Fotografia, comunicazione, media e società

Volti e media

Comunicazione e salienza del ritratto fotografico

di Gerardo Regnani
gerardo.regnani@tin.it
Roma, 02/10/2006
 

Viviamo in un’epoca in cui il presidio dell’immagine è divenuto un obbligo praticamente per chiunque, ma a maggior ragione per chi è più esposto all’azione dei media. Il volto è una delle rappresentazioni paradigmatiche di questa sfera simbolica. Esplora questa dimensione un’interessante studio di Luciano Arcuri dedicato al “peso” della salienza del viso nei media, in particolare quello maschile. Tra le conseguenze di una maggiore o minore salienza facciale, viene evidenziata la correlata impressione di “desiderabilità sociale” e, non ultime, le concatenazioni con la plausibile presenza di uno “stereotipo maschile”.

Nel n. 196/2006 di Psicologia Contemporanea, un periodico fondato da Giuseppe Martinelli e diffuso da Giunti Editore Spa Milano, è stato pubblicato uno stimolante studio di  Luciano Arcuri, docente di Psicologia delle Comunicazioni sociali oltre che Direttore del Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’Università degli Studi di Padova, intitolato “Te lo leggo in faccia“. L’articolo è dedicato ad un’interessante analisi della salienza dei volti in fotografia e, attraverso questa, anche nel mondo dei media. La riflessione di Arcuri sottolinea, innanzitutto, un fondamentale punto di forza delle immagini fotografiche, ovvero la loro capacità di creare una imprescindibile relazione con il reale, analogamente ad un indice puntato verso la realtà concreta posta al di fuori della rappresentazione visiva.

Quella dell’indice, volendo integrare ulteriormente le riflessioni dell’autore, è la prospettiva postulata dal filosofo e semiotico americano Charles Sanders Peirce, secondo cui le fotografie apparterrebbero a quel tipo di segni (intesi in senso lato) definiti proprio “indici” (index). L’indicesegni che hanno, o possono aver avuto in passato una comunione concreta con qualcos’altro. Per le immagini fotografiche, ne deriverebbero strette correlazioni con tutti quegli elementi indicali che indicano, appunto, una relazione tra la raffigurazione visuale finale e il contesto “reale” di riferimento, del quale la fotografia sarebbe un’eventuale copia.
Tornando al testo in esame, l’autore sottolinea inoltre che un’altra rilevante funzione delle immagini fotografiche è, insieme alla capacità illustrativa, quella di attribuire e strutturare il significato dell’attività interpretativa dell’ipotetico osservatore.
In proposito, volendo ancora integrare le riflessioni di Arcuri, potrebbe essere utile considerare pure il ruolo per nulla secondario del testo scritto – incluso, ovviamente, questo che si sta leggendo ora – che sovente accompagna le immagini; una funzione, quella del testo, che, anche di fronte a versioni ridotte quali potrebbero essere delle (solo apparentemente semplici) didascalie, risulta di solito sempre di una certa efficacia. In effetti, il più delle volte, più che ricordare un’immagine vista, non è poi così improbabile che quel che si tende a richiamare alla memoria è, di fatto, proprio la parte scritta che accompagna la rappresentazione visuale piuttosto che la fotografia stessa.
Ecco perché, come giustamente rammenta Arcuri, risultano fondamentali quelle che si potrebbero qui definire come le “intenzioni” dell’autore dell’immagine, pur non presentandosi quest’ultima come una costruzione ottica arbitraria (ad un osservazione superficiale, beninteso) in quanto frutto di un automatismo tecnologico a prima vista sostanzialmente neutrale. Ebbene, prosegue Arcuri, è evidente che così non è, come ben sa chi si dedica alla comunicazione. La fotografia, come qualsiasi altro “testo” – da intendersi, nella prospettiva di chi scrive, come un qualsiasi contenitore di senso – è, infatti, il prodotto di un processo talvolta anche molto complesso, nel corso del quale qualcuno ha comunque interpretato quel frammento di realtà che, in superficie, sembra aver reso invece in modo apparentemente oggettivo. Ma, a differenza di un testo scritto ove un’eventuale posizione di dissenso con quanto vi si legge può essere agevolmente considerata come l’espressione di un normale confronto dialettico, nel caso di una fotografia, data l’ambiguità di fondo che le è connaturata, risulta spesso molto difficile valutare (oltre ad altro, ovviamente) il vero e proprio grado di arbitrarietà che l’immagine, in ogni caso, contiene.
Nelle fotografie che raffigurano persone questi aspetti critici assumono una valenza particolare, in quanto, sia le modalità di raffigurazione dei soggetti stessi, sia la logica che governa le relative selezioni potrebbero essere valutati nella loro funzione di indicatori di punti di vista, tendenze o altro ancora. Su tali aspetti Arcuri ha ritenuto utile riflettere più a fondo, anche riprendendo alcuni interessanti studi dedicati specificatamente all’analisi della salienza del volto nelle immagini fotografiche (cfr. la sezione dedicata ai “Riferimenti”).
Nel primo degli studi citati, realizzato nel 1983 da un team guidato da Archer che esaminò migliaia di fotografie pubblicate nei periodici di tutto il mondo, emerse un primo dato saliente: le immagini che mettevano in maggior risalto il volto degli uomini erano molte di più di quelle che ritraevano, all’opposto, i visi delle donne. La misurazione di questo scarto fu realizzata utilizzando un semplice valore quantitativo, definito “indice di salienza del volto”. L’indice è stato calcolato sulla base del rapporto tra la misura dello spazio dedicato al volto e quello relativo, invece, all’insieme del corpo, dalla testa (compresa) ai piedi. Una divisione del tipo x:y, dove x, il numeratore, è il valore del viso (dal punto più alto del capo a quello più basso del mento) e y, il denominatore, è la misura complessiva (da capo a piedi) del soggetto visibile nell’immagine. Questo rapporto e, conseguentemente, il relativo “indice di salienza” del volto fotografato che ne deriva può oscillare tra i valori massimi di 1, per un primo o primissimo piano del viso, e 0, nel caso in cui, invece, appaia solo il corpo e per nulla la faccia dell’individuo ripreso. Utilizzando questo rapporto, furono analizzati un rilevante numero di ritratti, di diversi ambiti visuali (cronaca,  costume, pubblicità), realizzati in Europa e negli U.S.A.

In un’altra delle ricerche richiamate dall’autore, Archer e i suoi collaboratori si concentrarono invece sui giudizi espressi a proposito di soggetti fotografati con differenti graduazioni di rilevanza del volto. Ciò che interessava ai fini dello studio era, in quel caso,  l’analisi delle valutazioni dei partecipanti in ordine alle presunte caratteristiche di personalità e doti di  abilità o competenza degli individui raffigurati, tutti peraltro sconosciuti a coloro che avevano partecipato all’esperimento. La valutazione dei soggetti ripresi si basava, dunque, sulle sole immagini dei valutati nelle quali, a seconda dei casi, il viso era stato più meno posto in risalto al momento della ripresa. Ne emerse che la maggiore salienza dei volti corrispondeva, a prescindere dal sesso del raffigurato, ad un’attribuzione di caratteristiche migliori rispetto a coloro che erano stati fotografati con un minor grado di rilevanza della propria faccia.

Giunto a questo punto, Arcuri si chiede cosa significhi tutto questo. Innanzitutto, che c’è una tendenza da parte di chi fa comunicazione a differenziare il trattamento riservato ai soggetti maschili rispetto a quelli femminili, tendendo a privilegiarne il volto, per i primi, il corpo invece, per i secondi. Tra le conseguenze di questa maggiore salienza facciale, viene sottolineata la connessa sensazione di “desiderabilità sociale” che si fonda sulle impressioni di “intelligenza, energia, capacità di attrazione”, ecc. che possono essere stimolate dalla maggiore rilevanza di un viso rispetto ad altri.
Emergono quindi, secondo l’autore, due interrogativi. Primo: perché è associata agli uomini, piuttosto che alle donne, una maggiore salienza del volto? Secondo: la sensazione di “desiderabilità sociale” è, in qualche modo, collegata ad uno “stereotipo maschile”?
Relativamente alla prima domanda, Arcuri conferma che sono diversi gli autori che hanno fatto riferimento a stereotipi sessuali. Per tale ragione, appare ricorrente l’associazione tra soggetti maschili e doti quali quelle dell’intelletto enfatizzate dal prevalere del volto mentre, all’opposto, le figure femminili sono prevalentemente collegate con caratteristiche maggiormente esteriori ed emozionali, fondate sulla prevalenza della visione del corpo piuttosto che della sola testa. Ne può derivare, pertanto, che le fotografie divengano uno dei mezzi ideali per veicolare e rafforzare certe forme di stereotipo.
Le possibili conseguenze degli effetti dei media al riguardo sono visibilmente ben note e da tempo.
Per rispondere al secondo quesito, l’autore si avvale poi degli esiti di un altro studio del 1989, realizzato da Schawrz e Kurtz basandosi sulla pregressa esperienza del già citato Archer. L’esito dell’esperimento, in analogia con i risultati ottenuti precedentemente dal ridetto Archer, confermò una maggiore attribuzione di qualità, quali competenza, intelligenza, ambizione, ecc. – qualità, queste, che lo stereotipo sessuale tende ad associare, di norma, alla figura maschile – ai soggetti raffigurati (donne e uomini, indistintamente) con un più alto grado di salienza facciale.
Per riprendere nuovamente la questione delle implicazioni dei media, Arcuri, chiamando in causa anche uno studio di Zucherman del 1986, evidenzia come una certa riduzione dello squilibrio di salienza facciale sarebbe stata registrata soltanto nelle riviste più attente alle differenze di genere, in prevalenza dedicate al mondo femminile, piuttosto che su quelle genericamente dedicate all’attualità.
Riguardo, ancora al discorso sulle differenze di genere, l’autore ricorda come qualche anno dopo un altro interessante studio, realizzato da Dodd nel 1989, fece emergere – stimolando ulteriormente,  è plausibile,  l’interesse sulla salienza dei volti – anche la rilevanza non secondaria delle espressioni facciali, quali significativi indicatori, secondo la sociobiologia, di “dominanza o sottomissione” dei soggetti raffigurati. Questa ricerca evidenziò, infatti, una tendenza comune nell’espressione delle figure femminili ritratte in immagini pubblicitarie presenti sulle riviste americane che promuovevano la vendita delle sigarette (allora particolarmente in voga), ovvero la propensione delle donne, a differenza degli uomini, a tenere la bocca socchiusa. In proposito, Arcuri sottolinea che le “espressioni di sorriso e sorpresa”, caratterizzate da “bocca aperta o socchiusa”, sono indicative di uno stato di sottomissione; all’opposto, invece, si collocano manifestazioni di dominanza collegate ad espressioni dure ed accigliate, connotate da labbra chiuse o serrate. Ciò che la ricerca di Dodd ha messo in risalto, evidenziando secondo Arcuri un fondamentale stereotipo di genere, è stata una forte disposizione all’assunzione di atteggiamenti dominanti da parte degli uomini rispetto, invece, ad un’opposta inclinazione alla sottomissione delle donne raffigurate.
Il potere, si è chiesto a questo punto l’autore, può avere delle relazioni con la salienza del volto nelle fotografie?
La risposta, confortata anche dai risultati di un’altra ricerca citata da Arcuri, realizzata da Sparks e Fehlner, sembrerebbe essere proprio un sì. I due ricercatori, analizzando le immagini fotografiche dedicate ai candidati alla presidenza e alla vicepresidenza degli U.S.A. nella competizione elettorale del 1984, hanno infatti rilevato che le fotografie dell’unica candidata donna (Geraldine Ferraro) presente in quella tornata elettorale non erano sostanzialmente molto difformi, in termini di salienza facciale, da quelle dei suoi colleghi maschi.
In una prospettiva analoga a quella dello studio sulle presidenziali statunitensi del 1984, prosegue Arcuri, si è sviluppata anche l’indagine di Anderson, effettuata nel 2003 monitorando tutti i siti web dei componenti del Congresso americano. Anche questo studio ha confermato, ad ulteriore sostegno della correlazione tra potere e salienza facciale, che non sono state riscontrate significative differenze di trattamento sul fronte della salienza dei volti a livello di membri della Camera e del Senato degli Stati Uniti. In questo caso, benché le immagini siano ancora una volta riconducibili allo stereotipo sessuale di cui si è detto in precedenza, sia le fotografie delle donne che quelle degli uomini hanno evidenziato la comune propensione a suggerire “assertività, impegno e competenza”. Diverso, invece, è stato l’esito della ricerca relativamente al solo personale amministrativo e di segreteria del Congresso. In questo caso, all’opposto, è emerso nuovamente una maggior salienza dei volti maschili a discapito di quelli femminili.
Si potrebbe forse concludere, d’accordo con l’autore, che c’è ancora molta strada da fare.

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Volti e mediaultima modifica: 2007-03-23T15:50:00+01:00da
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