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02/11/2005
Le fotografie di famiglia appartengono ad un genere “alto” o “basso”? Vivono o no una condizione minoritaria? E, in definitiva, che tipo di “testi” sono? Nelle riflessioni che seguono cercheremo di tratteggiare alcune delle questioni suscitate da questo tipo di immagini, tanto comune quanto spesso ignorato dalla critica nonostante rinviino ad ambiti di rilievo quali: documento, agente di storia, opera concettuale, object trouvée, ecc..
Il passato, recente o distante che sia, ci veicola qualcosa di sé (comunica?) attraverso diversi tipi di tracce, tra cui le cosiddette fotografie di famiglia. Queste “foto” – sebbene tendenzialmente trasparenti come ogni altra fotografia – sono solitamente ed effettivamente considerate dei veri e propri documenti, una prova di qualcosa che è avvenuto. Ciò in ragione del fatto che, in generale, “la natura di documento […] si estende a qualsiasi ‘oggetto’ che possa costituire una prova significativa del passato” (Abruzzese 2003). La fotografia in genere pur convivendo da sempre con una natura ambigua – il suo essere perennemente in bilico tra rappresentazione oggettiva ed interpretazione soggettiva, tra l’istanza dell’oggetto e quella del soggetto, tra una ipotetica obiettività e l’induplicabilità del reale – è comunemente considerata innanzi tutto un documento e non solo allorché emerge dal mare magnum delle immagini attraverso la selezione autorevole operata da uno storico. Un documento, dunque, già a partire dal contesto positivista delle origini del medium, allorché cominciò ad essere valutata come vera e propria prova. Status che, di fatto, non la abbandonerà mai ancorché sia stato poi integrato con quello di indizio nelle letture più recenti (D’Autilia 2001).
Quella della fotografia è, inoltre, una collocazione intermedia secondo Bordieu (1965) che l’ha definita “art moyen” precisando, però, che la caratteristica della medianità è da intendersi non in termini qualitativi, bensì determinativi; e le fotografie di famiglia, pur vivendo uno stato meno prestigioso, sembrano poter ben essere messaggero di questo ruolo mediano – questo essere nel mezzo – proprio della fotografia.
Dopo queste prime considerazioni, tentiamo ora di comprendere meglio le ragioni delle eventuali “diversità” tra le fotografie di famiglia ed altre tipologie di impronte visuali (Floch 2003) certamente più seguite dalla critica pur sapendo, sia chiaro, di tratteggiare qualche ovvia parentela.
Partiamo dal fatto che, essendo tutte dei potenziali documenti, anche le fotografie di famiglia possono, innanzitutto, fornirci indicazioni relative ad un evento, sebbene il relativo processo di ricostruzione non sia sempre così lineare come potrebbe apparire a prima vista. Si tratta, in effetti, di un percorso immaginario basato su una serie di tracce talora frammentarie che, ricomposte e ricollegate a qualcos’altro mediante un processo di astrazione, possono poi restituirci un ipotetico continuum capace di alimentare l’immagine mentale di un qualche fatto sociale, come potrebbe essere, per quel che qui ci interessa: una celebrazione di nozze o una ricorrenza familiare. Un continuum che si poggia anche sui rapporti che si intrecciano tra le diverse orme sia sul piano sequenziale/sintagmatico, tra segni precedenti e successivi, sia su quello simbolico/paradigmatico, tra rinvii ad altre presenze o assenze (Signorini 2001); in proposito, un discorso a parte si renderebbe forse necessario per l’esame di singole inquadrature fortemente stereotipate, come: la classica posa di soggetti schierati intorno ad una torta augurale. Questi intrecci, più o meno presenti in ogni immagine, sembrerebbero particolarmente stimolanti nel caso delle fotografie di famiglia, in quanto esse si connotano apparentemente come un varietà orientata alla sola referenzialità – probabile retaggio di quel realismo incontrovertibile che da sempre accompagna le riprese fotografiche – piuttosto che all’astrazione, ancorché quest’ultima (e ne riaccenneremo) avvenga normalmente pur non mostrandosi con altrettanta evidenza. Astrazioni, dunque, che rendono sempre valida la generale riflessione barthiana sulla fotografia quale “medium bizzarro” veicolante un “messaggio senza codice” che ci propone una “realtà intrattabile” (Barthes 1982) e, così facendo, rende più critico per le immagini il tentativo di parlare autonomamente, ovvero senza l’ausilio di un altro medium (ad es. una didascalia esplicativa). Una dimensione paradossale che induce il mezzo a rivolgersi all’esterno – verso un’altra codificazione, altri dati – per poter meglio concatenare i vari indici, icone, simboli (Peirce 1958) e, quindi, comunicare. Questi segni sono presenti, ovviamente, anche nelle fotografie di famiglia e potrebbero interessarci, in particolare, per le relazioni che possono innescare sull’accennato asse paradigmatico. Su questo asse potremmo, ad esempio, constatare che l’esame solitario di una o più immagini, senza altri supporti simbolici, potrebbe risultare non sempre sufficiente per comprendere di che tipo di avvenimento si è trattato né tantomeno, ove compaia qualche figura umana, chi vi è raffigurato. Una semplice dimostrazione pratica potrebbe essere ricavata dall’osservazione di una qualunque delle tante raccolte fotografiche casalinghe contrapponendo, semplicemente, all’accumulo di indicazioni utili che è possibile ottenere da un esame complessivo e integrato del materiale disponibile i limiti interpretativi derivanti dalla visione di un singolo (e, talvolta, anonimo) fotogramma dello stesso insieme (eccezion fatta, anche in questo caso, per quelle fotografie fortemente standardizzate). E’ evidente che con il sostegno simbolico di altri media – “testi” sia scritti (appunti, legende esplicative, ecc.) sia non scritti (altre immagini, testimonianze dal vivo e/o audiovisive, ecc.) – ogni eventuale lettura assume una luce diversa favorendo una ricostruzione indiziaria più verosimile e ridando, peraltro, nuova voce: ai luoghi fisici ripresi, alle posture delle varie comparse, all’umore generale di un evento, ecc..; tutti indizi in grado di canalizzare ancor meglio possibili interpretazioni in presenza di specifiche antologie, quali un comune album di nozze e senza particolari problemi interpretativi, almeno in superficie.
Procedendo su questa scia, le fotografie di famiglia potrebbero interessarci anche per la loro caratteristica, per la semiotica, di testi – ovvero, non esclusivamente insiemi testuali in senso stretto, bensì contenitori di senso – e, perciò, interessanti sotto il profilo dell’analisi dei possibili percorsi narrativi emergenti e, all’interno di questi, del ruolo e delle funzioni relative ai vari attanti presenti (Fabbri, Marrone 1999). Di nuovo, quindi, rimandi a qualcos’altro – richiami ad altri complessi simbolici – in qualche modo rintracciabili sia dentro sia al di fuori dell’oggetto fotografico. Un processo interpretativo che, volendo sottolineare un altro elemento in comune, trasforma l’iniziale testo extra-linguistico di partenza in un pre-testo per l’esplorazione successiva fuori dalla fotografia originaria; un’evoluzione che, nel caso delle fotografie di famiglia, potrebbe rivelarsi interessante anche per altri aspetti. Tra questi, in ambito linguistico, l’esame di un’altra importante partner di molte fotografie (non solo) di famiglia: la didascalia, testo importante per la sua determinante funzione di staffetta, orientamento e ancoraggio semantico dell’interpretazione (Joly 1999) entro confini più o meno definiti. Un’emblematica esemplificazione degli effetti di questa strategica simbiosi interpretativa è riscontrabile nel fatto, peraltro verificabile da chiunque, che quel che sovente ricordiamo di un immagine con testo (ad es. una didascalia, un articolo, etc.) precedentemente vista è, spesso, proprio il messaggio contenuto nella nota esplicativa; il fotogiornalismo (Knightley 1975), compreso quello rosa, così come un qualsiasi reportage di famiglia, possono offrire molti esempi in tal senso.
Le diverse azioni di rimando alle quali si è accennato evocano, inoltre, l’eventuale presenza (anche non esplicita) di forme rituali (Berger, Lukmann 1969), delle relative tradizioni (Thompson 2000) e dei media utilizzati per documentarle. Nel primo caso, la liturgia cui sembrerebbe ricollegarci ogni rituale è quella, per usare una formula riassuntiva, di una vera e propria rappresentazione, con i sottintesi scena e retroscena (Goffman 1969). Ambiti che implicano anche l’esistenza, più o meno palpabile, di una o più regie – implicite o manifeste, formali o informali – che, a seconda delle circostanze, condizionano cerimoniali sia pubblici che privati. Una regia che ci rinvierebbe, inoltre, al medium e ai suoi artefici. Campo altrettanto rilevante per un’ulteriore esame di questi «documenti», a cominciare dall’ovvia evidenza che se tra le quinte dell’evento non vi fosse stato qualcuno intento a realizzare le tracce visuali sulle quali poi riflettere tutto, conseguentemente, sarebbe diverso. Un ruolo centrale, dunque, quello dei fotografi – metaforico ed imprescindibile ponte tra chi osserva dopo e quanto è avvenuto prima – ognuno dei quali è portavoce di un complesso patrimonio culturale personale e, come tale, indagabile anch’esso in quanto testo.
L’attenzione per i «documenti» di famiglia potrebbe poi essere estesa anche agli aspetti connessi con la riproducibilità tecnica della fotografia e la conseguente problematica dell’aura (Benjamin 1936), ai modi di produzione delle immagini e alla dimensione dell’inconscio tecnologico (Vaccari 1994) e dei suoi apparati (Flusser 1987), con tutti i risvolti relativi: a partire, in particolare per questi ultimi, dall’analisi dell’evoluzione dei dispositivi stessi sino ai riflessi sui processi decodificativi sia degli autori sia dei fruitori delle immagini. E, restando ancora in argomento, potremmo considerare le fotografie di famiglia un valido strumento d’indagine anche dal punto di vista dell’analisi dei prodotti industriali usati per realizzarle; uno studio degno di attenzione in considerazione del fatto che essendo anch’essi frutto di una tecnologia, questi ora vivono una particolare evoluzione a seguito delle spinte indotte dall’avvento del digitale. Una presenza, quella del digitale che, pur nella progressiva imposizione delle trasformazioni che ogni nuova tecnologia sembrerebbe rendere possibili (Papuzzi 1998), pare in parte riconfermare una certa tendenza – comune anche ai new media – ad adattarsi alle tradizioni preesistenti, benché fornendo ulteriori chiavi di lettura interpretative. Un precedente altrettanto rilevante, facendo un passo a ritroso nel tempo, potrebbe essere individuato nella graduale colonizzazione delle immagini, prima dominio incontrastato del b/n, da parte del più diffuso colore.
E, ancora a proposito di “prodotti”, dovremmo anche aggiungere che questo tipo di immagini sono, in qualche modo, un prodotto culturale, sebbene siano sovente realizzate da gruppi di autori ben variegati e lontani dalle logiche industriali situate a monte della cosiddetta industria culturale (Horkheimer, Adorno 1947) o, da un angolazione plurale, delle industrie culturali (Eco 1994). Del prodotto culturale le fotografie di famiglia sembrerebbero però conservare, in parte, l’apparente linearità del visibile – quella della messa in scena, per intenderci e, insieme, la complessità di tutto quanto avviene, per così dire, dietro le quinte (Colombo, Eugeni 2001).
Trasversalmente, inoltre, le testimonianze di cui ci stiamo occupando potrebbero poi interessarci per eventuali riflessioni relative sia alla sfera della tensione ideologica (Geertz 1998) che a quella dei valori religiosi (Acquaviva, Pace 1999).
Senza dimenticare, infine, l’estendibilità anche a questo genere fotografico della nota metariflessione macluhaniana inerente ogni protesi tecnologica, ovvero che “il medium è il messaggio” (McLuhan 1967).
Per i tanti aspetti d’interesse riscontrabili nella fotografia di famiglia, dovrebbe dunque far riflettere la minor disponibilità di parte della critica verso questo genere (non il solo, in realtà, considerato il “corpo” poliedrico del medium), quasi vivesse una condizione minoritaria, da povero congiunto insomma, rispetto ad altre produzioni considerate più nobili e, forse, meno banali. Un simile orientamento può, in effetti, far sospettare una certa propensione verso forme di rigidità dogmatiche inclini ad un distinguo pretestuoso tra generi “alti” e “bassi”; tra una fotografia valutata come oggetto autorevole da promuovere e salvaguardare – magari proponendola in sedi espositive di rilievo – ed una che sembra non esserlo, se non in misura ridotta; tra generi che possono essere considerati un importante prodotto del talento umano – un’opera d’arte, per esempio – e un indistinto qualcos’altro. Una tendenza che parrebbe condensare l’attenzione prioritariamente intorno alla distinzione tra qualcosa che può eventualmente divenire oggetto di scambio, merce in sostanza (e, come tale, produrre un qualche reddito, anche extra-monetario s’intende) e qualcos’altro che difficilmente lo diverrà. In ogni caso i “distinguo” e il generale disinteresse sembrerebbero plausibilmente trarre forza, per un verso, dall’assenza di un mercato (“alto”) specifico – non attratto, probabilmente, da narrazioni ritenute logore e poco intriganti – e, per l’altro, dalla mancanza, nelle “intenzioni” originarie dell’autore, di un eventuale e deliberato proposito di realizzare opere con specifiche caratteristiche estetiche e formali tali da renderle appetibili per eventuali circuiti mercantili; intenti, evidentemente, assenti o comunque infrequenti nelle fotografie di famiglia, sebbene un mercato – non quello delle cosiddette opere d’arte, beninteso – in realtà esista già da tempo e con volumi assolutamente non trascurabili, ancorché riguardi prioritariamente materiali e attrezzature e, quindi, il fronte industriale e le relative questioni inerenti il finish marxiano.
E, per integrare ulteriormente il quadro d’analisi, ci si potrebbe forse anche chiedere, pur correndo il rischio di alimentare qualche sospetto per un eccesso di relativismo:
a) se ogni foto di famiglia non sia paragonabile – come ogni fotografia, in fondo – ad un object trouvée e meriti, per tale ragione, attenzioni in linea con quelle che hanno interessato i più noti ready made di duchampiana memoria;
b) se gli album di famiglia, non siano dei testi da considerare addirittura delle vere e proprie installazioni (Dubois in Lemagny, Rouillé 1986);
c) se la fotografia di famiglia, in generale, non dovrebbe essere considerata come una delle forme più popolari di esercizio concettuale; si pensi, al riguardo, cosa può evocare un enunciato apparentemente lineare quale “questa è …” pronunciato in presenza di una fotografia di un conoscente: esso è un testo a più dimensioni che contiene certamente una prima indicazione referenziale ma, al tempo stesso, presuppone anche una sostanziosa dose di astrazione – necessaria per una corretta identificazione del soggetto ritratto – verso qualcosa (informazioni, simboli) posto all’esterno dell’immagine. Più in generale, queste pratiche concettuali, coesistendo da sempre con ogni ripresa fotografica, potrebbero assumere i contorni di una delle sue forme ante litteram più diffuse e datate. Senza tralasciare, riaccennando nuovamente la questione della referenzialità, il notevole coinvolgimento emotivo che questi processi/visioni tendono a scatenare sia nei diretti interessati sia nei loro dintorni affettivi. “La camera chiara” di R. Barthes (1982), al riguardo, offre pagine esemplari.
Considerata poi la diffusione praticamente planetaria che caratterizza questo tipo di immagini, una vera e propria inondazione biblica, come è evidente per chiunque, una riflessione critica più sensibile – non potendo più nessuno far finta di non essersi bagnato nemmeno i piedi pur essendo abbondantemente immerso in questo ormai incessante diluvio produttivo di massa – dovrebbe interessarsi maggiormente a queste manifestazioni culturali. Ciò contribuirebbe, fra l’altro, a chiarire meglio uno degli usi sociali più “autentici” del mezzo fotografico e, non ultimo, le sue relazioni con altri importanti media (cinema, televisione, stampa, rete, ecc.), magari favorendo una eventuale rielaborazione più compiuta della sua storia. Una storia che, pure attraverso questo ordine di immagini, testimonia anche – e da sempre – una delle ossessioni dell’individuo moderno: la creazione e lo sviluppo continuo di un repertorio del mondo, una sorta di altro reale (Marra 2001) attraverso quella diffusa e schizofrenica forma di collezionismo contemporaneo nota, appunto, con il nome di fotografia (Sontag 1978). Collezionismo che, nel caso delle fotografie di famiglia, solo di rado riesce a trovare accoglienza nei luoghi simbolo della valorizzazione e conservazione della produzione autoriale, ovvero i musei (Krauss 1996).
Le fotografie di famiglia, per tanti aspetti quindi, fra i quali non vanno omessi quelli connessi con il fronte del loisir, potrebbero assumere il ruolo di spie significative di un patrimonio culturale che rischierebbe di essere affidato quasi alle sole cure – tanto spesso sovrabbondanti e continue, quanto effimere, disomogenee e improprie in molti casi – dei protagonisti e di coloro che intersecano, magari occasionalmente, le loro orbite affettive; cure non semplicemente legate alla ripetuta funzione referenziale – sicuramente importante, come nel caso del riconoscimento di un congiunto – ma soprattutto a quella fatica e, perciò, indirizzate anche al consolidamento di tutto un complesso di legami (Joly 1999) non soltanto affettivi.
Documenti, dunque, ma dalla rilevanza tutt’altro che secondaria, referenti preziosi per l’esplorazione di quello spirito del tempo (Morin 1962) che tanto certamente risente dei riflessi di uno strumento di comunicazione di massa quale è, fra gli altri, la fotografia. Auguriamoci perciò che, in futuro, visioni meno condizionate valutino presumibilmente in modo diverso queste produzioni così dense.
Proprio per questo, speriamo che questo tipo di opere possano divenire, oltre che documento, componenti di una significativa anamnesi collettiva da preservare, almeno in parte, dall’oblio del tempo attraverso un’organica operazione di “messa in memoria” (Dubois in Lemagny, Rouillé 1986). Una possibile ipotesi di lavoro potrebbe essere, integrando o andando oltre un’indagine a sfondo etnoantropologico, quella sociomediologica realizzata, ad esempio, attraverso un percorso di tipo diacronico; questa indagine potrebbe, da un lato, indagare i processi di negoziazione ed istituzionalizzazione simbolica per mezzo dei quali la fotografia di famiglia si radica nella realtà sociale e, dall’altro, far emergere le modalità e le situazioni tramite le quali la stessa svolge una vera e propria attività di intermediazione tra l’immaginario collettivo e le singole identità, contribuendo alla formazione di un ordine sociale e regolando, conseguentemente, l’agire dell’individuo a vari livelli.
Per tante ragioni, dunque, al documento di ciò che avvenne – semplice ma iniziale strumento di seconda mano – dovrebbe essere possibile affiancare un simbolico monumento, complementare o alternativo che sia, quale fondamentale eredità del passato e indice di una cultura, di un “circuito comunicativo” che ha contribuito in vari modi a plasmare e meglio definire la nostra memoria e le nostre “risorse identitarie” (Colombo, 1998).
Un sottile universo da indagare più a fondo quantomeno per comprendere meglio la rumorosa e caotica realtà odierna e favorire, anche attraverso la foto-grafia di famiglia, persino nuove forme di alfabetizzazione visiva.
Nella favorevole ipotesi che un tale processo si possa radicare, attraverso questi monumenti, già documenti, la fotografia diverrebbe anche un significativo ed intermedio – medium tra i media – “agente di storia” (D’Autilia 2001).
* L’ immagine proposta in evidenza in copertina intenderebbe rappresentare una sorta di paratesto volto a sottolineare il ruolo cruciale di ciascuna didascalia – presente,assente o sottintesa che sia – rispetto all’immagine cui è/non è collegata. La sua presenza/assenza, come si è detto precedentemente, può rappresentare un determinante strumento interpretativo che, se assente (come è nel caso della fotografia in evidenza in copertina) o generico, può indirizzare/svuotare, a seconda dei casi, l’analisi dell’osservatore di tutta una serie di riferimenti utili ad una plausibile/difficile decodificazione della fotografia che, conseguentemente, potrebbe risultare apparentemente “parlante” o, all’opposto, persino “muta”.
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