Fotografia, comunicazione, media e società

La metafotografia di Joan Fontcuberta – La fotografia tra reale, virtuale e neoauraticità dei media

La fotografia tra reale, virtuale e neoauraticità dei media

di Gerardo Regnani

gerardo.regnani@gmail.com

Roma, 26-10-08

G.Regnani, Analogico vs digitale, 2019

La neoauraticità dei discorsi veicolati dai media, l’intento di decostruirne criticamente i linguaggi unita all’idea di una fotografia intesa come vera e propria costruzione concettuale, e non come semplice riflesso del reale, hanno fatto da sfondo alla ricerca di Joan Fontcuberta per la realizzazione delle sue memorabili “finzioni”. Le sue creazioni, partendo da intenzionali progetti manipolatori di determinati soggetti originari, vengono poi deliberatamente contraffatte da tutta una serie di elementi equivoci articolati in una verosimile ricostruzione finale che, ormai pronta per l’intenzionale uso mistificatorio, viene trasferita da un contesto informativo all’altro.

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E’ in quest’ultimo passaggio nodale, nel transito verso un altrove di una simulazione creata ad arte che l’autore individua la mistificazione più sottile; un percorso ancor più efficace se reso impercettibile, invisibile. L’aura che generalmente circonda i media e l’ineludibile dipendenza che essi generano completano il quadro. La prospettiva poetica di questo autore, apparentemente lontano da coinvolgimenti empatici, evolve piuttosto verso un itinerario immaginario dove quel che più conta non sono solo i veri e propri soggetti, i luoghi o “nonluoghi” ripresi, bensì la loro natura di “segno” tra i segni, di medium tra i media.

La pluralità delle raffigurazioni visive, il panorama persino antitetico dei relativi giudizi, o talvolta dei pregiudizi, induce a non assumere a priori una posizione necessariamente favorevole o contraria alle immagini, piuttosto ad assecondare un percorso di consapevolezza, anche attraverso forme di (ri)alfabetizzazione visuale, su un punto realmente nodale: il loro uso, un consumo che, a seconda dei casi, può essere positivo o negativo.

“Ogni rappresentazione per immagini si tiene infatti in bilico su un filo sottilissimo, e può sbilanciarsi sia verso una derealizzazione alienante sia verso una creatività liberante. […] Bisognerebbe rinunciare a qualsiasi generalizzazione, a qualsiasi posizione dogmatica, e valutare con prudenza le immagini nella loro propria realtà” (Wunenburger 1999, p. 340).

L’immanente frammentazione del discorso, connaturata alla fotografia, ha imposto letture diversificate anche in relazione al contesto in cui l’immagine è stata collocata. E’ divenuto valido per la fotografia, riaffermiamolo, ciò che Wittgenstein diceva per il linguaggio, e cioè che: il significato dipende dall’uso. Sono, dunque, gli utilizzi, le collocazioni che, integrando o sostituendo il pretesto fotografico di partenza, divengono di norma il vero è proprio testo[1] al quale fare riferimento per l’azione interpretativa successiva. In quest’ottica riemergerebbe, rivisitata, quella strumentale ancillarità alla quale avrebbe intenzionalmente relegato la fotografia la critica baudelaireiana espressa in occasione del Salon del 1859. Una strumentalità che assunse connotazioni ancor più originali nell’analisi di Oliver Wendel Holmes (1809-1894) che la immaginò come un “ponte” tra il soggetto originario e lo spettatore che, successivamente, avrebbe “usato” l’immagine. L’idea centrale del ricercatore americano era, in effetti, quella di separare definitivamente la forma fotografica dalla materia originaria del soggetto ripreso. Un “divorzio” considerato come il “più grande successo dell’uomo”. Secondo Holmes:

“Difatti la materia come oggetto visibile non servirà più, tranne in quanto stampo sul quale la forma viene modellata. Dateci qualche negativo di una cosa che vale la pena vedere, presa da punti di vista differenti: è tutto ciò che ci serve. Demolitela o datele fuoco, se vi va. Forse dovremo sacrificare parte del piacere nella perdita del colore; ma forma, luce e ombra sono ciò che conta, e persino il colore può essere aggiunto, e forse col tempo potrà essere ottenuto direttamente dalla natura […] C’è solo un Colosseo o un Pantheon; ma quanti milioni di potenziali negativi hanno emanato – campioni di miliardi di immagini – da quando sono stati costruiti! La materia in grandi masse è sempre statica e costosa; la forma è economica e trasportabile. Ormai possediamo il frutto della creazione, senza più il fastidio del nocciolo. Qualunque oggetto della Natura e dell’Arte si spoglierà della sua superficie per cederla a noi. Gli uomini daranno la caccia a tutti gli oggetti curiosi, belli, grandiosi, così come oggi cacciano il bestiame in Sud America, per impadronirsi delle pelli, abbandonando le inutili carcasse. La conseguenza immediata sarà un’enorme collezione di forme che dovranno essere classificate e ordinate in grandi biblioteche, così come oggi lo sono i libri” (Holmes in Fiorentino [a cura di] 1995).

La radicalità della posizione del medico statunitense arriva ad assumere le caratteristiche di un vero e proprio manifesto ideologico, foriero anche di quella natura di virtuale ante litteram da sempre immanente nel medium fotografico.

Nella visione holmesiana è dunque già possibile rintracciare quell’ulteriore passaggio tecnologico e simbolico del medium che da “immagine sintetica” (Sorlin 2001), prima ancora che analogica, la condurrà alla smaterializzazione di cui sarà poi protagonista con la digitalizzazione dei dati veicolata dall’informatica che, peraltro, tende ad accentuarne la sua già dubbia natura.

Un’ambiguità ingannatrice, quella di ogni immagine, che è veicolata dalla sue sembianze  “anemiche”, dalla sua relazione con “l’inconsistenza fenomenica delle ombre, degli spettri” e, come se non bastasse, “più che la vita fantasmatica, è intrigata con la morte stessa”, come testimonia anche Roland Barthes (1915-1980), ricordandoci che un’istantanea è sempre, per metonimia,[2] l’ipotetico “sostituto” di un soggetto che “non è o non è più” e che è la fotografia, appunto, a sostituirlo (Wunenburger 1999, pp. 360-361).

La fotografia, come altri media, assume quindi le vesti di un’estensione a volte determinante per l’esplorazione, innanzitutto intellettuale, dell’ambiente sociale e naturale. Il mondo nel quale viviamo, con la sua miscela magmatica tra naturalità e storia, con le sue innumerevoli impronte umane può essere infatti ricomposto attraverso tutta una serie di visioni o “quasi-visioni” riconducibili al pensiero di ogni singolo individuo (Merleau-Ponty 2003, p. 17). Tutto ciò che “noi vediamo”, il nostro “mondo” visibile è composto di cose che, in qualche misura, intuiamo già che ci circondano. Questa convinzione è alimentata in ognuno sin dalla nascita da un intimo substrato immaginario costellato di “opinioni mute” che rappresentano un aspetto intrinseco dell’esistenza umana (Merleau-Ponty 2003, p. 15). La sfera della percezione è, pertanto, contrassegnata dal contributo di elementi diversificati che compongono o, analogamente a quanto ha sottolineato lo stesso autore in un altro testo, dissolvono il reale, come può avvenire nei casi di specifiche patologie, così che, ad esempio:

“L’hallucination  désintègre  le  réel sous  nos  yeux, elle lui substitue une quasi-réalité” (Merleau-Ponty 2003, p. 385).

In generale, la nostra visione della realtà è comunque sempre mediata da uno sguardo personale, imprescindibile, innanzitutto, per dare un senso all’esperienza stessa:

“Tout ce que je sais du monde, même par science, je le sais à partir d’une vue mienne ou d’une expérience du monde sans laquelle les symboles de la science ne voudraient rien dire” (ivi, Intr. p. II).

Un percorso verso la “realtà” che, persino di fronte alla “immaginazione più verosimile”, impone di non escludere in assoluto il nostro immaginario, cosicché anche un piccolo segnale ipotizzerebbe, dunque, la compresenza di un doppio “teatro”, derivante dalla combinazione di elementi sia reali sia mentali, entrambi preesistenti in noi. Noi stessi, con il nostro duplice ruolo di oggetto e, al tempo stesso, di soggetto con le relative ed imprevedibili relazioni e sinergie connesse che possono emergere tra i due ambiti, rappresentiamo una sorta di “cosa fra le cose” (ivi, pp. 55-163).

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Questo graduale dissolversi dei distinguo, caratteristico del passaggio alla postmodernità, sembra riallacciabile a un più ampio processo di apparente dissoluzione di taluni confini preesistenti che non esclude le tradizionali forme culturali “alte” e “basse” (o “di massa”). Tali categorie risultano assorbite, infatti, dalle nuove tipologie di testi e generi tipici del sistema dell’industria culturale (Jameson, in Signorini 2001, p. 18) o, al plurale, delle industrie culturali (Eco 1994).

Un altro dei problematici aspetti contingenti è, secondo l’opinione lyotardiana, l’emergere di due nuove problematiche inerenti la convalida della realtà. La prima riguarda come definire se qualcosa è, o meno, una prova del vero, mentre la seconda è interessata a tentare di comprendere a chi ne spetti la relativa competenza. A ciò si aggiunga, inoltre, una graduale dissoluzione dall’esigenza di un’indagine sull’esistenza di entità metafisiche unita all’affermarsi dell’idea che gli attuali presupposti della verità, così come “le regole del gioco” del mondo, sono insite nel “gioco” medesimo; un gioco le cui regole non possono che emergere, ed essere sancite, se non dalle controversie proprie dell’ambito di provenienza.

Tra le conseguenze della fase di transizione di una società dalla modernità alla postmodernità è, sempre secondo la speculazione lyotardiana, lo smarrimento del valore e della plausibilità stessa dei racconti solenni tradizionali, in altre parole la fine dei “metaracconti” del passato, quale che ne fosse stata, teoretica o di affrancamento, la relativa natura. La corruzione di queste narrazioni superiori può essere ricondotta all’evoluzione tecnologica e industriale che già agli albori del secondo conflitto mondiale ha cominciato a enfatizzare il discorso, non tanto sui fini dell’agire, quanto sui mezzi con i quali condurre l’azione. Una riflessione coeva a questo discorso può essere quella relativa alla nuova fase del capitalismo liberale tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento che ha avviato un processo, mai più interrotto, di valorizzazione dello sfruttamento dei prodotti e delle prestazioni offerti dalla società contemporanea, simultaneamente  alla  fase  di  criticità  dell’alternativa  comunista (Lyotard 1979, pp. 56-69).

Nella contingente dimensione di “surmodernità”, così definita dall’analisi augéiana, si assiste peraltro alla crisi dell’identità, oltre che dei luoghi immaginari, di quelli concreti e reali. Ne consegue l’emerge di una nuova entità contemporanea, capace di affermarsi proprio grazie alla perdita di specificità, di relazione e di storia di molti dei luoghi tradizionali: il “nonluogo”.

“Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio muto, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero, propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile (Augé 1993, pp. 73-74).

Su questi scenari, sembra innestarsi agevolmente il discorso del fotografo spagnolo Joan Fontcuberta (1955). Tra i presupposti di fondo della ricerca di questo autore vi è la constatazione che, nell’ambito della postmodernità, l’artista contemporaneo non può che confrontarsi costantemente con una natura tanto alterata quanto contorta rispetto al passato e, anche per questi motivi, altrettanto postmoderna essa stessa (Fontcuberta 2001).

Il suo percorso è anche dedicato all’esplorazione, attraverso una memorabile serie[3] di finzioni fotografiche (ma non solo), degli effetti, tanto pervasivi quanto spesso impercettibili, del trasferimento da un ambito informativo ad un altro, da un contesto d’origine a uno di destinazione, di dati eventualmente manipolati con finalità mistificatorie, quali quelle che si perpetrano nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa (Fontcuberta 2001). Ciò perché l’informazione, come ci rammenta un’affermazione flusseriana dedicata all’analisi di una delle tante e complesse opere fontcubertiane della quale accenneremo meglio in seguito, è un elemento fondamentale anche nel dominio della fotografia (Flusser, in Fontcuberta 1998, p. 29).

Nella formazione di questi suoi interessi, per Fontcuberta hanno avuto un ruolo certamente determinante gli studi di giornalismo seguiti presso l’Università autonoma di Barcellona nel corso dei quali ha anche scoperto la fotografia e presentato le sue prime opere, contraddistinte da una certa influenza surrealista. La sua dimensione professionale lo ha poi visto impegnato, contemporaneamente, su diversi fronti oltre a quello di autore, da quello relativo all’esercizio della professione di giornalista per diverse testate, a quello d’insegnante, di saggista, di critico, di editore, di co-fondatore del gruppo “Alabern” (1976) e di direttore artistico di un’edizione[4] dei Rencontres Internationales de la Photographie di Arles (Francia).

L’ambito di esplorazione di Fontcuberta e il rapporto con l’universo mediatico, in particolare quello relativo alla frazione riconducibile al cosiddetto mondo dell’informazione, rinviano alla modernità dell’analisi lippmanniana (1922) afferente i riflessi delle relazioni tra noi, i media e lo “pseudoambiente”, l’“ambiente invisibile” nel quale siamo immersi (Lippmann 1999, pp. 22, 53). Speculazioni poi più volte riprese da numerosi studiosi e, in parte, confluite nell’ambito degli studi sulla teoria dell’“agenda setting[5] (Bentivegna 1994). Teoria a sua volta riconducibile al celebre mito della caverna di Platone (427-347 a. C.). Antro che, secondo lo scrittore e critico francese Paul Ambroise Valéry (1871-1945), altro non era che una simbolica “camera scura”, probabilmente la più ampia mai esistita. Se fosse stato mai possibile trasformarla concretamente in quello strumento, aggiunse, si sarebbe potuto realizzare un immane “film” capace di fornirci chissà quali indizi sulla natura e il pensiero dell’uomo (Valery, in Marra 2001).

“- Dopo ciò, dissi, assomiglia tu la nostra natura, per quanto riguarda sapienza e ignoranza, a un fenomeno di questo genere: considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardar solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda dietro di loro, in alto e lontano, e che tra il fuoco e i prigionieri corra in alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui quali esibiscono i loro spettacoli.

– Vedo, disse.

– Guarda ora degli uomini che lungo questo muretto trasportino utensili d’ogni genere, sporgenti oltre il muro, e statue e altre immagini animali di pietra e di legno, e ogni sorta di oggetti; e, come è naturale, alcuni di questi trasportatori parlino, e altri stiano in silenzio.

– D’una strana immagine tu parli, disse, e di ben strani prigionieri!

– Simili a noi, diss’io, ché questi cotali credi tu anzitutto che di se stessi e gli uni degli altri vedano altro fuorché le ombre riflesse dal fuoco sulla parete dell’antro di fronte a loro?

– Come potrebbe essere altrimenti, se son costretti a tenere per tutta la vita immobile la testa?

– E che vedrebbero degli oggetti trasportati?

Non forse lo stesso?

– Come no?

– E se fossero in grado di discorrere fra loro, non pensi tu che essi prenderebbero per realtà quel che appunto vedessero?” (Socrate, Repubblica, VII).

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La riflessione lippmanniana, in effetti, insiste proprio sullo scarto esistente tra la fonte e il destinatario di un’informazione.

“In qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi né tanto piccola, che tutti siano in grado di sapere tutto su ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo, e che per di più sono difficili da comprendere […] Il solo sentimento che si può provare per un fatto di cui non si ha un’esperienza diretta è il sentimento che è suscitato dall’immagine mentale di quel fatto [ecco perché] in certe situazioni gli individui reagiscono alle finzioni con la stessa forza con cui reagiscono alla realtà, e che in molti casi contribuiscono a creare proprio quelle funzioni cui reagiranno [attraverso] l’inserimento di uno pseudo-ambiente tra l’individuo e il suo ambiente [poiché] l’ambiente reale, preso nel suo insieme, è troppo grande, troppo complesso e troppo fuggevole per consentire una conoscenza diretta” (Lippmann 1922, 1999, pp. 41-44).

Un aspetto, questo, che vede particolarmente interessato l’autore spagnolo sul fronte del divario tra “informazione e conoscenza”.

“La paradoja de nuestra era consiste precisamente en el divorcio entre información y conocimiento. Nunca con anterioridad habíamos recibido un flujo tan exuberante de datos y noticias, pero ese capital ya no garantiza el enriquecimiento de nuestro espíritu ni una mayor facilidad para tomar decisiones, porque resulta indigesto y nos bloquea. La velocidad y la densidad de la información impiden la discriminación y la reflexión. Nos convertimos en agentes receptores de una información que consumimos, pero que no pensamos. De este modo, la información nos hace ignorantes. Y la ignorancia nos hace sumisos. […] La intensidad con la que esta (in)cultura mediatica impone su ley se ha visto acelerada por los vertiginoso avances en las tecnologías de la información. El pensamiento tecnocientífico que las ha hecho posible entabla con nosotros un diálogo ambivalente, entre el recelo y el entusiamo […] Las tecnologías de la información están creando una economía artificial en la que el dinero se mueve, pero no crea riqueza de verdad” (Fontcuberta 1998, p. 12).

Il discorso fontcubertiano si snoda, quindi, anche lungo l’asse dell’esame dei possibili riflessi rivenienti dalla cosiddetta “civiltà delle macchine” nell’ambito della produzione delle immagini e chiama in causa, al riguardo, la riflessione flusseriana sugli “apparati”. Il filosofo sudamericano ha sostenuto anzitutto che un apparato è “un oggetto culturale” e, come tale, può essere ulteriormente distinto in un “bene di consumo” o in uno “strumento” atto a produrre dei beni, appunto, da consumare, utilizzare. Un apparato, pertanto, può essere inserito nella seconda di queste due categorie di “oggetti”, in altre parole tra gli strumenti. Questi, quali “estensioni degli organi umani”, danno forma ad altri oggetti e, così facendo, trasformano la realtà che ci circonda. La fotocamera è uno di questi e, analogamente ad altri strumenti, anch’essa concorre alla creazione di “oggetti”, di nuove forme del mondo (cfr., quale possibile riferimento, anche l’immagine qui accanto) e, quindi, di altri media. Essa è frutto di un programma che, in ogni immagine, esprime una delle ampie, ma non infinite, virtualità del mezzo. Questa potrebbe essere una delle motivazioni che, in genere, renderebbe le fotografie “ridondanti”, ovvero incapaci di apportare nuove “informazioni” e, perciò, inessenziali. L’uso abituale di questi apparati non avrebbe effetti, nel senso che si è espresso in precedenza, sul mondo per cui non lo trasformerebbe.

Il fotografo non sarebbe “homo faber”, bensì “homo ludens”.

In tale prospettiva, del giocattolo usato si conosce solo una parte del programma, mai tutto in realtà, altrimenti il relativo “incantesimo” potrebbe risentirne. Questo sapere è, invece, patrimonio di un ristretto nucleo di addetti ai lavori; “funzionari”, a loro volta, al servizio di un determinato “metaprogramma”. Ne consegue che una fotocamera rappresenterebbe, in senso lato, una specie di “scatola nera” capace di riassumere in sé le virtualità di una generalizzata robotizzazione della creazione visuale. Essa sarebbe, insieme, anche un apparato in grado di esercitare un’autentica forma di potere e di controllo sul suo utilizzatore.

Prodotti di questi apparati, secondo Flusser, sono le “immagini tecniche”, ovvero quelle “immagini analogiche”[6] che con l’avvento del medium fotografico hanno affiancato le “immagini sintetiche” precedenti. Essendo gli apparati frutto dell’attuazione di un sapere scientifico, si potrebbe forse affermare che le immagini hanno con questa conoscenza un vero e proprio rapporto di derivazione, a differenza di quelle tradizionali, prive, per lo meno per quelle più datate, di uno specifico patrimonio testuale di riferimento. Le immagini tecniche, per tali ragioni, sono delle vere e proprie “astrazioni di terzo grado”, figlie di testi legati a concetti astratti riconducibili alle “immagini tradizionali” che, a loro volta, sono anch’esse astrazioni del mondo reale. Nei confronti di queste immagini è rischioso ogni atteggiamento tendenzialmente acritico orientato a un’ingenua interpretazione obiettiva delle rappresentazioni visibili, essendo queste delle forme illusorie, ancor più simboliche di quelle tradizionali e, insieme, dei “metacodici” dei relativi saperi testuali di riferimento. Tale dimensione, conseguentemente, si ricollega alla realtà stessa solo implicitamente. Dal punto di vista estetico, dunque, l’immagine tecnica veicola tutta una serie di idee inerenti al reale, ogni volta “trascodificati”. A differenza delle “immagini tradizionali”, ove questo processo simbolico era, di norma, maggiormente evidente, non altrettanto si può ipotizzare per le immagini tecniche a causa dell’incognita rappresentata dalla presenza dell’accennata scatola nera (Flusser , pp. 17-34).

L’evoluzione dalla dimensione modernista a quella postmodernista ha inoltre determinato il passaggio da una “cultura del calcolo” a una della “simulazione”. Le tecnologie dell’informazione hanno intaccato e talvolta annullato i processi di conoscenza diretta della realtà, inducendo un nuovo ciclo epistemologico, ovvero la problematica della rappresentazione della realtà ha ceduto il passo alla sua costruzione sulla base di conoscenze indirette, riportate da terzi (Fontcuberta 1998, pp. 11-21).

Già nel corso dell’Ottocento venne messo in discussione l’impianto della concezione del mondo valido sino ad allora; una visione  “marcada por el paradigma de los índices: de ahí la preeminencia de la huella, del documento, del archivo, del museo, de la memoria, de la cultura óptica de la fotografía” (ivi, p. 20).

Questo patrimonio culturale, tipico dell’era del Positivismo, aveva fissato nella scienza il punto di riferimento imprescindibile per il progresso della conoscenza umana, immaginandola come fondamentale fonte di acquisizione della verità. All’interno di tale linea di pensiero il sostegno incondizionato nei confronti della scienza e della tecnologia ha poi finito, nel tempo, per ritorcersi paradossalmente proprio contro questa stessa concezione intellettuale. Tra coloro che hanno contribuito a questa discussione, il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) sottolineò, tra l’altro, come tra gli istinti di base dell’essere umano si ritrovi l’esigenza della costruzione simbolica per metafore, per miti e, dunque, anche attraverso l’arte.

Imparare a convivere con la simulazione è divenuto, quindi, praticamente una necessità (ivi, pp. 11-21).

Il concetto di oggettività, quale espressione capitale della cultura scientifica, è stato quindi sottoposto a critiche severe con la crisi delle scienze fisico-naturali e del pensiero positivista verso la fine XIX secolo. La critica investì tanto l’eventualità di adeguare alle scienze sociali le metodologie usate per quelle fisico-naturali, quanto l’affidamento assoluto ai fatti quale fondamento indiscutibile della verità. Il realismo stesso, considerato, in quella prospettiva teoretica, base di un sapere certo, si è rivelato un criterio fondamentalmente ingenuo. Ne è derivato che il determinismo positivista, nonostante tutto il suo vasto impianto normativo, non è sembrato poter più reggere il confronto con la complessità concreta del reale. La realtà stessa è divenuta, quindi, una specie di “cavallo di Troia”. In questo dibattito, si sono inserite critiche quali quella nietzscheiana, che non ha esitato a affermare che il fatto stesso, in sé, è “stupido”. In quest’ottica, è l’interpretazione il vero tramite per la loro conoscenza e questa, evidentemente, è legata alla soggettività individuale che, cambiando, porta a mutare anche la relativa visione interpretativa. Non esistendo fatti o dati veri in assoluto, che non siano cioè svincolabili dall’interpretazione, Nietzsche ha scritto: “ci sono solo fatti, io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo le interpretazioni” (Nietzsche, in Truglia 2004, pp. 1-9).

L’oggettività stessa, pur non significando assenza di valori non è, però, una mera media di valori. Né, all’opposto, Max Weber (1864-1920) ritiene sgradita l’espressione soggettiva, considerandola, anzi, un elemento cardine della ricerca, da lui considerata l’asse intorno al quale ruota, con la sua singolarità, il percorso di conoscenza dell’uomo (Weber, in Truglia 2004, pp. 9-10).

“Non ci sono fatti sociali significativi in quanto tali ma soltanto attribuzioni di senso. […] La conoscenza può essere, quindi, solo parziale e non definitiva […] Un aspetto importante dell’oggettività, intesa alla maniera di Weber, è la relazione che si instaura tra soggetto e realtà empirica da un lato, e significato e fatto dall’altro. […] E, tuttavia, non è la realtà empirica nella sua totalità che può essere conosciuta, ma solo singole parti di essa. […] La realtà sociale caratterizzata da un’estrema mutevolezza ed eterogeneità si sottrae ad ogni possibile imbrigliamento concettuale.” (Truglia 2004, pp. 10-14).

Da questo punto di vista, le opere di Fontcuberta sono, per diversi aspetti, una conferma della parzialità di ogni visione. Ogni realizzazione è, inoltre, potenzialmente vera o falsa, nel senso che in ciascuna delle categorie, virtualmente, convive il suo opposto.

“La historia de la fotografía puede ser contemplada como un diálogo entre la voluntad de acercarnos a lo real y la dificultades para hacerlo. Por eso, a pesar de las apariencias, el dominio de la fotografía se sitúa más propiamente en el campo de la ontología que en el de la estética” (Fontcuberta 1997, p. 12).

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Un elemento nodale in questo processo interpretativo è rappresentato dalla fiducia che vene riposta nell’osservazione. Una speranza di certezza che, sovente, deve mutuare significato da ambiti simbolici esterni alla realtà osservata nel momento contingente. Il caso dell’informazione, al riguardo, è, di nuovo, esemplare con tutto il suo portato di paratesto che lo circonda per rendere, se non vera, per lo meno verosimile la notizia eventualmente trasmessa. Il lavoro di Fontcuberta intende, tra l’altro, concentrare il nostro sguardo proprio in questa direzione: instillare gocce di dubbio circa la verosimiglianza delle immagini prodotte proprio dal mezzo che, per credo comune, dovrebbe essere garanzia di una esatta riproducibilità del reale e che, in realtà è sempre frutto di una mediazione tra oggettività e soggettività. La fotocamera è, al pari di altri strumenti, un mezzo “imperfetto” al quale affidare l’onere di essere uno “specchio del reale” potrebbe risultare estremamente rischioso. Le immagini, tradizionali o digitali che siano, sono tutte manipolate secondo Fontcuberta in quanto frutto di vari compromessi, a partire dall’inquadratura, sino alla messa a fuoco, alla scelta del momento, del luogo e così via.

L’idea stessa di creazione convive e comprende in sé tale dimensione.

Lo scopo di tali riflessioni non dovrebbe essere, dunque, quello di pronunciare norme morali al riguardo, bensì quello di sottoporre ad una valutazione critica le intenzioni poste “a monte” e l’eventuale (ri)utilizzo delle immagini, non tanto quindi la loro connaturata ambiguità. E sull’influenza, sugli effetti delle immagini, sulla loro efficacia che occorre riflettere criticamente, prima di ogni altra cosa. Tenendo presente infatti quest’ultima considerazione, la forte sensazione di spaesamento che coglie l’osservatore di fronte alle opere fontcubertiane è, emblematicamente, una potenziale risposta all’istanza di esame di efficacia delle immagini accennata precedentemente. Le realizzazioni dell’autore spagnolo pongono sovente lo spettatore dinanzi a uno scenario di grande incertezza, di profondo disorientamento che, anche grazie al contributo non irrilevante offerto dalla collocazione dei soggetti in adeguate “cornici” di fruizione, lasciano segni di profonda inquietudine nelle coscienze degli osservatori. Nelle sue rappresentazioni assistiamo a un’operazione quasi mai percepibile immediatamente di enfatizzazione dell’inattendibilità delle “testimonianze” proposte. Contributi visuali che il pubblico non risulta pronto a ricevere e che, conseguentemente, spiazzano, talvolta anche inquietando l’osservatore. Per partecipare al “gioco” di Fontcuberta occorre, quindi, dotarsi di uno strumento fondamentale, ovvero la continua capacità di rimodulare i propri punti di riferimento.

Per sviluppare il suo metadiscorso sulla fotografia e, più in generale, sulle immagini, Fontcuberta si è avvalso del medium fotografico sia per veicolare sia per “documentare” le sue memorabili finzioni. Un discorso che, attraverso una serie diversificata di creazioni non comuni, riflette anche sull’immaginario collettivo riguardo all’emblematico radicamento del concetto di realtà fotografica che, nonostante l’annichilimento delle certezze tipico della c.d. epoca postmoderna, continua, con tenacia, a resistere diffusamente, come è nel caso accennato in seguito, commentando il contributo critico di un noto fotografo italiano.

Analogamente a quella dei maghi illusionisti classici, l’opera di Joan Fontcuberta tenta, inoltre, di realizzare un costante e sinergico connubio tra il mezzo fotografico e la “distrazione” usati entrambi con sorprendente competenza e padronanza. Sinergie che vengono poste in campo sia attraverso la realizzazione di progetti multidisciplinari sia grazie alla collaborazione di altri autori, come nel caso della sua “opera-firma” intitolata Fauna.[7] Essa, paradigmaticamente, accoglie tanto gli incanti di una ricerca tendenzialmente pseudoscientifica quanto gli interventi ingannatori dell’autore. Ciò, perché sebbene i soggetti componenti l’intera opera siano, in realtà, degli esseri fantastici partoriti dalla fervida fantasia fontcubertiana essi sono, nel contempo, reali nella loro fisicità di oggetti ed altrettanto reali potremmo considerare le relative fotografie che li ritraggono. Si tratta, di fatto, di un vero e proprio bestiario di insolite ed inverosimili figure animali tra cui, un serpente con le gambe, una scimmia per metà cervo, strani esseri marini e così via. L’impianto scenico è poi corredato da una altrettanto improbabile serie di immagini dedicate ad un fantomatico studioso tedesco, tale “professor Ameisenhaufen”, presentato, nella finzione, come l’autore (con tanto di assistente) della “scoperta” degli insoliti esseri presentati in mostra. Completa il quadro mistificatorio un apparato di note, curate e redatte in tedesco, concernenti la presunta descrizione delle peculiarità di questo singolare zoo di “creature putative”. Una rappresentazione che, al di là dell’interesse per l’analisi della scena e del relativo retroscena, potremmo censire come un ipotetico studio di “criptozoologia”.[8]

Fauna è, inoltre, un progetto che testimonia il tentativo da parte degli autori di impossessarsi dell’oratoria espositiva caratteristica degli studiosi di zoologia e delle istituzioni museali dedicate alle scienze naturali. Questi ambiti, attraverso la profusione di informazioni offerte, il dettaglio dell’analisi e l’alone di scientificità nei quali si avvolgono, possono permettersi di proporre ai destinatari delle loro iniziative qualsiasi tipo di argomento ritengano opportuno. In effetti, più che il radicato status della fotografia quale franco ed indiscutibile documento attecchito nel credo comune è l’aura, il prestigio disarmante del verbo istituzionale che rende indubbio qualsiasi tema emesso da quel tipo di emittente. Un discorso articolato che partendo dalla riflessione sui comuni schemi di realtà di riferimento e sull’attendibilità del medium fotografico giunge poi a ridiscutere il “discorso scientifico e l’artificio” celato sotto ogni sistema di sapere.

In questa scossa all’incontestabilità del linguaggio istituzionale è rintracciabile, inoltre, una delle linee guida della ricerca fontcubertiana, tesa, non tanto alla creazione fine a se stessa di finzioni eccezionali, quanto a porre l’accento sugli snodi attraverso i quali questa simulazione può essere poi assunta quale potenziale verità assoluta. Riflettendo sugli ipotetici effetti di questi strategici quanto non sempre noti crocevia, l’osservatore potrebbe essere assalito da un diffuso e incontenibile senso di inquietudine. Lo smarrimento di chi intuisce il superamento della sottile e impercettibile linea di confine oltre il reale – in questo cammino verso l’irreale – potrebbe generare qualche difficoltà nella definizione di una sua eventuale collocazione sia presente che futura (Fontcuberta 2001b, pp. 7-39).

“In short, there is the debate about the imagination’s limits concerning the forms of the natural world” (Fontcuberta 2001b, p. 40).

Un’altra interessante raccolta di opere realizzata da Joan Fontcuberta è quella intitolata Herbarium, un insolito e fantastico repertorio di “criptobotanica”. Herbarium è un omaggio interpretativo attraverso il quale la fase di simulazione assume una connotazione estrema. Tutti gli esemplari di piante proposti sono, in realtà, pseudopiante, realizzate con un’accurata e fantasiosa opera di montaggio temporaneo di piccole frazioni recuperate nell’area industriale di Barcellona. E’ un catalogo di opere dal sapore minimalista, realizzato alla maniera “neo-oggettivista”, che propone una lunga serie di presunte specie botaniche dalle fattezze estremamente fantastiche. Le relative immagini vengono proposte quasi spoglie, attraverso una ricercata e rigorosa essenzialità, quasi scientifica verrebbe da dire, della composizione formale.

L’esempio offerto dalle opere che compongono Herbarium rappresenta, inoltre, una ulteriore e significativa dimostrazione degli effetti distorsivi di un’eventuale elaborazione (ambigua) delle informazioni, dei supposti dati di base, benché, nel caso specifico, essi siano limitati all’ambito della manipolazione estetica piuttosto che a quello dell’alterazione biologica. Nonostante ciò, lo stupore che se ne ricava è proprio quello, appunto, di un vero e proprio mutamento biologico. Per tale ragione, le immagini che compongono Herbarium non sembrano meno scientifiche degli equivalenti conformi ai dogmi della Scienza; sono, piuttosto, caratterizzate soltanto da minor pragmatismo. Queste piante sono, in realtà, solo una rappresentazione simbolica di ipotetici vegetali e, come tali, sono puri artifici esse stesse, espedienti visuali riconducibili, pur nella specificità del loro interesse per l’informazione, prevalentemente alla sfera dell’arte (Flusser, in Fontcuberta 1998, p. 29).

La loro sottile mistificazione di fondo, tuttavia, non emerge quasi mai con immediatezza, semplicemente perché inattesa, anche grazie all’accurata ricostruzione del contesto di riferimento nel quale le opere vengono artatamente collocate e poi ritratte.

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Assegnandosi la simbolica funzione di creatore di questi vegetali fantastici, nati solo perché se ne potesse documentare fotograficamente il loro effimero quanto immaginario esotismo, ha contribuito alla rappresentazione di una natura tanto irreale quanto ingannatrice per via dell’apparente rigore scientifico che sembra aver regolato l’originaria opera catalogatrice delle finte specie rappresentate (Fontcuberta 2001b, pp. 26-27).

Anche in questa impresa fontcubertiana sembra riemergere, la paradigmatica riflessione barthesiana a proposito della bizzarria della fotografia, vera sotto il profilo temporale, falsa riguardo a quello percettivo (Barthes 1980, p. 115).

Queste opere, in effetti, offrono un significativo contributo in tal senso, sottolineandoci quanto possa essere difficile, a volte persino vano, tentare di sottrarsi all’implicita percezione illusoria veicolata dal medium fotografico. La radicalità di queste esperienze è tale da indurre l’osservatore a ridiscutere lo statuto stesso di documento fotografico e, più in generale, a dubitare della plausibilità del credo scientifico e tecnologico.

Una radicalizzazione che raggiunge il suo apice suggerendo la cancellazione di qualsiasi certezza di fronte a rappresentazioni che pretenderebbero di essere obiettive negando, finanche, che queste possano veicolare alcunché.

Queste opere, testimoniando quindi un generico atteggiamento di sfiducia e di rifiuto verso qualsiasi forma di visione acritica, intenderebbero favorire la produzione di antidoti ottici idonei a contrastare la contaminazione visuale, il turbamento nato dallo sfaldarsi del credo relativo all’obiettività del medium.

La fotografia, nella prospettiva fontcubertiana, ha dunque sostituito la funzione documentaria con quella >metadocumentaria. Fotografare diverrebbe, insomma, l’occasione per una speculazione sulle modalità di produzione dei “documenti” fotografici e delle relative implicazioni ideologiche. Nel caso specifico, prescindendo dai soggetti proposti, Herbarium rappresenta una metariflessione sui rapporti sottintesi tra le icone e i loro referenti, tra le parvenze e le relative impronte originarie. In queste opere, in sostanza, sembra poter essere riassunta l’evoluzione finale delle immagini tecniche, ormai riconducibili a fatali scudi annichilenti interposti tra l’individuo e la realtà che, alla fine, oscurano ambedue. L’alternativa a questa dimensione postmoderna e nichilista può essere individuata nella rivalorizzazione della realtà, del significato concreto dei fatti, riconquistando il desiderio di esplorare con curiosità il reale. Si tratta di una missione che forse anche l’arte deve riassumersi, pur nell’ambito di un proprio percorso di libertà, oscillando autonomamente anche oltre i confini della realtà ma, talora, anche in direzione opposta, per non disperdere irreparabilmente il patrimonio umano di relazioni, materiali ed immateriali, che ci legano al mondo visibile ed invisibile (Fontcuberta 2001b, pp. 26-27).

“The contract between artist and spectator, between magician and audience, demands credulity and incredulity in equal measure. Across a range of seemingly disparate projects, Fontcuberta reminds us that even the skeptic is motivated by a profound desire to believe the improbable” (ivi, p. 23).

Un universo, verosimile o inverosimile che sia, del quale il panorama dell’arte contemporanea offre un’abbondante esemplificazione, quasi una sorta di “stratégie intellectuelle”, che ruota intorno ad un’idea di rielaborazione della realtà.

Collegata a questa provocatoria tematica, si accompagna un’analisi critica sulla funzione della fotografia contemporanea, concentrata sulla corrosione del suo ruolo di testimone dell’evidenza nella confusione e nell’indeterminatezza tipiche della nostra epoca; un momento storico caratterizzato, inoltre, dal graduale avvicendamento del reale con il virtuale.

Nell’ambito di tale sfera simbolica, una singolare esplorazione è stata avviata, secondo lo stesso Fontcuberta, dal fotografo italiano Luigi Ghirri (1943-1992). Mutuando valori di riferimento dall’arte concettuale, l’opera ghirriana si è rivolta ad un rimaneggiamento dei segni visuali, un percorso tra l’astratto  e  il concreto,  in una consapevole    amalgama    di     ironia    e     poesia,   che   egli   amava   definire “strip-tease intellettuale”. Attingendo suggestioni anche dalla poetica di Jorge Louis Borges (1899-1986), in uno dei suoi tanti ed intensi contributi scritti, Ghirri si soffermò su una delle più grandi metafore della rappresentazione visuale prodotte dal medium fotografico: la sua forse più rappresentativa metafotografia.

“Nel 1969, viene pubblicata da tutti i giornali la fotografia scattata dalla navicella spaziale in viaggio per la Luna; questa era la prima fotografia del Mondo. L’immagine rincorsa per secoli dall’uomo si presentava al nostro sguardo contenendo contemporaneamente tutte le immagini precedenti, incomplete, tutti i libri scritti, tutti i segni, decifrati o non. Non era soltanto l’immagine del mondo: graffiti, affreschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, film. Contemporaneamente la rappresentazione del mondo e tutte le rappresentazioni del mondo in una volta sola. Eppure questo sguardo totale, questo ridescrivere tutto, annullava ancora una volta la possibilità di tradurre il geroglifico-totale. Il potere di contenere tutto spariva davanti all’impossibilità di vedere tutto in una sola volta. L’evento e la sua rappresentazione, vedere ed essere contenuti si ripresentava di nuovo all’uomo, come non sufficiente per sciogliere gli interrogativi di sempre. Questa possibilità di duplicazione totale lasciava però intravedere la possibilità di decifrazione del geroglifico; avevamo i due poli del dubbio e del mistero secolare, l’immagine dell’atomo e l’immagine del mondo, finalmente una di fronte all’altra. Lo spazio tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande era riempito dall’infinitamente complesso: l’uomo e la sua vita, la natura. L’esigenza di una informazione o conoscenza nasce dunque tra questi due estremi; oscillando dal microscopio al telescopio, per potere tradurre e interpretare il reale o geroglifico.” (Ghirri 1997, p. 18).

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Un processo, quello del turnover reale/virtuale, che nello scenario magmatico dei media moderni confonde spesso, se non annulla del tutto, la classica distinzione concettuale tra il vero e il falso. Il prologo e, al tempo stesso, l’epilogo di quest’esemplare contrapposizione si riassume, indubbiamente, nell’evidenza che ogni evento può, o meno, essere vero, e viceversa. Conseguentemente, s’impongono nuovi modelli di relazione verso la rappresentazione per immagini così come, più in generale, riguardo alle modalità di trasferimento del sapere. Una rimodulazione, per quel che qui c’interessa, delle funzioni sociali dei media che veicolano immagini, quali quelli afferenti il mondo dell’informazione, finalizzata anche ad una ridefinizione del concetto stesso di “realtà”. In proposito, ha aggiunto Fontcuberta:

“Le monde devient un grand théâtre, il n’y a plus de divorce entre réalité et représentation […] La photographie peut prétendre être encore un document. Car, de fait, toute image, même la plus ambiguë ou la plus abstraite, contient une certaine masse d’informations […] Douter du sens de la photographie et de sa validité à représenter l’Histoire sont des manifestations dérivées de l’actuel courant de déconstruction. La définition de sens comme réponse à cette nouvelle façon de penser a dû évoluer (comme un virus répondant à la pression de l’entourage). L’image comme registre d’identité morphologique a cédé le pas à l’image comme démonstration suspecte […] Mais le pratiques falsificatrices des artistes contemporains prétendent justement attirer l’attention sur les «autres» pratiques de falsification. Quand l’artiste inconnu parle de virus mutant en se référant au sens dans la photographie, nous voyons ces actions artistiques comme des intoxications informatives contrôlées, c’est-a-dire des vaccins dont la mission sera d’inciter l’organisme (social) à générer ses propres défenses. La volonté de constester ou de «contredire» le status quo d’un certain ordre visuel basé sur l’évidence photographique m’a amené depuis longtemps à formuler la notion de contrevision” (Fontcuberta, in AA. VV. 1996, pp. 19-21).

Il concetto di contrevision è legato all’idea fontcubertiana di frattura con le routine[9] insite nell’architettura del “programma” del pensiero visivo tradizionale. L’autore immaginerebbe, in effetti, un’azione di rottura simile a quella di un hacher che tenta di attaccare un potenziale punto debole del sistema. In tale prospettiva, contrevision significherebbe alterare il tradizionale concetto di realismo fotografico assegnato al medium, non tanto come atteggiamento critico verso la visione quanto verso “l’intenzione visuale”, attraverso un percorso sovversivo articolato in tre tappe. La prima è relativa a quella che definisce “inconscient technologique” del sistema del medium fotografico; la seconda riguarda lo statuto ontologico della fotografia e le sue strutture di diffusione; la terza concerne il comune senso di libertà simulata dall’illusoria dimensione tecnocratica.

“A l’origine, la photographie a dû se rapprocher de la fiction pour démonstrer sa nature artistique, et son objectif prioritaire a consisté à traduire les faits en souffles de l’immagination. En revanche, aujourd’hui, le réel se confond avec la fiction et la photographie peut refermer son cycle : rendre l’illusoire et le prodigieux aux trames du symbolique que finissent par devenir les vrais producteurs de la réalité” (Fontcuberta, in AA. VV. 1996, p. 21).

Una voce dissonante riguardo all’opera dell’artista catalano è quella del già citato fotografo italiano Ferdinando Scianna (1943) che, in questo caso, non veste i panni del fotografo ma quelli del critico.[10] La premessa fondamentale del suo discorso risiede nel fatto che egli crede ancora, “trogloditicamente” (come lui stesso si afferma), che la fotografia conservi frammenti del reale a differenza di Fontcuberta che, invece, sostiene l’opposto, in altre parole che è falsa come un “bacio di Giuda”.[11] Da un lato, quindi, una difesa dello statuto tradizionale del medium, della sua presunta “diversità essenziale e scandalosa”; dall’altro, la negazione di tutto ciò, ovvero l’affermazione che il mezzo è per sua natura un inganno. Due concezioni antitetiche e, quindi, apparentemente inconciliabili. L’analisi di Scianna prosegue poi precisando che, sebbene trovi tanto interessanti le opere fontcubertiane quanto raffinate le ricostruzioni scenografiche, non accetta che l’autore ne riveli la finzione definendole come dei “vaccini contro le menzogne”.  Sarebbe stato preferibile, ha aggiunto, che egli non avesse rivelato il trucco né, tanto meno, che questa rappresentazione avesse assunto le vesti di una speculazione inerente “lo statuto della fotografia”; un esercizio, quest’ultimo, che avendo radici lontane, non ha motivo di essere reiterato. Il critico siciliano conclude precisando che la confusione degli ambiti relativi alla natura del medium e al suo uso a fini mistificatori proposta da Fontcuberta metterebbe irresponsabilmente in pericolo, in funzione “anti illuminista”, proprio il ruolo del linguaggio. Uno strumento dal quale, pur nella consapevolezza dei rischi insiti in un suo eventuale utilizzo distorto, non è possibile prescindere al fine di una “ricerca della verità”. Attraverso una “nichilistica delegittimazione” si metterebbe in pericolo, invece, proprio la possibilità di comunicare, di trovare un legame con il reale, dimenticando che questa è stata, e sovente lo è ancora, una delle prerogative del ruolo di questo mezzo ormai “al tramonto” (Scianna, in AA. VV. 2003).

Probabilmente, l’eventuale risposta dell’artista spagnolo potrebbe essere estratta proprio dall’opera cui faceva riferimento in precedenza il critico italiano e sarebbe stata tesa a confermare, immaginiamo, un percorso che, per certi versi, sembra anche rievocare talune scelte della Magnum, quale quella “méfiance” – definizione coniata dallo stesso Scianna – di cui si è accennato precedentemente quando si è detto di questo suo contributo all’agenzia di cui è divenuto componente (cfr., al riguardo, il testo intitolato: La fotografia e la “méfiance” della Magnum di Robert Capa. Il fotogiornalismo tra azione e contemplazione):

“Toda fotografía es una ficción que se presenta como verdadera. Contra lo que nos han inculcado, contra lo que solemos pensar, la fotografía miente sempre, miente por instinto, miente porque su naturaleza no le permite hacer otra cosa. Pero lo importante no es esa mentira inevitable. Lo importante es cómo la usa el fotógrafo, a qué intenciones sirve. Lo importante, en suma, es el control ejercido por el fotógrafo para imponer una dirección etica a su mentira. El buen fotógrafo es el que miente bien la verdad” (Fontcuberta 1997, p. 15).


[1] Da intendersi nell’accezione semiotica di contenitore di significato.

[2] Figura retorica indicante la sostituzione di un’immagine (concreta o psichica) con un’altra, di un qualcosa per qualcos’altro.

[3] Elenchiamo qui, e brevemente, soltanto i “lavori” dell’autore catalano presentati a Roma, presso il “Palexpo”, nel 2001: “Herbarium”, “Fauna”, “Safari”, “Emogrammi”, “Costellazioni”, “Sputnik”, “Aeroliti”, “L’artista e la fotografia”, “Sirene”.

[4] La ventisettesima, realizzata nell’estate del 1996.

[5] La teoria della cosiddetta “agenda setting” sostiene, nell’ambito degli studi sugli effetti “a lungo termine” dei media, che sebbene questi non riescano, in assoluto, ad imporre cosa pensare possono, secondo la prospettiva coheniana, delineare l’orizzonte di riferimento delle cose intorno alle quali l’individuo andrà poi a correlare e modulare il proprio universo simbolico (Wolf 2001, pp. 143-146).

[6] Un argomento di cui abbiamo già trattato nella prima metà del capitolo iniziale di questo studio.

[7] Opera avviata nel 1985, con la “collaborazione fotografico-letteraria” di Pere Formiguera.

[8] “Criptozoologia, dal greco kriptos, nascosto; zoon, animale; logos, scienza”. Con l’occasione, è stato fatto notare che lo stesso cognome dell’autore potrebbe essere etimologicamente scomposto nel modo seguente: “Fontcuberta [deriverebbe] dal catalano font, fonte e cuberta, nascosta” (Fontcuberta 2001b, p. 16).

[9] Il termine è da intendersi nell’accezione che le attribuirebbe il lessico informatico (Fontcuberta, in AA. VV. 1996, p. 21).

[10] Ha curato “Obiettivo Ambiguo”, una rubrica di fotografia dell’inserto “Domenica” pubblicata da “Il Sole 24 ore”. L’articolo cui si fa qui riferimento è stato pubblicato il 26/08/2001 (Scianna, in AA. VV. 2003) ed è collegato alla presentazione al pubblico della mostra di Joan Fontcuberta dal titolo “Scherzi della natura” tenutasi, dal 12 luglio all’8 ottobre 2001, presso il “Palazzo delle Esposizioni” di Roma (http://www.palaexpo.com).

[11] E’ il titolo di un importante testo dell’autore spagnolo (cfr., in bibliografia: Fontcuberta 1997).

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Riferimenti

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La metafotografia di Joan Fontcuberta – La fotografia tra reale, virtuale e neoauraticità dei mediaultima modifica: 2008-09-10T15:06:00+02:00da
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