Fotografia, comunicazione, media e società

Alle origini del fotografico

Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot – di Roberto Signorini – recensione 7-08-09

VERSIONE RIDOTTA

 

Autore: Signorini Roberto

Titolo: Alle origini del fotografico

Sottotitolo: Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot

Editori: CLUEB, Bologna – Editrice Petite Plaisance, Pistoia

Copyright: 2007

ISBN: 978-88-491-2740-9

Pagine: 528

Prezzo: € 38,00

Recensione di Gerardo Regnani

 

La traduzione italiana di Roberto Signorini (1947-2009) di The Pencil of Nature di William Henry Fox Talbot (progetto editoriale delineato nel 1842-43 e concretizzatosi tra il 1844 e il 1846) colma prioritariamente, nel panorama della produzione culturale italiana, un “vuoto” incomprensibile nei confronti di un’opera di capitale importanza per la storia dei media, in particolar modo della fotografia, essendo stato il primo libro commercializzato dedicato al medium, contenente, tra l’altro, sia testi che fotografie.

Il fatto che si sia dovuto attendere il 2007 affinché se ne potesse avere una traduzione in italiano è sintomatico, secondo il traduttore, del dilagante stato di regressione culturale e di nichilismo contingenti.

La realizzazione della traduzione, a causa delle difficoltà di reperimento, sia degli originali sia delle copie disponibili, ha inoltre costretto Signorini a lavorare sulla bibliografia secondaria piuttosto che sulle fonti originarie.

Ciò detto, il libro, ricco anche di riferimenti storici e tecnici, si compone di due sezioni. La prima contiene un saggio introduttivo mentre la seconda è dedicata alla traduzione del testo di Talbot.

Nella prima parte Signorini ha dedicato uno specifico capitolo alla formazione (onnicomprensiva) di Talbot e al contesto sociale in cui lui ha vissuto, segnato dalle repentine e marcate evoluzioni economiche, sociali e politiche connesse con i riflessi della rivoluzione industriale e, insieme, politica del tempo. Si è trattato, ha ricordato il traduttore, di un periodo caratterizzato da acuti conflitti sociali – rispetto ai quali la fotografia non è affatto risultata estranea – nel corso del quale è stato ideato da Talbot lo storico procedimento in due fasi per l’impressione su carta delle immagini con il passaggio dal negativo al positivo. Secondo Signorini, in quel periodo è anche emersa, e probabilmente Talbot fu tra coloro che sembrarono intuirne il portato potenziale, un’estetica antiumana, oltre che “antiautoriale” e, quindi, “antiartistica” della fotografia – temi sui quali, come è noto, anche Charles Baudelaire si sarebbe poi espresso con il suo celebre saggio sul “Salon del 1859” – sulla quale ha certamente influito la rivoluzione industriale e la progressiva evoluzione dei mass media. Una dimensione plausibilmente alimentata dalla caratteristica della fotografia di potersi affermare come una forma espressiva capace di autoprodursi, sembrando apparentemente in grado di potersi svincolare dall’azione umana.

Le circostanze sia storiche che culturali nel corso del quale è emersa l’idea stessa di fotografia, sottolinea Signorini, sono dunque ricche di implicazioni oltre che dense di fascino. Esemplari, al riguardo, possono essere considerate le geniali riflessioni di Talbot richiamate nel testo in ordine alla duplice natura della fotografia, già allora concepita sia quale rappresentazione sia come impronta frutto del processo di fotosensibilizzazione dei supporti utilizzati: concezioni poi teorizzate da Peirce nelle categorie di “icona” e “indice”.

Di rilievo negli anni di esordio della fotografia, sia per i suoi ben immaginabili riflessi di ordine tecnico sia per quelli inerenti il profilo teorico, è stata inoltre la transizione dalla realizzazione di immagini “prodotte” dall’argento contenuto nelle carte da stampa a quelle realizzate con l’inchiostro per mezzo dei nascenti processi di fotoincisione, grazie alla altrettanto rivoluzionaria ideazione del retino fotografico. Un passaggio, che si inserisce nel solco di una continuità ideale tra la moltiplicabilità fotografica e le cosiddette “matrici storiche”.

Non meno densa di riflessi teorici, è l’idea di “immagine latente” connessa al labirintico percorso verso l’immagine (differita) poi visibile che, a partire dalle prime teorizzazioni che hanno accompagnato le sperimentazioni di Talbot e sino all’avvento dell’immagine numerica, ha svolto la funzione di (s)nodo essenziale della fotografia (analogica).

Spostandosi dal profilo teorico a quello estetico, aggiunge poi Signorini, è anche possibile far emergere possibili connessioni con le riflessioni di Vaccari inerenti la costruzione delle immagini e la loro riconducibilità a un codice simbolico, una dimensione culturale, un “inconscio tecnologico” di riferimento.

Le vicende che hanno caratterizzato gli anni d’esordio della fotografia sono stati pure caratterizzati, come ricorda l’autore richiamando François Brunet, da due differenti modelli culturali: quello francese e quello inglese. Il primo connotato dal principio egualitario di un’arte per chiunque, una sorta di democratica “arte senz’arte”, promossa attraverso la liberalizzazione del brevetto, contrapposto invece al modello aristocratico inglese, e al relativo problema della concessione delle licenze, di un’arte non propriamente per tutti. Una situazione che vedeva contrapposti gli interessi di un’industria culturale emergente – da intendersi, plausibilmente, nell’accezione non priva di connotazioni negative di “cultura di massa” – a una forma d’arte che, con una visione premonitrice, era stata anche definita come una sorta di “lirismo dell’ordinario”.

Entrambe queste due concezioni hanno comunque incrociato sulla strada della progressiva “volgarizzazione” del medium un  processo di moltiplicazione delle copie che si tentò di favorire con l’impianto e lo sviluppo delle prime imprese commerciali dedicate e con la connaturata organizzazione del lavoro. Si è trattato, ai primordi, di formule organizzative ancora lontane dalle teorizzazioni del taylorismo – fondate, cioè, sulla “sistematizzazione metodica” di ogni azione produttiva, la divisione dei compiti e la conseguente specializzazione degli addetti, nonché della successiva evoluzione fordista connessa con l’avvento delle catene di montaggio – ma, tuttavia, cominciava già a delinearsi una vera e propria divisione del lavoro e del relativo atto produttivo.

Roma,  7 agosto 2009

di Gerardo Regnani

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Roberto Signorini (1947-2009), studioso indipendente di teoria della fotografia, recentemente scomparso. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano: Arte del fotografico. I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni (C.R.T./Petite Plaisance, 2001) e la traduzione de L’immagine precaria di J.-M. Schaeffer (Clueb, 2006).

H O M E :http://gerardo-regnani.myblog.it/

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VERSIONE ESTESA

 

Autore: Signorini Roberto

Titolo: Alle origini del fotografico

Sottotitolo: Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot

Editori: CLUEB, Bologna – Editrice Petite Plaisance, Pistoia

Copyright: 2007

ISBN: 978-88-491-2740-9

Pagine: 528

Prezzo: € 38,00

Recensione di Gerardo Regnani

 

La traduzione italiana di Roberto Signorini di The Pencil of Nature di William Henry Fox Talbot (progetto editoriale delineato nel 1842-43 e concretizzatosi tra il 1844 e il 1846) colma prioritariamente, nel panorama della produzione culturale italiana, un “vuoto” incomprensibile nei confronti di un’opera di capitale importanza per la storia dei media, in particolar modo della fotografia, essendo stato il primo libro commercializzato dedicato al medium, contenente, tra l’altro, sia testi che fotografie.

Il rapporto tra questi due media (la parola e l’immagine) è risultato subito articolato anticipando, emblematicamente, l’interessante e talora problematica relazione tra la dimensione pratica del medium e la relativa speculazione teorica ed estetica successiva. Al riguardo, il testo di Talbot, secondo l’analisi di Carol Amstrong richiamata da Signorini nel testo, ne è una sintesi rappresentativa.

Accresce ulteriormente il valore di questo leggendario primato anche il fatto che è allo stesso Talbot che sarebbe possibile attribuire la paternità della prima mostra pubblica di fotografia della storia, realizzata, secondo quanto riporta il traduttore, a Londra il 25 gennaio 1839 (circa 300 partecipanti).

Il fatto che si sia dovuto attendere il 2007 – sebbene, secondo autorevoli fonti dell’epoca, l’accoglienza riservata alla pubblicazione fosse stata molto favorevole sin dall’inizio – affinché se ne potesse avere una traduzione in italiano è sintomatico, secondo il traduttore, del dilagante stato di regressione culturale e di nichilismo contingenti.

La realizzazione della traduzione, a causa delle difficoltà di reperimento, sia degli originali sia delle copie disponibili, ha inoltre costretto Signorini a lavorare sulla bibliografia secondaria piuttosto che sulle fonti originarie.

Ciò detto, il libro, ricco anche di riferimenti storici e tecnici, si compone di due sezioni. La prima contiene un saggio introduttivo mentre la seconda è dedicata alla traduzione del testo di Talbot.

Nella prima parte Signorini ha dedicato uno specifico capitolo alla formazione (onnicomprensiva) di Talbot e al contesto sociale in cui lui ha vissuto, segnato dalle repentine e marcate evoluzioni economiche, sociali e politiche connesse con i riflessi della rivoluzione industriale e, insieme, politica del tempo. Si è trattato, ha ricordato il traduttore, di un periodo caratterizzato da acuti conflitti sociali – rispetto ai quali la fotografia non è affatto risultata estranea – nel corso del quale è stato ideato da Talbot lo storico procedimento in due fasi per l’impressione su carta delle immagini con il passaggio dal negativo al positivo. Secondo Signorini, in quel periodo è anche emersa, e probabilmente Talbot fu tra coloro che sembrarono intuirne il portato potenziale, un’estetica antiumana, oltre che “antiautoriale” e, quindi, “antiartistica” della fotografia – temi sui quali, come è noto, anche Charles Baudelaire si sarebbe poi espresso con il suo celebre saggio sul “Salon del 1859” – sulla quale ha certamente influito la rivoluzione industriale e la progressiva evoluzione dei mass media. Una dimensione plausibilmente alimentata dalla caratteristica della fotografia di potersi affermare come una forma espressiva capace di autoprodursi, sembrando apparentemente in grado di potersi svincolare dall’azione umana. Tale intuizione ha probabilmente risentito del complesso ed elevato spessore  culturale di Talbot che nel corso della sua esistenza, oltre che alla fotografia, si è dedicato a tante altre e differenti aree disciplinari, quali: la matematica, l’ottica, la chimica, la fisica, la fotoincisione, la botanica, l’assirologia, le antichità bibliche, le antichità classiche, l’astronomia, l’etimologia, gli scritti letterari e le traduzioni. In questo variegato cammino intellettuale, l’interesse di Talbot  anche per la dimensione artistica, secondo l’ipotesi di Weaver citato nel testo, si inserisce quale forma di trascendente completamento del suo percorso di conoscenza, aiutandolo, in tal modo, a sottrarsi alle possibili insidie insite in una prospettiva prettamente tecnica del suo itinerario culturale inerente la fotografia. Non è inoltre secondario, come scrive poi Signorini, ricordare che l’idea fondante inerente la realizzazione di immagini senza l’ausilio dell’azione umana emerga non in un posto qualsiasi, bensì “sulle incantevoli sponde del Lago di Como”, nel corso di un momento di distensione seguito a un intenso periodo di impegni politici.

Quel periodo storico è stato anche caratterizzato dal rifiorire di tutta una serie di fantasticherie protofotografiche, alcune delle quali sono state alimentate dallo stesso Talbot attraverso la pubblicazione di alcune sue novelle.

Signorini ricorda inoltre che l’interesse per le ombre, gli specchi e le immagini autoprodotte ha radici antiche e ha trovato, in particolare nel Settecento e nell’Ottocento, un momento di particolare fortuna, come è stato nel caso delle illustrazioni della leggenda della “fanciulla di Corinto”. In questo mito si delinea, sulla scorta delle riflessioni di Jacques Derrida e Oliver Wendell Holmes citati nel testo, quel “segno impossibile” che si materializzerà nell’idea di una fotografia immaginata come uno “specchio dotato di memoria”. Una riflessione che rinvia a radici più antiche del medium individuabili nel celeberrimo mito della “caverna” di Platone, oltre che nella teologia cristiana. Con Holmes e poi con Roland Barthes, aggiunge poi il traduttore,  si delinea un percorso verso una “secolarizzazione dell’idea cristiana di immagine sacra”, ovvero di un’immagine (“acheropìta”) che non è prodotta dall’azione umana.

Le circostanze sia storiche che culturali nel corso del quale è emersa l’idea stessa di fotografia, sottolinea Signorini, sono dunque ricche di implicazioni oltre che dense di fascino. Esemplari, al riguardo, possono essere considerate le geniali riflessioni di Talbot richiamate nel testo in ordine alla duplice natura della fotografia, già allora concepita sia quale rappresentazione sia come impronta frutto del processo di fotosensibilizzazione dei supporti utilizzati: concezioni poi teorizzate da Peirce, prosegue il traduttore, nelle categorie di icona e indice.

L’opera di Talbot, in una fase in cui stava progressivamente radicandosi l’idea – e la conseguente estetica – di un’immagine capace di “crearsi da sé”, ha assunto una grande rilevanza sia sul piano teorico sia su quello storico, considerando anche una fondamentale dialettica del medium inerente le relazioni tra raffigurazione e impronta. Contrapposizione che, richiamando il pàthos immanente in ogni fotografia, rinvia inoltre alle sue possibili correlazioni anche con una dimensione trascendentale, ove soltanto l’autoproduzione dell’immagine appare in grado di generare una “presenza” – pura “immediatezza muta” – che compensi l’apparente incoerenza dovuta all’“assenza” insita invece nella rappresentazione.

Del carattere “anti-autoriale”, connesso con gli automatismi della ripresa, Talbot era evidentemente consapevole, come testimonia anche la riproduzione proposta da Signorini di una lettera-articolo scritta nel clima frenetico del fatidico anno 1839 (l’anno dell’annuncio ufficiale dell’attribuzione della paternità dell’invenzione a Louis-Jacques-Mandé Daguerre, ove è scritto: “La presente invenzione, […], è completamente diversa in quanto […] non è l’artista a produrre la raffigurazione, ma è la raffigurazione a prodursi da sé.”

E’ dunque grazie a questa “magia naturale” che le ombre, mitico segno rappresentativo della fuggevolezza e momentaneità, può essere “imprigionata” per sempre.

Il processo per ottenere simili raffigurazioni, ricorda Signorini, è stato definito dallo stesso Talbot come “fotogenico” (neologismo talbotiano, la cui idea primigenia risale al 1834, coniato fondendo, dal greco, il sostantivo phos, photos e il suffisso –genés il cui significato è “generato dalla luce”) o “sciagrafico” (derivato dal termine greco skiagraphia, ovvero “disegno d’ombra”). Talbot, come ha sottolineato più volte il traduttore, ha inoltre definito con un’altra parola “oscura” “l’immagine negativa del disegno fotogenico”, definendola, a seconda dei casi “shadow” o “shadow picture”, ovvero “ombra” o l’immagine di questa.

Ed è sempre Talbot che, augurandosi non suonasse allora inappropriato, conia pure il termine “calotipo”: forma contratta di “disegno (fotogenico) calotipico”, vale a dire la “Calotipia”,  neologismo traducibile come “bella impronta”, dal greco “kalos” + “typos”, successivamente ridenominata dallo stesso inventore anche “Talbotipia”. La calotipia era stata individuata da Talbot sin dal 1835 e indicata come “raffigurazione negativa”, nel processo a due stadi, del ribaltamento luci/ombre.

Da attribuire invece a John Frederick William Herschel è il termine “fotografia”, essendone lui stato, come sostiene anche Signorini, il maggiore divulgatore sia attraverso l’utilizzo del sostantivo stesso sia dei relativi verbo (fotografare) e aggettivo (fotografico). Lemmi che preferiva alla parola “fotogenico”, giudicata inadatta sia all’utilizzo con desinenze quali ia, ato, are, ecc. sia per la dissonanza con i prefissi di altri storici procedimenti riproduttivi quali litografia, calcografia e così via.

Sarà ancora Herschel, ricorda ancora il traduttore, il quale nel 1840 – con le implicazioni anche teoriche che ne deriveranno – che integrerà la terminologia fotografica con le parole “negativo” e “positivo”, sottolineando inoltre che attraverso questo procedimento si sarebbe potuta ottenere l’infinita riproducibilità dell’originale, potenzialità già intravista, sin dal gennaio dell’anno prima (il 1839), dallo stesso Talbot. Sempre in proposito, secondo Larry John Schaaf richiamato da Signorini nel testo, il procedimento negativo-positivo, frutto delle sperimentazioni effettuate per ottenere carte più sensibili – e dei relativi, logici suoi dubbi – è stato un vero e proprio attacco diretto all’invenzione antagonista di Daguerre.

La realizzazione diretta di positivi, al di là delle incursioni di Talbot, era invece l’interesse prioritario di altri protofotografi: una invenzione, come afferma Mike Ware citato dal traduttore, attribuibile al francese  Hippolyte Bayard, benché la  relativa creazione sia comunque da ricondurre alle pregresse osservazioni fatte sempre dall’inventore inglese.

Riguardo al termine “fotografico” Signorini, riflettendo sulla portata teorica dell’opera talbotiana, ha anche sottolineato come il senso sia semiotico-estetico sia etico-politico della relativa nozione possa rinviare alle speculazioni teoriche di Ugo Mulas e, prima ancora, a quelle connesse con la “scoperta” del ready-made e le inerenti riflessioni di Marcel Duchamp e Man Ray, a loro volta collegate a una dimensione temporale antecedente l’avvento delle Avanguardie storiche, ovvero all’idea primigenia del medium. In questa prospettiva l’idea di fotografia, in tempi più recenti è stata analizzata – da autori come Rosalind Krauss, Philippe Dubois, Claudio Marra, oltre che dallo stesso Signorini – nella “logica” di una traccia che si è impressa autonomamente. Il carattere di “impronta” della fotografia e il suo ricorrente “essere simile” al referente originario ha poi condotto la relativa riflessione – dal semiologo americano Charles S. Peirce ai già citati Krauss e Dubois sino a Barthes e Jean-Marie Schaeffer – a individuare nella fotografia le già accennate peculiari e duplici caratteristiche di icona e, insieme, di indice.

Di rilievo negli anni di esordio della fotografia, sia per i suoi ben immaginabili riflessi di ordine tecnico sia per quelli inerenti il profilo teorico, è stata inoltre la transizione dalla realizzazione di immagini “prodotte” dall’argento contenuto nelle carte da stampa a quelle realizzate con l’inchiostro per mezzo dei nascenti processi di fotoincisione, grazie alla altrettanto rivoluzionaria ideazione del retino fotografico. Un passaggio, che si inserisce nel solco di una continuità ideale tra la moltiplicabilità fotografica e le cosiddette “matrici storiche”, già insito nelle sperimentazioni del 1826 di Joseph-Nicéphore Niépce e al quale diede un contributo di rilievo, ancora una volta, lo stesso Talbot.

Ma, andando oltre il problema delle definizioni date e della paternità delle invenzioni, a Talbot divennero evidenti le possibili implicazioni derivanti dall’utilizzo del procedimento negativo/positivo. E’ fondamentale al riguardo, ricorda Signorini, un’annotazione datata1835:

“Nel processo Fotogenico o Sciagrafico, se la carta è trasparente, il primo disegno [il negativo; ndt] può servire come un oggetto per produrre un secondo disegno [il positivo; ndt] in cui le luci e le ombre saranno invertite [reversed].”

Nota poi ripresa in seguito e ulteriormente sviluppata:

“[…] La raffigurazione [picture] così ottenuta […] può essere poi usata a sua volta come oggetto da copiare; e grazie a questo secondo processo, le luci e ombre vengono riportate alla loro disposizione originari.”

E, ancora:

“[…] Propongo di mettere a profitto questo metodo per moltiplicare a basso costo copie di quelle incisioni rare o uniche che non varrebbe la pena di incidere daccapo a causa della loro limitata richiesta.”

Le implicazioni teoriche di questa evoluzione, secondo Signorini, sono state di portata rilevante in quanto, se da un verso la fotografia è configurata come una “mito-teologia secolarizzata”, per l’altro ha rivoluzionato concretamente la concezione filosofico-religiosa occidentale preesistente inerente la funzione della luce.

Richiamando Schaeffer, il traduttore ricorda, in proposito, che si è assistito alla dissoluzione della tradizionale metafora della luce quale strumento per chiarire e portare significato. Dal punto di vista di Schaeffer “l’effetto scotoforico”, ovvero “portatore di tenebre” delinea, piuttosto, il transito da una forma di rappresentazione veicolata da raffigurazioni (riconducibili, nella richiamata definizione data da Peirce, a: icone e simboli) a un autoprodursi delle cose (veri e propri indici nei termini del semiologo americano) caratterizzato da una “radicale contingenza e immanenza” delle cose stesse. Tale dimensione, in una prospettiva estetica più vicina a noi, richiama inoltre la summenzionata espressione duchampiana del ready-made. In tale ambito, la fotografia è stata intesa come una “icona indicale” e, come tale, una specie di “immagine-traccia” che, anziché essere rappresentata attraverso media che la “oltrepassano” (i ridetti icone e simboli), è essa medesima che “si esibisce” da sé. A tal proposito, Signorini richiama – prima ancora di giungere alle teorizzazioni più recenti di Krauss, Dubois, Franco Vaccari e Mulas connesse con la concezione mimetica dell’immagine e il ruolo demiurgico dell’autore – anche l’esperienza delle Avanguardie e, in particolare, fa riferimento a quella “fotografia allo stato puro” legata alla riscoperta del procedimento “sciagrafico” talbotiano messo in atto da autori del calibro di Christian Schad con le sue “schadographie” (termine coniato da Tristan Tzara), Man Ray con i suoi “rayograph” e Lásló Moholy Nagy con i relativi “fotogramm”.

Correlata, ma non meno densa di riflessi teorici, è l’idea di “immagine latente” connessa al labirintico percorso verso l’immagine (differita) poi visibile che, a partire dalle prime teorizzazioni che hanno accompagnato le sperimentazioni di Talbot e sino all’avvento dell’immagine numerica, ha svolto la funzione di (s)nodo essenziale della fotografia (analogica).

Spostandosi dal profilo teorico a quello estetico, aggiunge poi Signorini, è anche possibile far emergere possibili connessioni con le riflessioni di Vaccari inerenti la costruzione delle immagini e la loro riconducibilità a un codice simbolico, una dimensione culturale, un “inconscio tecnologico” di riferimento.

Non ultima, attingendo alla testimonianza del 1855 di un parente di Talbot, il cugino Nevil Story-Maskelyne, si aggiunga l’idea della “Fotografia come […] una delle vere idee poetiche di quest’epoca meravigliosa”.

Le vicende che hanno caratterizzato gli anni d’esordio della fotografia sono stati pure caratterizzati, come ricorda l’autore richiamando François Brunet, da due differenti modelli culturali: quello francese e quello inglese. Il primo connotato dal principio egualitario di un’arte per chiunque, una sorta di democratica “arte senz’arte”, promossa attraverso la liberalizzazione del brevetto, contrapposto invece al modello aristocratico inglese, e al relativo problema della concessione delle licenze, di un’arte non propriamente per tutti. Una situazione che vedeva contrapposti gli interessi di un’industria culturale emergente – da intendersi, plausibilmente, nell’accezione non priva di connotazioni negative di “cultura di massa” – a una forma d’arte che, con una visione premonitrice, era stata anche definita come una sorta di “lirismo dell’ordinario”.

Entrambe queste due concezioni hanno comunque incrociato sulla strada della progressiva “volgarizzazione” del medium un  processo di moltiplicazione delle copie che si tentò di favorire con l’impianto e lo sviluppo delle prime imprese commerciali dedicate – come nel caso, per limitarsi a quelli inerenti la vicenda di Talbot, del Regno Unito con il laboratorio di Reading nel Berkshire – e con la connaturata organizzazione del lavoro. Si è trattato, ai primordi, di formule organizzative ancora lontane dalle teorizzazioni del taylorismo – fondate, cioè, sulla “sistematizzazione metodica” di ogni azione produttiva, la divisione dei compiti e la conseguente specializzazione degli addetti, nonché della successiva evoluzione fordista connessa con l’avvento delle catene di montaggio – ma, tuttavia, cominciava già a delinearsi una vera e propria divisione del lavoro e del relativo atto produttivo.

Roma,  7 agosto 2009

di Gerardo Regnani

———–

Roberto Signorini (1947-2009), studioso indipendente di teoria della fotografia, recentemente scomparso. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano: Arte del fotografico. I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni (C.R.T./Petite Plaisance, 2001) e la traduzione de L’immagine precaria di J.-M. Schaeffer (Clueb, 2006).

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Alle origini del fotograficoultima modifica: 2009-07-15T08:47:00+02:00da
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