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Nel 2007 ricorre il centenario della nascita della fotografia a colori, un avvenimento epocale ma non isolato nel contesto di quegli anni così importanti per le Avanguardie storiche. Mentre infatti la fotografia si evolveva verso il fotocolor si registravano anche i prodromi del Futurismo, nato poi nel 1909 e seguito qualche anno dopo anche dal Fotodinamismo futurista. Il teorico di quest’ultimo movimento è stato Anton Giulio Bragaglia e non – come erroneamente affermato in precedenza avendo fatto riferimento all’“Omaggio a Carlo Ludovico Bragaglia”, pubblicato dalle Edizioni Joyce & Co. nel 1994 e alla coeva mostra ospitata a Palazzo Braschi a Roma con il patrocinio del Comune di Roma – il fratello Carlo Ludovico. La sentenza n. 39027/03 della I Sezione del Tribunale Civile di Roma ha infatti chiuso definitivamente la questione attribuendo la paternità del Fotodinamismo ad Anton Giulio e stabilendo in € 25.000 il risarcimento del danno morale e patrimoniale subito.
Il Futurismo
Il movimento futurista, i cui temi di fondo furono annunciati dal suo fondatore Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto apparso a Parigi nel 1909 su “Le Figaro”, è stato il più importante movimento artistico delle Avanguardie storiche nell’Italia del XX secolo.
Il movimento, solo in seguito rivalutato, all’epoca risentì della scarsa considerazione e dei non pochi sospetti che lo circondarono. Il suo fondatore, per citare esempio emblematico del clima contingente, venne allora definito, senza tanti complimenti: “Un cretino con qualche lampo di imbecillità!”. Con il tempo, però, si è fatta maggiore luce sulla reale portata e sugli influssi di quel movimento, anche in relazione a quella “cultura sostanzialmente epigona delle neoavanguardie” e a personaggi centrali, figure-monumento di quel contesto culturale, come André Breton che, oltre un decennio dopo la pubblicazione del Manifesto Tecnico della Letteratura Futurista (1912), userà nelle proprie riflessioni teoriche un linguaggio consanguineo a quello precedente di Marinetti.
Preceduto dal divisionismo, del quale furono adepti prima di aderire al movimento futurista personaggi del calibro di Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Gino Severini, il Futurismo è stato un vero e proprio shock nel panorama espressivo tradizionale dell’epoca. Introdusse per la prima volta, infatti, un’originale prospettiva della visione, ma non solo, fortemente focalizzata sull’esaltazione della velocità, del movimento, della sensazione di dinamicità dei soggetti raffigurati (Boccioni). Conseguente, fu l’interesse per gli esperimenti di cronofotografia del precinema di Etienne-Jules Marey e Eadweard Muybridge. Questi ultimi, in effetti, nella seconda metà del XVII secolo, con l’intento di andare oltre il successo storico dell’istantanea fotografica, divenuta ormai una conquista più che consolidata, tentarono di dare finalmente una prima e rudimentale risposta al paradosso della rappresentazione del moto. In una prospettiva affine avevano provato a dare risposte analoghe a questa insistente richiesta la sterminata produzione di stereografie e di carte de visite che già allora aveva posto le fondamenta per l’avvento successivo della cronofotografia e, quindi, del cinema.
Sempre contro il crudo realismo delle istantanee si indirizzò anche quella che, all’epoca, si concretizzò come la non ben riuscita impresa del Fotodinamismo futurista dei fratelli Bragaglia, movimento teorizzato da Anton Giulio nel 1913 come si afferma anche nella celebre “Storia della fotografia” di Beaumont Newhall ove, oltre all’edizione del 1913, si fa comunque riferimento anche ad una precedente edizione del 1911 della Malato [sic] Editore (in realtà Nalato Editore) di Roma.
Ancora al riguardo, si aggiunge che la sentenza n. 39027/03 della I Sezione del Tribunale Civile di Roma (fonte: www.photographer.it, 5-11-07) ha definitivamente attribuito la paternità del movimento ad Anton Giulio Bragaglia. L’errata attribuzione precedente a Carlo Ludovico era stata effettuata facendo erroneamente riferimento al catalogo di una mostra dedicata a Carlo Ludovico Bragaglia realizzata nel 1994 a Palazzo Braschi in Roma con il patrocinio del Comune. In quell’occasione, infatti, Carlo Ludovico aveva definito un “equivoco storico” l’attribuzione ad Anton Giulio delle Fotodinamiche, anziché a lui e all’altro fratello Arturo. Un errore nel quale sarebbero incorsi praticamente tutti quelli che si sono occupati del Fotodinamismo. Per spiegare tale “equivoco”, nel catalogo summenzionato Carlo Ludovico aveva sostenuto che l’esperienza fotodinamica era emersa dalle esperienze compiute insieme al fratello Arturo. L’altro fratello, Anton Giulio, si sarebbe invece solo interessato, benché sin dal principio, a quel percorso pionieristico ideando poi la relativa e famosa riflessione teorica e immaginando come possibile anche il conseguente tentativo di aggregazione del Fotodinamismo al Futurismo. Secondo Carlo Ludovico non fu, in ogni caso, Anton Giulio l’inventore del Fotodinamismo, bensì soltanto il suo teorico. E per sgombrare il campo da qualsiasi ulteriore equivoco, Carlo Ludovico ha dichiarato a Mario Verdone: “Mio fratello [Anton Giulio] fu molte cose ma non fu mai un fotografo e lo ha dichiarato più volte lui stesso”. La sua amicizia con Marinetti e i futuristi del tempo, avviata nel 1909 in Milano, stimolò in Anton Giulio l’ambizione di far entrare la Fotodinamica nel movimento futurista, sebbene, come aggiungeva Carlo Ludovico, le cose non andarono proprio così. Le immagini che furono poi realizzate ottennero sì il consenso di Marinetti, ma vennero invece aspramente criticate dal Gruppo futurista. La suddetta sentenza, firmata il 1° dicembre 2003 dalla dr.ssa Marzia Cruciani, ha quindi posto fine ad una diatriba che era stata alimentata proprio dalla mostra del 1994 di cui si è detto. Il giudice ha anche imposto il pagamento di € 25.000 a titolo di risarcimento del danno subito.
Ma riprendendo nuovamente il discorso sulla Fotografia futurista, si può aggiungere che il percorso di quel movimento, sebbene travagliato, non si concluse affatto con le anzidette critiche di Marinetti. Il “rivoluzionario” manifesto della Fotografia futurista (1931), redatto in pieno regime mussoliniano, quindi venti anni dopo l’invenzione del Fotodinamismo futurista teorizzato da Anton Giulio Bragaglia, ne è certamente una valida testimonianza. Così era immaginata la fotografia:
“La fotografia di un paesaggio, quella di una persona o di un gruppo di persone, ottenuta con un’armonia, una minuzia di particolari ed una tipicità tali da far dire: «sembra un quadro», è cosa per noi assolutamente superata. Dopo il fotodinamismo o fotografia del movimento creata [ideata?] da Anton Giulio Bragaglia in collaborazione con suo fratello Arturo [e Carlo Ludovico, occorrerebbe aggiungere], presentata da me nel 1912 alla Sala Pichetti di Roma e imitata poi da tutti i fotografi avanguardisti del mondo, occorre realizzare queste nuove possibilità fotografiche:
1. il dramma di oggetti immobili e mobili; e la mescolanza drammatica di oggetti mobili e immobili;
2. il dramma delle ombre degli oggetti contrastanti e isolate dagli oggetti stessi;
3. il dramma di oggetti umanizzati pietrificati cristallizzati o vegetalizzati mediante camuffamenti e luci speciali;
4. la spettralizzazione di alcune parti del corpo umano o animale isolate e ricongiunte alogicamente;
5. la fusione di prospettive aeree marine terrestri;
6. la fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso;
7. le inclinazioni immobili e mobili degli oggetti o dei corpi umani ed animali;
8. la mobile o immobile sospensione degli oggetti ed il loro stare in equilibrio;
9. le drammatiche sproporzioni degli oggetti mobili ed immobili;
10. le amorose o violente compenetrazioni di oggetti mobili o immobili;
11. la sovrapposizione trasparente e semitrasparente di persone e oggetti concreti e dei loro fantasmi semiastratti con simultaneità di ricordo sogno;
12. l’ingigantimento straripante di una cosa minuscola quasi invisibile in un paesaggio;
13. l’interpretazione tragica o satirica della vita mediante un simbolismo di oggetti camuffati;
14. la composizione di paesaggi assolutamente extraterrestri, astrali o medianici mediante spessori, elasticità, profondità torbide, limpide trasparenze, valori algebrici o geometrici senza nulla di umano né di vegetale né di geologico;
15. la composizione organica dei diversi stati d’animo di una persona mediante l’espressione intensificata delle più tipiche parti del suo corpo;
16. l’arte fotografica degli oggetti camuffati, intesa a sviluppare l’arte dei camuffamenti di guerra che ha lo scopo d’illudere gli osservatori aerei.
Tutte queste ricerche hanno lo scopo di far sempre più sconfinare la scienza fotografia nell’arte pura e favorirne automaticamente lo sviluppo nel campo della fisica, della chimica e della guerra.” (F.to Marinetti Tato)
L’intreccio di interessi dei protagonisti del Futurismo non escluse peraltro una certa attenzione anche per la fotografia (tradizionale) che, proprio in quel periodo, si stava ulteriormente evolvendo grazie all’introduzione del colore. Tra i rappresentanti più autorevoli del movimento futurista che ebbero un interesse per la fotografia (comune) è certamente possibile annoverare proprio Giacomo Balla che, durante un soggiorno parigino, approfondì il suo interesse per l’invenzione “maravigliosa”. Questo interessamento fu stimolato a Torino dal contatto con due importanti e storiche figure del tempo con le quali era stato in relazione: i fotografi Filippo Rocci e Giuseppe Primoli. Tra le possibili testimonianze di tale interesse verso la fotografia vi è un importante “Autoritratto” di Balla del 1902, appartenente alla raccolta di opere d’arte della Banca d’Italia. “Rinforza” tale prospettiva anche il taglio prescelto per la presentazione del “particolare in apertura” dell’opera proposto all’interno del testo “L’arte a Palazzo Kock”, ove il pittore è rappresentato in un classico “mezzo busto”, che lo raffigura dal volto fino quasi alla “cintura”.
Il fotocolor
Si è accennato in precedenza al ricorrere nel 2007 del centenario dell’evoluzione verso il colore della fotografia. È stato infatti nel 1907, per l’esattezza il 10 giugno di quello stesso anno, che a Parigi venne proposto al pubblico un nuovo procedimento fotografico chiamato Autochrome, ideato e brevettato tre anni prima dai fratelli Auguste e Louis Lumière di Lione, gli stessi che avevano creato nel 1895 il Cinématographe.
Andando a ritroso, quello del colore fu un problema che si era già posto, per citare un illustre nome della storia della fotografia, Nicéphore Niepce, autore della celebre eliografia non datata, ma realizzata presumibilmente nel 1827, comunemente nota come la “Veduta dalla finestra a Le Gras”. Niepce, scrivendo al fratello Claude, aveva infatti espresso il desiderio di riuscire nell’intento di fissare le immagini a colori. E fu proprio l’interesse per il colore uno degli aspetti che lo entusiasmò maggiormente delle sperimentazione che, nel frattempo, conduceva Louis-Jacques-Mandé Daguerre. Il successo, purtroppo, non arrivò per nessuno dei due e passò in second’ordine a causa della popolarità immediata che riscossero invece i dagherrotipi. Il problema del colore, comunque, continuava a farsi sentire e, in attesa del suo arrivo, fece nel frattempo la fortuna di quanti si dedicarono alla colorazione manuale delle immagini fotografiche. Era infatti raro all’epoca trovare un studio fotografico che non fosse coadiuvato da un “artista” addetto proprio a questa importante funzione.
Proseguendo, uno dei più celebri annunci dell’invenzione della fotografia a colori, rivelatosi poi falso, fu quello fatto nel 1850 a Westkill nello Stato di New York da Levi L. Hill, un pastore battista, dagherrotipista di professione. L’annuncio non fu seguito, però, da una dimostrazione pubblica del funzionamento del relativo procedimento tecnico. L’autore, infatti, si trincerò dietro una personale, quanto dubbia, valutazione di opportunità riguardo al momento in cui avrebbe poi reso noto il segreto dell’invenzione che avrebbe realizzato. Solo sei anni dopo, probabilmente a causa delle numerose pressioni e accuse di cialtroneria e di impostura che aveva ricevuto, Hill decise di pubblicare il “Treatise on Heliochromy”. Il testo, poco chiaro e caotico, più che essere dedicato alla tanto attesa spiegazione del procedimento per la realizzazione della fotografia a colori, conteneva invece un’autobiografia e una relazione inerente “interminabili esperimenti”. Fu certamente una grande delusione quella mancata scoperta che pure aveva alimentato tante speranze. Si pensi, per fare un esempio, a quello che aveva dichiarato all’epoca il direttore del “Daguerreian Journal”: “Se Raffaello avesse visto un hillotipo prima di portare a termine la Trasfigurazione, tavolozza e pennello gli sarebbero caduti di mano e il suo quadro sarebbe rimasto incompiuto”.
Gli esperimenti per l’ottenimento del colore, tuttavia, continuarono nonostante gli insuccessi, con occasionali quanto non durature apparizioni di colori sulle immagini fotografiche.
E’ probabile, come forse è avvenuto anche per Hill, che l’aver ottenuto delle fotografie a colori sia stata la conseguenza di una combinazione casuale di prodotti chimici piuttosto che il frutto di un procedimento certo e ripetibile. Casualità che lo stesso Hill molto probabilmente non riuscì mai più, per tutta la vita, a realizzare nuovamente.
Dopo Hill, nel 1891, un altro ricercatore che ottenne risultati interessanti sul fronte del colore fu Gabriel Lippmann, professore di fisica alla Sorbonne, autore di un procedimento d’effetto, quanto inattuabile che, conseguentemente, cadde subito in disuso.
Tra coloro che aprirono concretamente la strada al colore, sebbene si sia trattato di risultati ancora grossolani, ci fu il fisico inglese James Clerk Maxwell che, nel 1861, realizzò uno spettacolare esperimento alla Royal Istitution proiettando su un telo tre diapositive per lanterne magiche, “filtrate” attraverso altrettanti recipienti di vetro contenenti ciascuno un liquido di colore diverso (i fondamentali: rosso, azzurro e verde). Le immagini proiettate erano state realizzate interponendo tra il soggetto e l’apparecchio utilizzato per la ripresa i medesimi contenitori. Si trattava di un procedimento di tipo additivo.
Pochi anni dopo fu annunciata, con una comunicazione pressoché contemporanea dei francesi Louis Ducos du Hauron e Charles Cros alla Société Française de Photographie, anche la tecnica subtrattiva, basata sulla proprietà di assorbimento o sottrazione e, viceversa, sulla capacità di riflessione dei colori da parte degli oggetti.
Riprendendo il discorso relativo al processo additivo, l’evidente scomodità dell’anzidetto procedimento di Maxwell, fu attenuata, nel 1892, dalla realizzazione del Kromskop di Frederic E. Ives a Philadelphia. Si trattava di un apparecchio stereoscopico portatile che consentiva la visione simultanea di tre diapositive proiettate contemporaneamente e illuminate per mezzo di un filtro con il relativo colore fondamentale.
L’anno dopo, a Dublino, John Joly riuscì a superare anche l’ostacolo del stereoscopio riuscendo a realizzare finalmente un’immagine additiva a colori osservabile senza l’ausilio di alcun schermo o strumento. La cosa fu resa possibile dall’utilizzo, al posto dei filtri colorati usati in precedenza, di un unico negativo realizzato attraverso l’uso di uno schermo suddiviso in minuscoli quadretti contenenti i summenzionati colori fondamentali.
La tappa successiva fu poi quella relativa all’arrivo sul mercato parigino nel 1907 delle anzidette lastre Autochome ideate e brevettate dai fratelli Lumière, semplicemente grazie all’ingegnoso utilizzo sulle lastre fotografiche di una sottilissima patina di fecola di patate contenente i ridetti tre colori fondamentali (rosso, verde e blu) come ha ricordato recentemente Italo Zannier su “Domenica”, l’inserto settimanale de “Il Sole 24 Ore” del 27 maggio 2007.
Ai fratelli Lumière va dunque attribuito il primato di questa rivoluzionaria invenzione.
E dalla Francia all’America il passo fu breve, grazie alla possibilità, offerta a Eduard J. Steichen, di avere un congruo numero delle nuove lastre Autochrome.
La prima esposizione statunitense di opere a colori fu infatti realizzata nella sede delle Little Galleries di Photo-Secession a New York già nel novembre di quello stesso anno con le fotografie, oltre che di Eduard J. Steichen, di Frank Eugene e Alfred Stieglitz. La Foto-Secessione di Stieglitz prese avvio nel 1902 sostanzialmente per favorire l’evoluzione della fotografia artistica. Non si trattò mai di un vero e proprio momivento organico, con una sua specifica e ben delineata linea programmatica, bensì il prodotto di singole esperienze artistiche di formazione e provenienza diversificate, tra i quali ci furono anche molti europei. L’unica nota veramente comune fu il desiderio di affermare il diritto della fotografia ad esprimersi liberamente. In quest’ottica, nella veste di “rivista indipendente”, il 1° gennaio 1903 nacque la raffinata, lussuosa e storica Camera Work, organo ufficiale della Photo-Secession e fondamentale pagina della storia della fotografia mondiale.
Riferimenti
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Lemagny J. C., Rouillé A., Storia della fotografia, Sansoni, Milano, 1988
Newhall B., Storia della fotografia, Einaudi, Torino, 1984
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Warner Marien M., Photography A Cultural History, Laurence King Publishing Ltd, London, 2002
www.photographers.it/articoli/foto1/bragaglia/sentenza2003/sentenza2003.PDF
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