Fotografia, comunicazione, media e società

La fotografia e la “méfiance” della Magnum di Robert Capa

Fotogiornalismo tra azione e contemplazione

di G. Regnani
gerardo.regnani@gmail.com

17/07/2008

La consapevolezza dell’ambiguo rapporto che intercorre tra la forma di un’impronta visuale e il suo bagaglio simbolico con il rischio che la traccia estetica distragga dal “vero” contenuto di un’immagine unita alla “méfiance”, la diffidenza verso il sistema dei media eretta a difesa dell’indipendenza dell’autore, furono alcune delle ragioni che portarono Robert Capa, e gli altri membri fondatori, a creare Magnum Photos, la storica agenzia fotografica internazionale. I contributi dei componenti dell’agenzia, non di rado circondati da un’autentica aura di gloria, hanno delineato il profilo di una delle più incredibili sfide della storia della fotografia, a partire dal leggendario destino personale del suo aderente più noto, all’anagrafe: André Friedmannn. Una sfida resa ancor più particolare dalla consapevolezza che realizzare un’immagine è, in ogni caso, come porsi dinanzi ad un’alternativa fondamentale: vedere o agire.

Le immagini possono indurre ad errori interpretativi riguardo al possibile referente reale o, ancor peggio, essere veicolo di possibili mistificazioni per la propensione specifica a velare dietro un’apparenza illusoria quanto vi sia di effettivamente vero o falso. Il quadro può essere integrato aggiungendo che ogni immagine, concreta o immaginaria che sia, tende comunque a divergere da ciò che rappresenta per il semplice fatto che, non essendo semplicemente il soggetto riprodotto, bensì qualcos’altro, ci sarà sempre uno “scarto” rispetto all’originale, persino nel caso in cui si fondi su una presupposta idea di verosimiglianza, poiché duplicato. In questo processo di conoscenza è, ovviamente, implicato anche lo stesso “atto intellettuale” giudicante; un aspetto, questo, che connota in maniera analoga ogni rappresentazione. Un altro aspetto critico delle immagini è rintracciabile nella loro costante coesistenza con un pathos che ha influssi talora rilevanti e non sempre positivi. Questi effetti, provocando un coinvolgimento affettivo, tendono ad espropriare l’individualità del soggetto destinatario della rappresentazione, fino a renderlo persino vittima di un’alienazione dal proprio io. Oltre a quest’effetto, per così dire, “materiale”, le immagini possono giocare con l’immaginazione condizionando, perché capaci di alterare “il rapporto convenzionale” dell’individuo con l’ambiente, la libertà individuale; un condizionamento che, nel caso di reificazione dell’immagine, può assumere anche connotazioni patologiche oscillanti dalla provocante rêverie al vero e proprio stato allucinatorio. L’immagine stereotipata, a causa del suo forte concentrato intellettuale, ben si presta, peraltro, ad un uso ideologico, a sostegno di argomentazioni fraudolente, ove “la conclusione va a porsi prima delle premesse”. Essa è una “rappresentazione impoverita, anemica” asservita a uno scopo di parte che, ormai priva della sua immanente eterogeneità e peculiarità metaforica, del suo “sincretismo”, della sua disomogeneità di partenza, esiste soltanto in funzione di strumento oggettivante, per formalizzare un’opinione ingannatrice, un preconcetto (Wunenburger 1999, pp. 342-352). Ogni immagine, ogni fotografia, deve dunque essere esaminata alla luce del “suo” contingente contesto di riferimento con la consapevolezza che rispetto al passato, tali circostanze sono gradualmente aumentate e progressivamente frammentate (Sontag 2003, p. 104). Delle preoccupanti potenzialità del medium fotografico sembra essere stata ben conscia la riflessione del poeta e scrittore statunitense Achibald MacLeisch (1892-1982) espressa alla vigilia della pubblicazione della rivista Life (1936-1972; 1980-2000), la testata che avrebbe rivoluzionato per sempre il modo di fare giornalismo. “Le grandi rivoluzioni giornalistiche non riguardano l’opinione pubblica, ma il modo di formarla. La più grande in assoluto è la rivoluzione della macchina fotografica. La quale tuttavia non è ancora sfruttata a pieno. Riviste e giornali hanno sì fatto uso di fotografie, ma non fino in fondo. Le fotografie sono state intese come illustrazioni, ma non è più quella la loro funzione. La macchina fotografica non illustra, dice. E’ destinata a diventare il più grande e più convincente reporter della vita contemporanea (MacLeisch, in Papuzzi 1998, p. 141). In quel periodo il giornalismo, più che raccontato, stava divenendo sempre più un giornalismo da “vedere”, non immune da una certa ingenua tendenza all’ottimismo, mutuata dallo spirito di rinascita insito nel New Deal. “Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari dei grandi avvenimenti; vedere cose inconsuete – macchine, eserciti, folle, ombre nella giungla e sulla luna – vedere il lavoro dell’uomo, i suoi dipinti, le torri, le scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose; vedere le donne amate dagli uomini e vedere i bambini; vedere e assaporare il piacere dello sguardo; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano” (Luce, in ivi, p. 141). Quel “verbo”, in effetti, raggiunse lo scopo che si era prefisso: Life, alla sua prima uscita il 23 novembre 1936 con la copertina dedicata alla grande diga di Fort Peck fotografata da Margaret Bourke-White (1904-1971), vendette quasi mezzo milione di copie. La pubblicazione di un’immagine su di una testata giornalistica pone, però, tutta una serie di questioni, a partire dalla sua capacità, o meno, di rappresentare autonomamente le notizie, ovvero se queste debbano essere necessariamente integrate da un altro medium, quale potrebbe essere una apparentemente semplice didascalia descrittiva. Aspetti, questi, che rinviano tanto alle relazioni delle immagini con l’evento quanto ai problemi relativi alla loro ricezione da parte del pubblico. Per quanto concerne il primo aspetto, si può sinteticamente rammentare che ogni fotografia è un insieme di segni compresi tra rappresentazione e realtà che l’intelletto, dopo la percezione visiva, processa ed interpreta.[1] Sul fronte della ricezione, poi, dovremmo richiamare alla mente il fatto che, nell’ambito del fotogiornalismo, le immagini convivono, abitualmente, con altri “testi”,[2] tra cui la parola scritta. Non secondarie sono, al tempo stesso, anche le intenzioni politiche dell’autore dell’immagine che, concretamente, tendono ad emergere dall’icona sotto forma di “stile”, senza dimenticare gli intenti di chi, eventualmente in seguito, utilizza o “ricicla” l’immagine medesima (un redattore, ad esempio). Difficile dire, se non con qualche doverosa cautela, se quel che resta infine della notizia, testuale, visiva o “con-fusa” tra i diversi piani che sia possa, o meno, rappresentare concretamente la verità. La foto-notizia, quindi, è sempre in bilico tra il tentativo di essere registrazione e l’evidenza di essere essa stessa un evento e un “testo” a sé stante. In ogni caso, per quel che concerne la capacità di documentare un fatto, la fotografia resta, comunque, una parte del tutto,[3] una frazione di una dimensione più ampia e complessa, non potendo facilmente comprendere al suo interno l’intero avvenimento ma solo un aspetto di dettaglio, a prescindere dal fatto che questo divenga poi l’elemento topico di una circostanza. La frammentarietà della fotografia sembra esprimersi esemplarmente, quindi, nell’ambito del fotogiornalismo, unitamente alle virtù e ai guasti che ciò può comportare. Per un verso, quindi, la tendenza a inquadrare su di uno specifico aspetto il focus di un evento rientra tra le caratteristiche del fotogiornalismo; per l’altro, questa concentrazione può essere mitigata o, addirittura, amplificata dall’esterno, vale a dire attraverso il ricorso, ad esempio, al testo scritto, a una didascalia esplicativa, a un titolo paradigmatico (Papuzzi 1998, pp. 141-147). Una motivazione chiarificatrice che permette all’immagine di recuperare senso e di allontanarla, in tal modo, dall’irrealtà che potrebbe connotare ogni immagine (Bollati, in Marra 2001, p. 305).Riepilogando, potremmo dire che tra l’evento d’origine e la sua ricostruzione esiste comunque una “differenza”, una distanza che rinvia allo scarto tra la realtà originaria e la sua rappresentazione, tra l’insieme del fatto e il particolare simboleggiato dall’immagine, tra quanto avvenne e “la costola d’Adamo” condensata nella fotografia. Una frazione capace, secondo i casi, di modificare l’accaduto o di esaltarne una diversa dimensione simbolica. Nello strumento apparentemente più obiettivo, quale potrebbe essere il medium fotografico, convive, contrapposta, l’immanente eventualità del suo contrario. Una foto-notizia, dunque, è perennemente in equilibrio instabile tra un alto tasso di indeterminatezza per quanto riguarda la sfera percettiva e un altrettanto elevato livello di credibilità in relazione al fatto cui si riferisce (Papuzzi 1998, pp. 145-147). Quest’ultimo aspetto, si potrebbe aggiungere pensando a Roland Barthes (1915-1980), è evidentemente connesso con il fatto che ogni immagine sembra condurre perennemente con sé il relativo referente ed entrambi, l’immagine e il soggetto originario, convivono la stessa amorevole e tragica fissità, magari raffigurando paradossalmente il moto di un oggetto. Queste due entità (l’immagine e il soggetto originario) sono incollate insieme, nella loro totalità, unite fino alla fine come per affrontare una pena capitale, simili ad un “condannato incatenato al cadavere”. Un’immagine fotografica appartiene, perciò, a quella tipologia di cose composte di “strati sottili” che non è possibile dividere senza annientarle, come “il Bene e il Male, il desiderio e il suo oggetto” (Barthes 1980, pp. 7-8). “Il noema della Fotografia è semplice, banale; nessuna profondità: “E’ stato”. [Una, N.d.R.] evidenza [che, N.d.R.] può essere sorella della follia […] L’immagine, dice la fenomenologia, è un nulla di oggetto” (ivi, p. 115). Un’apparente ed estrema limpidezza può portare, pertanto, ad una sorta di caricatura non tanto del referente ritratto, bensì dell’icona stessa. Da questo punto di vista, in maniera apparentemente contraddittoria, potremmo addirittura affermare che il soggetto non è mai esistito o non è mai stato nel luogo in cui sembra trovarsi. Oggi, diversamente dal passato ove non esistevano rappresentazioni capaci di dare garanzie sull’esistenza di qualcosa, la fotografia simbolizza l’evidente, il certo, senza inganno apparente: “ La Fotografia diventa allora per me un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo: un’allucinazione in un certo senso temperata, modesta, divisa (da una parte “non è qui”, dall’altra “però ciò è effettivamente stato”): immagine folle, velata di reale (ivi, p. 115). Riguardo, ancora, alla molteplicità di identità della fotografia, l’analisi della scrittrice Susan Sontag (1933-2004), nel tentativo di andare oltre il tema della compresenza in un’immagine dell’evento e dell’autore della sua rappresentazione, rammenta che l’icona stessa diviene evento a sé, con un suo portato progressivo di spettanze, di potenziali interferenze con l’evento stesso. Un potere mutuato dal fatto che questo, una volta cessato, può eventualmente sopravvivere solo per il tramite di una sua rappresentazione che, diversamente, potrebbe non avere. Una rappresentazione che favorirebbe la permanenza di qualche traccia, ad esempio, delle azioni più cruente dell’umanità (Sontag in Papuzzi 1998, p. 144). Ciò premesso, data la natura frammentaria di ciascuna immagine fotografica, il suo “peso morale ed emotivo” è legato anche al contesto nel quale è inserita, all’uso (come probabilmente suggerirebbe Wittgenstein) che ne viene fatto. Anche un fotografo “impegnato”, che sia convinto degli impulsi etici discendenti dai significati veicolati dal suo percorso di verità, non potrà prescindere dal fatto che “una fotografia è sempre un oggetto in un contesto” e che il suo contenuto semantico è soggetto a usura e mutazioni. Un esempio paradigmatico potrebbe essere individuato nell’evoluzione di una delle tante immagini nate per un originario e specifico uso politico e successivamente assorbite dal mondo dell’arte. Questa trasformazione può essere ricollegata anche al fatto che un’immagine, inevitabilmente, rinvia ad altre immagini.[4] Una peculiarità che ci ricorda la capacità di “spoliticizzarsi” di una fotografia e di tramutarsi in qualcosa di diverso, in qualche caso un’immagine senza tempo (Sontag 1978, p. 94). Analogo, per certi versi, il discorso di Walter Benjamin (1892-1940) il quale, a proposito di questa camaleontica capacità della fotografia, ricorda come questa anche di fronte ad “un mucchio d’immondizie” non riesca ad evitare, alla fine, di alterarli. Persino innanzi a questo genere di soggetti le prerogative estetiche del mezzo tendono, non infrequentemente, a prevalere, mutando quei rifiuti in qualcos’altro, un nuovo soggetto e, talora, in “un oggetto di godimento” (Benjamin 1936, 1966). Il fotogiornalismo, al riguardo, sembra ben sintetizzare l’emblematicità di questi processi di significazione nel cui ambito anche Life fu una protagonista esemplare. L’anno della sua pubblicazione di Life sarebbe stato, fra l’altro, destinato a restare impresso nella memoria anche per un altro evento emblematico del fotogiornalismo: la pubblicazione[5] sul settimanale francese illustrato “Vu”[6] (1928-1938) della celebre immagine di Robert Capa (Endre Friedmann detto, 1913-1954) raffigurante un miliziano spagnolo colpito a morte, nei pressi di Cordoba, nel corso della guerra civile spagnola. L’immagine, compresa in un più ampio reportage,[7] è divenuta nel tempo, un’emblematica bandiera della lotta per la conquista della libertà da parte di ogni popolo oppresso. Come giustificare, però, la presenza di Capa proprio in quel luogo e la sua (sospetta?) ripresa proprio nel bressoniano “momento decisivo” del trapasso del miliziano? Lo stesso Capa non avrebbe mai fornito elementi particolarmente utili alla ricerca dell’eventuale verità (Papuzzi 1998, p. 157). A difesa dell’autenticità del reportage sarebbe intervenuta, grazie al contributo di un non meglio precisato storico spagnolo,[8] la stessa famiglia del “caduto” che, riconoscendolo come “Federico Borrell García”, avrebbe inoltre confermato che il reporter era effettivamente presente all’avvenimento[9] che avrebbe poi documentato con la celebre fotografia (Capa 2002, p. 14). Ci sarebbero, ovviamente, ancora altre versioni interessanti dell’evento. Tra queste, è interessante quella di Gilardi il quale afferma che, agli inizi degli anni Settanta del Novecento sarebbe stata pubblicata[10] un’immagine successiva a quella della (presunta?) morte nella quale il “miliziano”, insieme con altri compagni, risulterebbe addirittura esultante per la conquista di una trincea nemica (Gilardi 2000, pp. 294-295). La popolarità di Capa, prescindendo da questo dubbio episodio, è legata anche a molti altri popolari reportage tra cui, quello memorabile, realizzato il 6 giugno del 1944 durante lo sbarco in Normandia delle truppe alleate (Papuzzi 1998, p. 158). La sua immagine professionale resterà comunque legata, insieme con quella di altre memorabili figure,[11] al cosiddetto “reportage eroico”, caratteristica comune di quegli addetti che, anche esponendosi a gravi pericoli per la propria incolumità, tentano ovunque di “documentare” eventi di particolare rilievo storico (De Paz 2001, p. 151). L’immagine del “miliziano” resterà, in ogni caso, una pietra miliare della storia del medium fotografico, se non altro perché sembra poter esemplarmente riassumere in sé l’eterno dibattito sull’ambiguità del mezzo fotografico e, con altrettanta rilevanza, alimentare, a torto o a ragione, il perenne mito del fotoreporter che “lotta” con l’arma che possiede, le sue immagini, per la causa della libertà testimoniando, con il suo impegno, gli errori e gli orrori dell’umanità (Papuzzi 1998, p. 157). Una mitologia non di rado macchiata dal sangue delle sue vittime, come appena accennato e secondo quanto conferma anche la critica di Gilardi allorché afferma che si tratta di leggende sovente artatamente alimentate dalle “industrie sovrannazionali” che, “gonfiando fino al grottesco i valori dell’istantanea”, speculano “senza pudore” sul “mito impossibile del free lance”. Figura ideale per quanti muoiono fotografando benché, in qualche caso, ciò non abbia sempre legami concreti con il “trionfo della verità” (Gilardi 2000, p. 302). Intorno a quell’immagine, in ogni caso, ruotano da sempre sia le dispute riguardanti il presunto mistero sulla sua eventuale inautenticità sia la stessa popolarità del suo autore che, successivamente alla pubblicazione di quella fotografia, è divenuto il reporter più famoso del mondo (Papuzzi 1998, p. 157). L’immagine de “Il momento della morte” è, infatti, una di quelle più note della storia della fotografia. Tuttavia, come si è già accennato, nonostante la sua fama, la ripresa non proverebbe affatto, in maniera certa, che l’evento sia realmente accaduto. Negli anni Settanta del Novecento un giornalista,[12] mettendo in dubbio l’autenticità dell’immagine, affermò addirittura che questa sarebbe stata ripresa non durante un conflitto a fuoco, bensì nel corso di una semplice esercitazione (Zannier 1998, pp. 226-227). Si tratta, evidentemente, di una specie di “giallo” mai completamente risolto. Un intrigo che si fonda sulle indicazioni, in qualche modo vincolanti, che ci provengono dalla didascalia che “spiegherebbe” l’evento. In proposito, Knightley ha suggerito un piccolo esperimento traendo spunto proprio dai dubbi interpretativi insiti in quest’immagine, ovvero provare a modificarne la legenda esplicativa.[13] In effetti, provando soltanto a immaginare una diversa quanto apparentemente banale didascalia del tipo “un miliziano scivola e cade durante un’esercitazione”, tutto l’impianto semantico della legenda originaria risulterà inesorabilmente dissolto a favore di in un diverso indirizzo interpretativo (AA. VV. 1991, p. 421). Riguardo, ancora, allo slittamento semantico che può ingenerare una legenda, è esplicativo quest’episodio: “John R. Whiting, nel suo libro Photography is a Language, fece un esperimento illuminante: ripubblicò, di seguito e senza le fotografie che le accompagnavano in origine, le didascalie ch’erano state scritte per un tipico racconto fotografico di “Life”. Ne risultò un racconto autonomamente valido, quasi telegrafico, ma coerente, d’immediata comprensione, di cui le fotografie erano soltanto un abbellimento. Whiting, perciò, concludeva: «Molto spesso, quando credete di parlare a qualcuno di una fotografia vista in un periodico, ciò che ricordate è la didascalia»” (Newhall 1984, p. 360). Sempre in tema, Susan Sontag (1933-2004) ha inoltre sottolineato come l’informazione contenuta in una ripresa che tenti di documentare un evento non può, da sola, senza un humus favorevole di sensibilità attente a una eventuale problematica, ottenere facilmente un buon risultato. Le immagini che dovrebbero mobilitare gli animi necessiterebbero sempre di essere congiunte ad un substrato, un terreno fertile sul quale radicarsi. “L’atto […] predatorio” insito in ogni immagine fotografica potrebbe risultare poco proficuo, se isolato in un contesto mal disposto. In tale ottica, benché nell’epoca contemporanea “la dissociazione fra contemplazione e azione [sia] disponibile […] per lo spettatore moderno, che si trova in una duplice posizione, poter vedere tutto, ma senza essere visto” (Pezzini in Abruzzese 2003, p. 149), la ricezione stessa di determinati tipi di immagini non dovrebbe essere più avvolta da una dimensione di fanciullesca ingenuità, analogamente a quanto suggeriva Walter Benjamin (1892-1940), nel 1936, a proposito di un altro genere di immagini realizzate dal fotografo francese Jean Eugène Auguste Atget (1857-1927). “Le riprese fotografiche cominciano a diventare documenti di prova nel processo storico. E’ questo che ne costituisce il nascosto carattere politico. Esse esigono già la ricezione in un senso determinato. La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si addice alla loro natura” (Benjamin 1936, 1966, p. 29). Di fronte a chi realizza una ripresa, secondo i casi, si delineerebbe, dunque, una scelta fondamentale: documentare vs intervenire, contemplazione vs azione, con la consapevolezza, però, che chi è impegnato a “registrare”,[14] di norma, non può “intervenire” e viceversa; o, per lo meno, potrebbe avere qualche difficoltà a farlo agevolmente nella stessa circostanza (Sontag 1978, pp. 11-17). Elementi, questi, dei quali anche Capa avrà, certamente, dovuto tener conto nel suo peregrinare tra una guerra e l’altra, con alle spalle una gioventù non certo trascorsa in condizioni di massima serenità. Nacque, infatti, a Budapest (Ungheria) il 22 ottobre 1913 da una famiglia borghese di origini ebraiche che gestiva una sartoria. A 17 anni, nel 1930, subì un arresto per la partecipazione ad una manifestazione antifascista; costretto a lasciare il suo paese si trasferì a Berlino. Nel 1932 fotografò Lev Trotzkij (Lev Davidovič, pseud. di L. D. Bronštein, 1879-1940). Nel 1933, fuggito dalla Germania nazista, raggiunse Parigi. Nel 1936 adottò lo pseudonimo di Robert Capa. A partire da quello stesso anno fotografò, in giro per il mondo diversi conflitti bellici. Il primo è stato la Guerra civile spagnola, combattuta tra il 1936 e il 1939, dove effettuò la celebre ripresa del “miliziano” colpito a morte di cui si è detto in precedenza. La seconda che seguì, nel 1938, è stata la resistenza dei cinesi all’invasione posta in atto dal Giappone. Seguì poi la frazione europea della Seconda Guerra Mondiale, dal 1941 al 1945. Nel 1948 si occupò della Prima guerra arabo-israeliana e nel 1954 della Guerra d’Indocina dove, purtroppo, perse la vita (Capa 2002, p. 5). A chi gli ha chiesto di sintetizzare le motivazioni di quella scelta di vita, con lineare incisività, ha motivato la sua vocazione professionale dicendo: “Decisi di fare il fotografo [perché la] consideravo l’attività più vicina al giornalismo per qualcuno che non potesse esprimersi in nessuna lingua” (AA. VV. 1991b, p. 419). Una sorta di “lingua franca”, dunque. E, riguardo alla perenne contrapposizione tra oggettività e soggettività delle immagini, indusse Capa a dichiarare, emblematicamente: “Le mie fotografie sono un’operazione della mente, ancor prima di essere un prodotto della macchina” (Zannier 1998, p. 224). Il tentativo di difendere questa sua concezione, nonostante il fatto che ciò possa apparire contraddittorio rispetto alle sue affermazioni, è riscontrabile anche nella sua tendenziale opposizione alla ricerca di impressioni meramente estetiche, desiderando egli affermare la forza della fotografia quale potenziale documento di valore storico; in tal senso, le sue immagini rappresentano uno dei contributi di maggior rilievo nella costruzione dell’espressione estetica del fotogiornalismo moderno[15] (De Paz 2001, p. 155). Lo stile crudo, l’intimità talvolta violenta delle immagini di Capa, in epoca ancora non assuefatta da una valanga di immagini di “guerre e distruzione”, lasciarono, in effetti, non pochi segni. Esemplificativo, al riguardo è stato l’atteggiamento della redazione del “Picture Post” che, in occasione della pubblicazione di un servizio del fotografo dedicato al “contrattacco delle truppe spagnole”, precisò che le fotografie non avevano intenti propagandistici a favore di nessuno e che le immagini sarebbero state solo una “semplice testimonianza” colta all’interno di un conflitto (AA. VV. 1991b, pp. 420-421). Capa è stato, inoltre, uno dei primi reporter ad usare sistematicamente i primi piani nelle sue immagini. E’ famosa la sua: “Se le vostre foto non sono riuscite, è perché non siete abbastanza vicini” (Capa in AA. VV. 1991b, p. 423). Proprio questa sua passione per la vicinanza agli eventi gli costò, probabilmente, la vita, nel 1954;[16] lo stesso anno in cui, in Italia, nasceva la TV. Il nome di Robert Capa[17] (Endre Friedmann detto, 1913-1954), inoltre, è da sempre legato alla celebre agenzia Magnum Photos, una cooperativa commerciale indipendente costituitasi a New York nel 1947.[18] L’altisonante, “nobile, orgogliosa denominazione latina” fu scelta per sottolineare la volontà di autonomia e di opposizione alle sollecitazioni delle agenzie più potenti nel campo dell’informazione mercantile. In quel nome era insito anche il desiderio di valorizzare gli obiettivi, oltre alle intelligenze, che l’agenzia avrebbe saputo e potuto raggiungere. Il nome classico, “all’antica”, voleva peraltro nobilitare un ambito che, non avendo ancora un ruolo del tutto ben definito e chiaro, cercava di affermare funzioni e dignità proprie. L’uso della lingua latina era, anche in questo caso, collegato all’idea di una specie di lingua universale dei primi associati, provenienti da realtà nazionali differenti.[19] La compresenza di elementi così eterogenei è sempre stata una caratteristica di questa cooperativa, composta di autentici solitari, capaci di lavorare, ciascuno, in piena autonomia. Tale prerogativa personale dei fondatori mal si sarebbe conciliata con il panorama e la prassi delle agenzie commerciali dell’epoca. A questo si aggiunga, inoltre, che lo stesso Capa aveva ben compreso la difficoltà di essere dignitosamente autore e, al tempo stesso, professionista che non divenga costantemente vittima delle vessazioni delle agenzie senza il possesso dei propri negativi. La nascita di un’impresa cooperativa risultò essere la risposta più adeguata a questo ormai annoso problema. Nacque così, dalla dura esperienza di un manipolo di agguerriti reporter, quello che potremmo definire “il diritto d’autore” nell’ambito del medium fotografico (AA. VV. 1991, p. 48).In questo scenario, secondo la fotografa francese di origine tedesca Gisèle Freund (1908-2000), sarebbe dunque nata l’associazione, proprio nella fase di generale sviluppo dell’editoria illustrata tanto in Europa quanto negli Stati Uniti e al correlato aumento delle agenzie di stampa che si registrò a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Agenzie che si avvalevano sia della collaborazione di fotografi propri sia di “indipendenti” a contratto. La nota dolente di questo sistema emergeva, però, dalla notevole pretesa di diritti che queste agenzie vantavano, generalmente fissato intorno al 50% del venduto, una percentuale che, in qualche caso, diveniva ancor più elevata, qualora vi fossero contatti anche con agenti esteri. A questo occorreva aggiungere anche che il fotografo non aveva alcuna possibilità di controllare le vendite effettivamente realizzate. Questi, dunque, sarebbero alcuni dei motivi che avrebbero spinto Capa e gli altri padri fondatori[20] a creare la storica agenzia fotografica (Freund 1974, p. 153). Altre ragioni di questo sodalizio storico potrebbero essere ricercate anche nelle sollecitazioni che l’avvento del nazismo rivolse alle vite dei fondatori della Magnum, “ebrei e democratici” separati dai rispettivi luoghi originari. A questa ne potrebbe essere aggiunta ancora un’altra, dettata anche dal caso, e cioè l’incontro casuale nel secondo dopoguerra di alcune di queste memorabili figure che, sebbene non fossero accomunate da un vero e proprio sogno comune, condividevano, fin dall’inizio, alcune intense idee progettuali di massima (AA. VV. 1991, p. 55). “Pour ce groupe de photographes, la photographie n’était pas seulement un moyen de gagner de l’argent. Ils voulaient exprimer, à travers l’image, leurs propres sentiments et leurs idées sur les problèmes de leur époque” (Freund 1974, p. 154). La tendenza degli agenti e degli editori andava, soprattutto sul fronte interpretativo, proprio nella direzione opposta. “Pourtant peu de photographes ont la possibilité d’imposer leurs points de vue. Il suffit souvent de peu de choses pour donner à des photos un sens diamétralement opposé à l’intention du reporter” (ivi, p. 154). Tale stato di cose indusse Gisèle Freund ad affermare: “L’objectivité de l’image n’est qu’une illusion. Les légendes qui la commentent [la photographie] peuvent en changer la signification du tout a tout” (ivi, p. 155). Lasciare, inoltre, a terzi la scelta stessa di un’immagine palesa un’ulteriore possibilità di ridurre le prerogative interpretative di un autore, se non l’eventualità che queste possano essere, addirittura, travisate completamente.[21] Al di là dell’aspetto commerciale, la fondazione della Magnum intendeva difendere, dunque, l’identità autoriale dei suoi affiliati (AA. VV. 1991, p. 418). L’esigenza di poter costantemente avere una piena “libertà di scelta” ben schematizza, in definitiva, l’asse portante della linea politica dell’agenzia, un’indipendenza che spazia dalla possibilità di ammettere o meno un nuovo elemento nel gruppo alla valutazione degli atti professionali dei fotografi stessi (ivi, p. 56). Una linea che, ancora una volta, sembra far riemergere con forza le riflessioni riguardanti la tendenziale dissoluzione, anche nell’ambito del fotogiornalismo, della figura autoriale (cfr., in proposito, anche il testo intitolato: “La fotografia e lautore. La dissoluzione della figura autoriale nei processi di produzione culturale moderni”, pubblicato precedentemente). Volendo quindi tentare di riassumere in un’espressione sola cosa è stata la Magnum , il termine più idoneo e plausibile sembra poter essere “méfiance”, ovvero una costantediffidenza verso il sistema. Il termine, coniato da Ferdinando Scianna (1943), il primo socio italiano dell’agenzia, era riferito all’atteggiamento bressoniano di dedicarsi prevalentemente ad aspetti secondari piuttosto che al cuore di un evento, scegliendo di interessarsi solitamente dei “riflessi anziché dell’epicentro” di un avvenimento. Questo termine ha assunto la veste di una metaforica sintesi dell’agire dei fotografi della cooperativa, una costante tendenza ad occupare zone di periferia, meno invase dagli interessi di potere e, pertanto, ricchi di spazi dove l’autonomia, la libertà d’azione è maggiore. Più ampia è l’indipendenza più elevata sarà, conseguentemente, anche la tutela della peculiarità espressiva del fotografo che in quel contesto opererà. Proprio questa “diffidenza” stimolò dunque Capa a fondare la Magnum , così come sarà un sentimento analogo ad allontanare dalla macchina fotografica l’inglese George Rodger (1908-1995) dopo che si era sorpreso a cercare le inquadrature più adeguate per fotografare le tracce degli orrori trovate nei campi di sterminio nazisti appena liberati dagli alleati alla fine della Seconda Guerra Mondiale (AA. VV. 1991, p. 441). Nei decenni successivi l’avventura dell’agenzia, al di là di qualche “sbavatura”, è comunque sempre proseguita seguendo un percorso di graduale evoluzione e di consolidamento della sua fama nel tempo. Se vi sono stati ostacoli, almeno per il passato, questi sono stati sempre superati in qualche modo, a partire dalle brusche battute d’arresto potenziali insite nella tragica fine di alcuni dei suoi componenti, primo fra tutti lo stesso Capa. Probabilmente l’unica, vera, grande “minaccia” con la quale la storica associazione ha dovuto misurarsi è stata la consapevolezza che, in tutta la sua storia, la Magnum non ha avuto, come si è detto, un vero e proprio “sogno collettivo”. In tempi più recenti poi, al costante problema del mercato di settore se n’è aggiunto un altro ancor più temibile, proveniente dall’esterno: il pericolo derivante dall’“imperialismo della televisione”. Nell’anno della sua morte,[22] Capa aveva già manifestato i suoi timori al riguardo. Il nuovo medium televisivo avrebbe trasformato il mondo del fotogiornalismo anche per il non trascurabile impatto di carattere economico sulle modalità stesse di sostentamento dei professionisti del settore. Tuttavia, in questo scenario non certo foriero di prospettive favorevoli, l’autorevolezza dei componenti dell’agenzia, il loro perenne individualismo “schizofrenico”, il clima amichevole che ha di norma regolato la tensione affettiva tra loro e l’assenza di una rigida struttura burocratica ha fatto sì che lo stesso presidente pro-tempore sia stato, non un superiore, ma “l’ultimo inter pares”, sono stati elementi che hanno in parte attenuato l’onda d’urto cinica e fagocitatrice di altri media (ivi, p. 60). Per l’agenzia, comunque, si sono delineati i contorni di nuove e difficili sfide, non ultima quella, piena di insidie, veicolata dalla digitalizzazione dei dati. Di fronte ad un simile scenario, i termini di riferimento non possono più essere quelli tradizionali ma occorrerà spostare la riflessione su fronti quali, ad esempio: la distinzione tra la finzione e la realtà, analogamente a quanto emerge già da tempo in altri ambiti. In questa prospettiva, le dispute sull’immagine del “miliziano” di cui è parlato, pur conservando la loro rappresentativa esemplarità, potrebbero persino apparire come un discutibile rigurgito nostalgico. A queste, così come ad altre eventuali riflessioni inerenti l’analisi di un mondo sempre più complesso, si potrebbe comunque rivelare utile aggiungere, in dosi adeguate, un pizzico di “méfiance” (ivi, pp. 441-443). G. Regnani

Riferimenti

AA. VV., Photomontage – Experimental photography between the Wars, Thames and Hudson Ltd, London , 1991 Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980 Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966 Capa R., Leggermente fuori fuoco. Slightly out of focus, Contrasto, Milano, 2002 De Paz A., Fotografia e Società. Dalla sociologia per immagini al reportage contemporaneo, Liguori, Napoli, 2001 Freund G., Photographie et société, Edition du Seuil, Paris, 1974 Gilardi A., Storia sociale della fotografia, Mondarori, Milano, 2000Grasso A., Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano, 2000 Marra C., Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Mondarori, Milano, 2001 Newhall B., Storia della fotografia, Einaudi, Torino, 1984 Papuzzi A., Professione giornalista, Donzelli Editore, Roma, 1998Sontag S., Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1978 Sontag S., Davanti al dolore degli altri, Mondarori, Milano, 2003 Wunenburger J.-J., Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999 Zannier I., L’occhio della fotografia, Carocci, Roma, 1988

 

[1] Un processo che, in realtà, è di volta in volta differente anche in presenza del medesimo soggetto.
[2] “Testo” come lo si intende nell’accezione semiotica di contenitore di senso, significato.
[3] La figura retorica plausibilmente più adeguata, da questo punto di vista, è certamente la sineddoche, afferente la metaforica sostituzione di un frammento per una parte più estesa. In alternativa, è utilizzabile anche la metonimia, una metafora utilizzata per indicare un soggetto in funzione di un altro, concreto e intellettuale che sia.
[4] La fotografia che ritraeva il “Che” (Ernesto Guevara de la Serna detto, 1928-1967) morto in una “stalla” boliviana circondato da alcuni individui, oltre che “testimoniare” l’evento in sé e tutto il suo portato di conseguenze politiche per l’America Latina, rinviava, a causa di alcuni elementi formali, alle celebri tele del “Cristo morto” di Andrea Mantegna (1431-1506) e alla “Lezione d’anatomia del professor Tulp” di Rembrandt (Harmenszoon Van Rijn, 1606-1669).

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La fotografia e la “méfiance” della Magnum di Robert Capaultima modifica: 2008-06-11T11:05:00+02:00da
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