Fotografia, comunicazione, media e società

Fotografare il sacro

 

G. Regnani, Icone, 1998

Indagini semiotiche di Maria Giulia Dondero (recensione)

Il sacro può essere rappresentato, senza “inquinamenti”, in una fotografia? Il testo di Maria Giulia Dondero, ricercatrice presso l’Università di Liegi, nonché docente di Semiotica delle Arti presso la sede di Rimini dell’Università di Bologna e coautrice con Pierluigi Basso Fossali di Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi (cfr., in archivio, la relativa recensione > indice dei testi > http://gerardo-regnani.myblog.it/)

 

VERSIONE ESTESA

L’esperienza del sacro può essere traslata in una fotografia? E, prima ancora, in che termini andrebbe posta la questione della sacralizzazione dell’oggetto-fotografia? Quali sono, in definitiva, le relazioni tra questo nodale medium intermedia e il sacro? Può la fotografia interferire con il sacro, “indebolendolo”? Per rispondere a questi interrogativi, anche con l’ausilio di alcune stimolanti indagini semiotiche, Maria Giulia Dondero ha scritto Fotografare il sacro. Indagini semiotiche.

Il termine “sacro”, ricorda Callois citato nel testo, deriva dalla parola latina ‘sacer’ che rinvia tanto a “santo e puro” quanto, al tempo stesso, a “empio e impuro”. E tra queste due dimensioni antitetiche, apparentemente legate da una sorta di invisibile filo magico c’é la dimensione secolare, il comune, il quotidiano.

Nel libro si dimostra come il “discorso” della fotografia inerente la sfera del sacro possa essere sostenuto, oltre che desacralizzando, anche attraverso percorsi di attribuzione di senso trascendente o di ri-valorizzazione di dimensioni a tutti comuni, come la malattia – parte buia e infernale della vita – e la morte, analogamente a quanto hanno fatto alcuni noti fotografi contemporanei quali: Pierre et Gilles, Jan Saudek, Olivier Richon, Sam Taylor-Wood, Joel-Peter Witkin, Allan Sekula e Duane Michals.

Partendo dal presupposto, ormai consolidato, che la rappresentazione della dimensione del sacro riguardi un evento ineffabile e non certo facile da trattare, la sfida che è affrontata nel testo è quella di analizzarlo come percorso narrativo all’interno del quale l’intangibile diviene testo che veicola uno specifico “discorso” inerente la sfera spirituale, il soprannaturale.

L’analisi prende avvio dall’esame di quelle “idee” della fotografia che l’hanno vista protagonista, a partire dalle riflessioni connesse con la sua presunta caratteristica di documento e di “specchio del reale”, emerse sin dal suo avvento, sino a quelle teorie interessate alla possibilità del medium di esplorare un diverso mondo, anche distante dall’apparenza del visibile rappresentato. E tra gli universi altri che questo dispositivo di “rivelazione” potrebbe renderci manifesto si delinea la dimensione intangibile del sacro e, talora, affatto distante, l’altra altrettanto apparentemente misteriosa del magico.

La fotografia infatti, analogamente a ogni altra immagine si potrebbe aggiungere, è in grado di rappresentare così come di negare, trasformare, conservare o prefigurare la presenza di qualcuno o qualcosa, terreno o ultraterreno che sia. In questa prospettiva, l’immagine fotografica sembra dunque in grado di rappresentare anche l’irrapresentabile, per quanto voler “rivelare” il sacro (indicibile, indescrivibile) attraverso l’apparente realismo della fotografia si palesi come un’evidente contraddizione. Infatti, richiamando Bateson e Bateson, l’autrice sottolinea come non si possa costruire qualcosa e definirlo poi sacro in quanto, proprio perché costruito, non può essere tale. Il sacro, dunque, non si può realizzare ad hoc essendo qualcosa con cui non devono emergere interferenze dovendo, piuttosto, fondarsi su relazioni inconscie. La natura gratuita della relazione sacrale ne rende impossibile l’organizzazione. Il sacro, inoltre, inteso come offerta non fondata sull’attesa di un controdono, è paragonabile, per Derrida,  al donarsi senza finalità strategiche. Il sacro confligge con l’agire strategico. Il donare non può reggersi, perciò, su una relazione fondata sul calcolo, sul tornaconto. In questa prospettiva, il rendersi visibile del dono, paradossalmente, ne causa la dissoluzione. È l’invisibilità, quella anonima e senza volto, che avvicina il dono alla dimensione sacra.

Anche l’interferenza della fotografia, secondo Bateson, può rendere il sacro più debole. Con il suo svelare, vietare quanto è segreto dissolve quella “forma di non-comunicazione” indispensabile alla sfera sacra e al suo essere una dimensione che non contempla ingerenze. Tanto meno la curiosità insaziabile di un voler vedere sino in fondo, sino all’“inferno del sapere”, del capire e conoscere troppo.

Non a caso, per l’analisi semiotica di tipo struttural-generativo la capacità del medium fotografico di rappresentare il distante, l’immateriale, la sorte, si configura come una vera e propria sfida. Andando infatti oltre le potenzialità certificative della fotografia – così come sono state ipotizzate da Benjamin o, sul filone peirciano, da Dubois e da Krauss – è possibile indirizzarsi agli “effetti di senso” innescati non tanto da ciò che risulta tangibile, quanto, piuttosto, soltanto significato (Floch). La fotografia sembra dunque in grado di andare ben oltre il mondano potendo rappresentare anche dimensioni trascendenti che si connotano come tali non solo perché possono mutuare senso in quanto traccia di un (s)oggetto originario, bensì grazie alle impressioni di senso (traslato) stimolate dalla forma dell’impronta stessa.

L’analisi dell’autrice è inoltre dedicata a un confronto tra l’ipotesi di fotografia come “è stato” (Barthes) – e al suo interesse per la dimensione emotiva del fruitore, piuttosto che per la componente strettamente documentaria dell’immagine – e al suo possibile configurarsi quale ipotetico ready-made opposto al fronte testuale di Greimas, ove l’intrattabilità del medium può essere invece immaginata come una configurazione testuale capace di “raccontare” anche il trascendente, trasformandone, conseguentemente, in “trattabile” l’ambito apparentemente “intrattabile”.

Riguardo, ancora, alla tensione emotiva alimentata dalla lettura/fruizione dell’immagine fotografica, contrariamente a quanto postula l’ipotesi benjaminiana in relazione alla relativa dissoluzione dell’aura, l’autrice sottolinea invece come la fotografia sembra palesare, all’opposto, tutta la sua potenza iperauratica “documentando” che qualcosa/qualcuno un tempo, da qualche parte, di fatto “è stato”. Apice esemplare di tale potenzialità sembra essere, non a caso, l’immagine-simbolo intorno alla quale si è concentrata la riflessione dell’ultimo Barthes de “La camera chiara”. In quell’immagine celata in quanto possibile espressione del “qualunque” sebbene raffigurasse la madre nel Giardino d’Inverno – delineando, così, una sorta di propensione del semiologo francese verso l’iconoclastia – pare proprio condensarsi tutta l’intensità di quella fotografia mai mostrata. Quella immagine, proprio a causa del suo non essere visibile, attraverso la negazione veicolata da tale “forma di non-comunicazione” (Bateson, Bateson) rinvia ad una dimensione trascendente.

Nell’analisi barthesiana, inoltre, ha trovato spazio una prospettiva “soggettiva” piuttosto che “testuale” della fotografia da una parte, con la dissoluzione della dimensione enunciazionale, e una tendenza all’ontologizzazione del referente dall’altra – “Una foto è sempre invisibile: ciò che vediamo non è lei” (Barthes) – che può in qualche misura aver contribuito all’emergere di ipotesi inerenti la possibile relazione del medium con il ready-made. In linea con questo modello teorico, sembra essere anche l’ipotesi di Marra che immagina la fotografia come: “Un segno che funziona come una porzione di realtà”, avvalorando la tesi del medium quale mezzo di riproduzione automatica del reale, capace di ricreare una sorta di (s)oggetto “in carne e ossa”.

Tale prospettiva potrebbe essere, secondo Greimas solo un ideale confine teorico, mentre per Floch soltanto una delle possibili poetiche della fotografia: da quella referenziale (la negazione della “costruzione”) a quella sostanziale (l’ipotetico “grado zero” della fotografia), considerando anche quella obliqua (la propensione al paradosso) e quella mitica (il veicolo di un discorso altro rispetto al visibile). In questa prospettiva, una plausibile deontologia in chiave semiotica, i possibili percorsi di senso sono logicamente legati alle relative pratiche interpretative, con i connessi vincoli testuali e socioculturali, non essendo il senso già dato e immutabile come qualcosa di connaturato al rappresentato. In relazione a ciò, Floch ha considerato altrettante pratiche fruitive, ovvero quelle: pratiche, utopiche, critiche e ludiche. Tutte possono peraltro risultare pertinenti a un medesimo testo, riassumendolo nella relativa prospettiva. Le pratiche fruitive, inoltre, possono influire sul testo e viceversa.

Quale che sia la prospettiva di analisi – quella struttural-generativa di Floch, piuttosto che quella genetica di Dubois – non risulta tuttavia possibile immaginare l’esistenza di “teorizzazioni passepartout” che possano valere a prescindere dalle estetiche, dalle pratiche di valorizzazione e dagli statuti in relazione ai quali l’enunciato fotografico, anche in modo diverso a seconda dei casi, si potrebbe collocare. Così come non è altrettanto ipotizzabile un discorso sulla fotografia che la collochi al di fuori del generale mondo delle immagini essendo essa attraversata da una pluralità di estetiche e forme semiotiche che interessano anche altri ambiti (pittura, disegno, cinema, ecc.), benché una metodologia di analisi che si riveli idonea a una fotografia non è detto che risulti tale anche per altri tipi di testi (un quadro, una rappresentazione grafica, un film, ecc.).

Andando più in profondità, anche nell’analisi del livello plastico di un’immagine non può essere concepita l’esistenza di un unico nucleo di formanti fissato una volta per tutte. Si è di fronte, piuttosto, a un processo in divenire variamente correlato all’ambito percettivo, corporeo, motorio e sensoriale dell’osservatore.

Nell’ambito della semiotica visiva occorre anche tener conto che, in relazione a media differenti, altrettante possono essere le relative “logiche del sensibile” di riferimento, prima di tutto perché diverse risultano, ad esempio, le sintassi correlate con l’atto produttivo: manuale nel disegno e la pittura, “per impronte” nella fotografia e così via.

Connessa con il discorso sul sacro e con la genesi dell’opera fotografica, ricorda poi l’autrice, vi è anche la riflessione inerente l’aura. Essa, secondo l’ipotesi di Benjamin è la “guaina sacrale” esistente intorno all’opera. La questione, tuttavia, è trattata solo “in generale”, ovvero senza distinguere tra differenti pratiche fruitive, statuti, generi e testualità. Senza tener conto, inoltre, delle relazioni che tra questi ambiti possono eventualmente instaurarsi. L’aura è legata al qui e ora inerente la sua unicità irripetibile nel luogo in cui è collocata (si pensi, ad esempio, a un quadro). La sua riproducibilità, al contrario, farebbe dissolvere questa dimensione cultuale. Si passerebbe, pertanto, a una dimensione di tipo “profanamente culturale”, legata piuttosto che al culto dell’opera al suo valore espositivo, come potrebbe essere nel caso delle fotografie. Per queste ultime, in alternativa all’aura sacrale che circonda un quadro, potrebbe emergere, invece, un’altra forma di aura costituita dalla “patina” che comunque le avvolge: un “rivestimento” che rinvia alla biografia complessiva dell’immagine piuttosto che “concentrarsi” alla sola sua origine.

Ciò detto, l’utilizzo della fotografia finalizzato alla rifacimento di una raffigurazione pittorica a tema sacro sembra comunque “inquinato” da una sorta di tara ontologica del medium connessa con la sua ipotetica minore “purezza” rispetto alla (“sorella maggiore”?) pittura.

Per quel che concerne le ragioni della scelta della fotografia per presentare il sacro esse sono sostanzialmente tre, ovvero:

1) la sua capacità di divenire un “ponte” con quanto è passato, dissolto;

2) essere manifestazione dell’attimo;

3) rendere manifesti interstizi del visibile altrimenti intangibili.

Fenditure del visibile che vanno distinte, richiamando al riguardo le relative riflessioni svolte altrove da Giovanni Fiorentino, dalle quelle pratiche di consumo “basse” (o “di massa”), interstiziali e ovunque disperse, ove comunque si paleserebbe una delle pratiche certamente più diffuse e per certi versi significatimene più autentica del medium. Una produzione forse non “alta” che, per le possibili interrelazioni che potrebbero generarsi, potrebbe risultare comunque non del tutto avulsa dalla dimensione cui rinvia l’analisi della sacralizzazione dell’oggetto-fotografia e dell’iconografia del sacro contenuta nel testo.

Così come è rilevante per l’autrice l’intertestualità che emerge dalle fotografie dedite al sacro, in particolare per i collegamenti con l’ambito pittorico insiti in questo tipo di transiti. Inevitabilmente, infatti, anche la fotografia che desacralizza registra un “debito” nei confronti di altri media (non ultima, la pittura, ma non solo) oltre, ovviamente ai riflessi rivenienti da estetiche testuali e statuti differenti (“artistico, documentale, pubblicitario, ecc.”) rispetto ai quali si colloca, di volta in volta, in funzione delle relative pratiche sia interpretative che fruitive contingenti.

Nell’ambito di tali pratiche, lo statuto testuale dell’immagine contribuisce a determinare il grado di “affidabilità” che è attribuito all’immagine che richiami un’iconografia religiosa di derivazione pittorica. Ne potrebbero derivare, conseguentemente, persino situazioni paradossali quali quella in cui una fotografia documentaria possa persino risultare “predisposta” e, pertanto, poco credibile rispetto a una a statuto artistico che, proprio per il suo mancato coinvolgimento apparente a livello “politico”, potrebbe invece essere letta come maggiormente attendibile.

Si consideri, inoltre, che l’attribuzione di senso a qualsiasi immagine, essendo essa innanzitutto un prodotto culturale, non può trarre origine esclusivamente dallo studio delle forme in essa tangibili, dovendo piuttosto considerarsi l’insieme delle sue relazioni intertestuali e il relativo percorso tra i differenti statuti che l’hanno eventualmente interessata. E il discorso della fotografia inerente il sacro, forse ancor più di altri si potrebbe aggiungere, risente senz’altro delle relazioni con i diversi statuti e pratiche di fruizione consolidatisi nel tempo, prima ancora che delle capacità stesse del mezzo. Sarebbe quindi opportuno che risulti chiaro, in ogni caso, quale sia il perimetro di semantizzazione di riferimento per l’analisi del testo visuale interessato.

Detto questo, il testo non ha la pretesa di individuare in maniera definitiva quale siano le eventuali conformazioni più idonee a significare specificatamente il sacro, bensì, attraverso l’esame di alcuni particolari corpus di immagini, come alcuni impianti visuali ripresi intertestualmente dalla pittura vengano risemantizzati nelle produzioni di taluni autori contemporanei.

L’autrice, inoltre, non ritiene il sacro un “campo chiuso”, bensì un ambito di incessante rinegoziazione dei relativi valori preesistenti concretizzato anche attraverso la produzione testuale veicolata dagli enunciati visivi dei suddetti autori.

Come anticipato, per quel che concerne la scelta dei corpus analizzati e dei relativi criteri di pertinenza, l’autrice ha preso in considerazione sia fotografie che rinviano al sacro in maniera più esplicita, per via del titolo, della tematica trattata, della configurazione o di citazioni sia immagini che richiamano il discorso attraverso riflessioni attinenti dimensioni ed esperienze comuni, come quella della salute e della fine della vita.

Nel percorso di desacralizzazione di taluni valori religiosi insito in ogni tableau vivant proposto da Pierre et Gilles, ad esempio, scompaiono dai corpi i segni del percorso di fede dei protagonisti surrogati piuttosto, secondo l’autrice, da figure/modello “vuote” che altro non sembrano poter offrire oltre al loro corpo “pietrificato” dalla fotocamera in un carosello di pose stereotipate.

Nelle fotografie realizzate da Olivier Richon, invece, il corpo “vuoto” di cui si è detto si dissolve totalmente lasciando il posto a oggetti/segni inseriti negli still life fotografici presentati che, per metonimia, evocano la figura assente del santo attraverso il senso traslato che paiono veicolare, grazie anche al “rinforzo” riveniente dai titoli/didascalie delle immagini stesse. Attraverso questi “resti” presenti nelle rappresentazioni, si delinea una vera e propria dissoluzione dell’identità globale e della intoccabile quanto sacra “ecologia” del soggetto rappresentato (Bateson).

Questo processo di sottrazione interessa, in altri casi, anche il nome proprio del santo rievocato nell’immagine fotografica, con la conseguenza che la raffigurazione di una figura esemplare diviene piuttosto il ritratto – che, nel senso di ri-trarre, dovrebbe invece rendere con precisione qualcosa di remoto e talora anche inaccessibile – diviene piuttosto qualcosa di anonimo e, pertanto, fungibile con qualunque altra espressione analoga.

Anche la stessa tematica religiosa, come si è detto in apertura, non è esente da possibili “detrazioni”, essendo stata talvolta trattata senza che ciò abbia necessariamente potuto portare all’attribuzione della caratteristica di sacro alla relativa configurazione visuale realizzata.

Allan Sekula con le sue opere rappresenta le offese all’unità identitaria dell’individuo contemporaneo.

Duane Michals nel suo percorso verso la fonte dei valori comuni afferenti il sacro, mette in scena, attraverso tutta una serie di epifanie del sacro, una vera e propria sacralizzazione del momento qualunque, del profano. L’hic et nunc della fotografia e l’arrivo inatteso (l’epifania) del sacro, che nella sollecitazione dell’ordinario risulta amplificato dalla “semantica dell’avvento”, non sono in conflitto e sembrano creare una relazione tra le dimensioni del magico e del sacro. L’opera di Michals, secondo Livingstone, condensa inoltre una sorta di (meta?)discorso sulla fotografia che ruota sui “limiti” propri del medium e sulla storia degli sforzi compiuti per superarli.

In una fase in cui si consolida la tendenza alla de-ontologizzazione dell’indicalità del medium, ove essa non è più concepita come semplice riproduzione del reale, la fotografia può forse contribuire meglio, anche attraverso l’esplorazione della dimensione sacra, a rendere più efficace l’incessante tentativo di individuare un senso profondo per il nostro cammino.

 

Maria Giulia Dondero è impegnata in attività di ricerca presso l’Università di Liegi. È docente di Semiotica delle Arti all’Università di Bologna (Sede di Rimini). Ha pubblicato per Guaraldi, insieme a Pierluigi Basso Fossali, Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi (2006). Ha scritto per: Nouveaux Actes Sémiotiques, RS/SI, Communcation et Languages,Locus Solus, VOIR, Visible.

 

Scheda bibliografica

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Autore: Dondero Maria Giulia

Titolo: Fotografare il sacro

Sottotitolo: Indagini semiotiche

Editore: Meltemi editore, Roma

Copyright: 2007

ISBN: 978-88-8353-543-7

Pagine: 240

Prezzo: € 19,50

 

Roma, 14 dicembre 2008

H O M E : http://gerardo-regnani.myblog.it/

 

Fotografare il sacroultima modifica: 2008-10-27T13:43:00+01:00da
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