovi e preoccupanti interrogativi. Sulla scia di questi spunti gli autori sembrerebbero voler concentrare l’attenzione innanzitutto su quella debolezza umana figlia dell’individualismo del nostro tempo ipertecnologico. La tecnologia stessa, al di là dei vantaggi che sembra poter offrire e alla diffusa sensazione di “prossimità” di cui spesso è ambasciatrice veicola, paradossalmente, anche un pericoloso e diffuso senso di solitudine. Disagio amplificato anche dai mezzi di comunicazione, ormai sempre più proiettati verso la transizione da una dimensione sempre meno mass e sempre più personal dei media. Isolamento che in parte sarebbe anche riconducibile, secondo gli autori, ai disagi collegati con la difficoltà di mostrarsi così come realmente si è, liberi da filtri e schermi vari, attraverso, ad esempio, l’essenzialità della componente più visibile ed esteriore del corpo, la pelle appunto.

Pelle che diviene portavoce – all’ombra di una laica e pacata tensione ieratica –  di un vero e proprio messaggio di speranza. Un messaggio che, sottolineando la “meravigliosa e trascendente unicità” dell’essere umano intende criticarne l’isolamento, stimolandone, all’opposto, l’integrazione. Simbolico e provocatorio condensato di questa dimensione è la numerazione di una frazione delle singole fotografie a colori componenti l’intera opera; un’enumerazione dalla quale sono state escluse, confidando piuttosto nel relativo bagaglio evocativo, soltanto le frazioni in bianco e nero.

Provocazioni visuali dirette anche contro la reiterata proposta di taluni modelli ideali, tanto poco diffusi in verità quanto insistentemente proposti da media popolari quali determinati tipi di cinema, tv e new media. Ecco, quindi, la normalità di un corpo ideale apparentemente atipico – diverso, cioè, dallo standard ufficialmente in voga – ma ben più consueto e diffuso, in realtà e, insieme, un essere unico e irripetibile nella sua peculiarità. La “contingenza assoluta” di queste singole tracce di pelle visibile, enfatizzando l’umana debolezza, diviene invece il veicolo virtuale di una simbolica e potente metafora carica di forza e di senso, piuttosto che una semplice e fungibile frazione in-significante.

L’ostensione frammentata di un corpo qualunque – virtualmente e concretamente disgiunto sia a livello temporale sia spaziale dal suo reale originario – che una massa di bit tenta in qualche modo di ricomporre, diviene una superficie simbolica che all’effimero culto del corpo ideale proposto da una certa tradizione contemporanea suggerisce una visione alternativa tanto concreta nella sua tangibilità quanto incline allo spirituale. Ognuna di queste fotografie, infine, si connota anche come segno; una teoria di impronte spicciole di un codice linguistico mai formalmente varato di cui potrebbe rappresentare un eventuale concentrato minimo di significato.

Un’opera articolata, quindi, quella di Savina e Mazza, benché fondata su unità discrete, similari e su un accostamento dal sapore minimalista; un ardito e ipotetico non luogo biologico, a tratti anche incline alla postmodernità, teso a far emergere dall’anonimato apparente di ciascuna frazione di questo corpo diviso – ideale metafora di ciascun essere vivente, in fondo – la qualità dalla quantità.

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 (versione estesa)

Pelle, pellicola, corpo, individuo.

Partendo dalle suggestioni evocate da queste parole si può provare a costruire un piccolo percorso, un’analisi delle opere componenti “Il Particolare Ritratto. Pelle al porsi” ideate e realizzate da Cosimo “Mimmo” Savina e Pierpaolo Mazza. Un lavoro che, attraverso l’ambizioso traguardo di oltre duemila immagini, inviterebbe ad esplorare la superfice sensibile – una pellicola, in effetti – di un corpo nella varietà dei suoi metri quadrati di pelle.

Il soggetto sottoposto a questo vero e proprio tentativo di mappatura è quello di uno degli autori stessi del progetto.

L’idea di sottoporsi ad un simile processo richiama prioritariamente alla mente tutta una serie di performance che nel corpo umano hanno trovato e concentrato il loro interesse, quali quelle di Pane e Orlan. Rievoca, nel contempo, anche un pensiero ormai ricorrente: la tendenza all’atomizzazione di questa nostra epoca. Un’epoca dove la commistione tra realtà singole e collettive, tra il vicino ed il distante, tra il locale e il globale pone nuovi e preoccupanti interrogativi. Sulla scia di questi spunti gli autori sembrerebbero voler concentrare innanzi tutto la visione verso un primo elemento di riflessione: la pelle umana, la pellicola fisica che avvolge il soggetto attore e coautore di queste riprese. Questo guscio rappresenterebbe in realtà una sottile e metaforica frontiera, un “confine” tra due entità – quella del protagonista e di tante altre possibili anime anonime, chiunque di noi in realtà – accomunate tutte da un’analoga caratterisca: “la debolezza” umana, così come la intenderebbero gli ideatori di quest’opera. Una debolezza figlia dell’individualismo del nostro tempo e, quindi, di taluni riflessi negativi del mondo contemporaneo. Si pensi alla tecnologia, ad esempio, che – al di là degli innegabili vantaggi e alla diffusa sensazione di “prossimità” di cui è ambasciatrice – paradossalmente veicola  anche un pericoloso e profondo senso di solitudine nell’esistenza umana, talora pure condizionato da un uso non sempre consapevole e corretto dei mezzi di comunicazione; una conseguenza per certi aspetti inevitabile in questo momento di transizione da una dimensione sempre meno mass e sempre più personal dei media. Isolamento che in parte sarebbe anche riconducibile, sempre secondo gli autori, ai disagi collegati con la difficoltà di mostrarsi così come realmente si è, liberi da filtri, schermi vari.

Contro questa propensione all’emarginazione dell’individuo, questo progetto si limiterebbe apparentemente solo a proporre come simbolico viatico la perlustrazione di un corpo umano, nella semplice nudità della sua componente più visibile ed esteriore, la pelle appunto.

Pelle che potrebbe divenire portavoce – all’ombra di una laica e pacata tensione ieratica –  di un vero e proprio messaggio di speranza. Un messaggio che, sottolineando la “meravigliosa e trascendente unicità” dell’essere umano – tanto sentita dagli autori – intenderebbe criticarne l’isolamento, stimolandone invece l’integrazione. Non con la banale esibizione di un figura nuda – realizzata attraverso l’uso strategico di artifici estetici – bensì per mezzo della valorizzazione di un’altra essenziale forma di bellezza, quella dell’animo. Un’intenzione espressa, non senza qualche azzardo, percorrendo coraggiosamente un cammino cosparso di pericoli: la saturante proposta di una notevole mole di immagini giustapposte. Una vera e propria produzione in serie, realizzata con intenti e una metodologia di rilevamento praticamente scientifico-industriali, come, ad esempio, la sistematica numerazione di una frazione delle singole fotografie a colori componenti l’intera opera; enumerazione dalla quale è stata simbolicamente esclusa l’altra parte delle immagini realizzate, caratterizzate, invece, dall’uso del bianco e nero in alternativa al colore; un’opzione, quella del b/n, plausibilmente preferita anche perché ritenuta meno documentaria e più evocativa. E tra le motivazioni di questo provocante inventario dei singoli frammenti del corpo potremmo sicuramente riconsiderare l’anzidetta tendenza verso l’anonimato dell’individuo contemporaneo. Un divenire anonimo del soggetto e del corpo le cui relative parti sarebbero, al tempo stesso, altrettanto impersonali e comuni quanto potenzialmente degne di attenzione come eventuali pezzi di ricambio; uno scenario inquietante che la riproducibilità tecnica tipica della fotografia e i volumi complessivi di quest’opera certamente non attenuano.

Provocazioni visuali e, nello stesso tempo, appassionati atti di protesta diretti anche contro la reiterata proposta di taluni modelli ideali, tanto poco diffusi in verità quanto insistentemente proposti da media popolari quali determinati cinema e tv. Ecco, quindi, la normalità di un corpo solo apparentemente atipico – diverso cioè dallo standard ufficialmente in voga – ma ben più consueto e diffuso, in realtà. Un corpo che vorrebbe rappresentare un essere unico e irripetibile nella sua peculiarità. Una diversità fondata, però, sulla “unicità” di cui si è detto, quella interiore che si spererebbe ancora non del tutto schiacciata da una certa omologazione dilagante. Il corpo materiale, nella sua cangiante e difettosa caducità, non si sottrarrebbe dunque alla sua natura di contenitore passeggero spesso difforme dai diffusi, quanto non ricorrenti, canoni estetici di moda. E ciascun frammento superficiale del corpo, il singolo ed essenziale pezzo di pelle, enfatizzando questa umana naturalezza, potrebbe essere visto invece come una simbolica sineddoche – la frazione di una totalità più elevata – carica di significato e non semplice alternabile significante.

Ogni singolo particolare, ciascuna “contingenza assoluta” veicolata da queste fotografie, diverrebbe essa stessa luogo per un viaggio interiore, alla ricerca della propria essenza, della propria specificità. Questo corpo riproducibile – dapprima solo in natura, ora anche in laboratorio – difenderebbe, di conseguenza, la sua singolare e “meravigliosa” particolarità, fatta di cultura, sentimenti, emozioni differenti suggerendo un viaggio oltre la superficie apparente dell’essere. Un viaggio diretto all’esplorazione di quella immane rete di significazione culturale nella quale ciascun di noi non solo è stabilmente immerso ma della quale, oltre ad essere coartefice, determina costantemente la trasformazione.

Un’opera articolata, quindi, quella di Savina e Mazza, benché fondata su unità semplici, similari e su un accostamento dal sapore minimalista. Un documento, oltreché monumento, innanzitutto personale, che, in prospettiva, non escluderebbe a priori l’eventualità di poter offrire anche un suo contributo come agente di storia.

Un lavoro che, inoltre, potrebbe distinguersi anche per una sua peculiare espressione estetica, cui concorrerebbe certamente l’impatto visivo – nel caso, ad esempio, di un’eventuale proposta in ambienti adeguati dell’opera complessiva – stimolato ed enfatizzato dall’eccezionale numero di immagini che compongono l’intero insieme.

Anche per questi aspetti, nel complesso, il progetto espositivo – come i suoi autori del resto – risente ed appartiene nel bene e nel male al “proprio tempo”, del quale sembra tratteggiare maniera, orientamento e, non ultime, le possibilità offerte dagli apparati tecnologici. Emergerebbero meglio, in tale ottica, alcune delle ragioni che hanno condotto all’ostensione tanto frammentata di un corpo remoto – virtualmente e concretamente disgiunto sia a livello temporale sia spaziale dal suo reale originario – che migliaia di immagini, tutte fotografie e stampe digitali, tenterebbero in qualche modo di ricomporre. Innumerevoli scansioni di bit – dati, informazioni: di fatto una forma di comunicazione – di una superficie metaforica che all’effimero culto del corpo ideale proposto da una radicata tradizione di costume suggerirebbe una visione alternativa tanto incline al tangibile quanto allo spirituale.

Ognuna di queste fotografie, infine, sembra voler ricondurre ad una piccola traccia linguistica; una teoria di impronte spicciole di un codice mai formalmente varato; ciascuna potenzialmente intesa come un’unità minima di significato e, secondo un determinato filone teorico non universalmente condiviso, “immagine acustica” e, simultaneamente, concetto.

Sguardi molteplici, a tratti anche inclini alla postmodernità, uniti nell’arduo tentativo di far emergere la qualità dalla quantità.

Hanno l’apparenza, in ogni caso, di piccole spie di un sincero segnale di fiducia verso la figura umana.

Nell’ardito e ipotetico non luogo biologico proiettato da quest’opera, nell’anonimato apparente di ciascuna frazione di questo corpo diviso – ideale metafora di ciascun essere vivente, in fondo – sembra possibile poter riconoscere, oltre l’assordante rumore di fondo del nostro quotidiano terreno, una parte dell’universo che ci avvolge.

Marzo 2004

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Cosimo Savina, Pierpaolo Mazza. Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo.ultima modifica: 2017-06-29T19:57:35+02:00da
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