Paolo Sasso. Verso se

Paolo Sasso. Verso se

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“Ah, tutto è simbolo e analogia! Il vento che passa, la notte che rinfresca sono tutt’altro che la notte e il vento: ombre di vita e di pensiero” (F. Pessoa). Questi intensi versi sembrano potersi adattare alla natura delle fotografie di Paolo Sasso dedicate ad una performance di Alexandra Manasse, una danzatrice conosciuta in occasione della presentazione dello spettacolo  “Rosso Ciliegia Blues”, allestito presso il Teatro Vittoria in Roma con la coreografia di Oretta Bizzarri. La loro intesa è nata, emblematicamente, proprio grazie ad una fotografia realizzata dall’autore. La ripresa era dedicata ad un passo compiuto dalla protagonista seguendo la tecnica Graham.

Fu quell’immagine, dunque, il pretesto iniziale, il motivo di partenza verso qualcos’altro: lo spazio dell’anima condensato in questa espressiva serie di riprese in b/n.

Il percorso simbolico di queste opere, come avviene di norma per ogni immagine – sia essa sintetica o analogica – sembra inizialmente rinviarci verso un altrove situato, di norma, al di fuori dell’impronta visibile. Un’esplorazione esterna che rappresenta una tappa obbligata per tentare almeno in parte di ricostruire quello che potrebbe essere più o meno verosimilmente accaduto. In ogni caso, questo sconfinamento extra-fotografico non lascia affatto in disparte le immagini né, tanto meno,  il corpo nudo che in esse è ritratto, continuando ad intrattenervi un essenziale rapporto simbiotico. Le fotografie, quindi, continuano apparentemente a certificare in qualche modo che qualcosa, concretamente, è avvenuto. Per tale ragione potremmo considerarle, con le dovute cautele, dei veri e propri documenti. In realtà, per ciascuno di noi, queste opere potrebbero essere anche un “monumento”, inizialmente solo privato,  capace di testimoniare la volontà di preservare dall’oblio del tempo un evento che i due coprotagonisti coinvolti – questo lavoro, in effetti, è stato costruito “a quattro mani” – hanno considerato un frammento prezioso della loro esistenza. Anche per tale ragione, l’eventuale prospettiva esterna offerta da una lettura oltre il confine delle immagini, si connoterebbe verosimilmente, per il clima biografico emergente dalle iniziali tracce fotografiche che, in questa diversa dimensione, narrerebbero di qualcuno, di qualcosa posto all’esterno dell’immagine.

Ma, al tempo stesso, nel suo viaggio verso un altrove, il corpo ripreso da Paolo Sasso è anche un vero è proprio “testo”, non proprio quello letterale, bensì un contenitore di senso nella dimensione interpretativa offerta dalla semiotica testuale. La semiosi, il processo evolutivo del significato di cui questo testo è portavoce, prende il via subito, al primo sguardo, con il riconoscimento della ipoicona (C. S. Peirce) della figura umana nuda rappresentata. Dopo questa prima e apparentemente semplice catalogazione, persino nel caso in cui quel soggetto divenisse solo un oggetto del desiderio di quel “fuori scena” che tutti siamo (A. Abruzzese), occorre necessariamente fare comunque riferimento ad un universo di simboli esterno per poter dare un significato ulteriore a quella visione; un percorso che si avvale del bagaglio culturale precedentemente accumulato da ogni spettatore. Attingendo a quel patrimonio di cultura ognuno potrà plausibilmente intuire in alcuni segni, capaci di configurarsi come un vero e proprio medium figurativo, che l’orizzonte cui è diretta la protagonista di queste immagini è, in verità, un altro.

Questo mezzo è il gesto, veicolo espressivo attraverso il quale l’attrice ritratta tenta di condividere con il pubblico parte del suo mondo interiore.

Una gestualità che può essere immaginata come una serie di orme lasciate su un sentiero tortuoso; impronte che, ricomposte per astrazione, potrebbero forse indicarci la destinazione reale o immaginaria del cammino della protagonista. Un itinerario simbolico, un afono formulario magico speso per tentare di favorire almeno in parte la riarmonizzazione di un delicato equilibrio esistenziale. L’intima e onirica danza di questo corpo nudo, l’espressione istintiva di certi movimenti sembrano evocare un battaglia interiore per la riconquista di un bene smarrito del quale si avverte, costante, la mancanza. Un conflitto che, infine, potrebbe condurre verso il ripristino, parziale o totale, dell’armonia compromessa, favorendo un’ideale ricongiunzione finale del corpo con l’anima. Una lotta che, ovviamente, non è certo che possa essere semplice né concludersi necessariamente nell’arco naturale di un’esistenza umana.

Il corpo-attante che osserviamo non è, inoltre, solo l’espressione di un effimero happening solitario, ma anche quello di un attore sociale. In effetti, convivono in esso moltividui, rappresentanti una molteplicità di ruoli, a partire da quello – solo apparentemente più autentico rispetto alla fiction rievocata in queste fotografie – legato all’appartenenza ad un gruppo sociale, un’etnia, un ambito culturale, ecc. Tentando di “leggere” queste immagini, ci troviamo quindi di fronte ad una visione multipla e simultanea, con compresenze varie a partire dall’attrice “reale” che vediamo raffigurata. Quest’attrice, per definizione, finge, simulando per sé o per gli altri (o per entrambi) il travaglio di un’esistenza alla ricerca di una dimensione altra. In effetti, non si tratta di universi così distanti dato che le similitudini tra l’attore nell’atto premeditato della finzione e l’individuo sociale, non sono poi così poche, poiché anche quest’ultimo – ognuno di noi, in definitiva – è costantemente costretto ad interpretare uno o più ruoli, anche contemporaneamente. La molteplicità delle identità, anche nel quotidiano apparentemente più lineare è, di fatto, una necessità sociale vitale.

Questo corpo, spogliato dei suoi abiti sociali, tenta quindi di liberarsi dalle catene della “recita” quotidiana intraprendendo un suo personalissimo cammino liberatorio; un percorso ormai pubblico che prese il via in un’intimità sospesa, al riparo da occhi indiscreti nell’ovattata e amniotica atmosfera di una sala di posa. Questo percorso, a tratti quasi tangibile, circonda di un’aura speciale queste immagini. Esse sembrano evocare, in qualche misura, una sorta di “apparizione unica di una lontananza” (W. Benjamin), al pari della fugace comparsa di un’ombra nel corso di una giornata di nuvole spazzate dal vento.

Attimi di tensione visibilmente avvertiti sul corpo della protagonista e sottolineati dalle scelte estetiche dell’autore delle riprese, attraverso un uso incisivo dell’illuminazione: un’eredità espressiva del suo “imprinting fotografico con Dino Pedriali, ormai più di vent’anni fa, dal quale [ha] mutuato quasi integralmente l’uso della luce fortemente chiaroscurata”.

L’essenzialità minimalista dell’apparato scenico è, inoltre, uno degli elementi di forza del percorso narrativo di questa performance – un’opera essa stessa – arricchita anche da un’altra importante ed impalpabile presenza: il silenzio nel quale sembra comporsi quest’immaginario “ritratto gestuale”. Un paradosso, in fondo, perché queste fotografie ci mostrano il corpo di un essere vivente e, questa, è una condizione che non può coesistere con il silenzio assoluto: in natura, infatti, non c’é vita senza suoni o… rumori, interni o esterni che siano.

Lo stesso cammino simbolico di questa “attrice” è, solo in apparenza, diretto verso un altrove mondano perché, in realtà, è destinato ad un luogo, uno spazio, che pur sembrando distante è, invece, all’interno di ciascuno di noi: è la nostra anima. Quello spazio è, dunque, una costruzione, un’invenzione, un’immagine (anch’essa) mentale: “Lo spazio è soltanto un’attività dell’anima, è soltanto il modo umano di collegare in visioni unitarie affezioni sensibili in sé slegate” (Simmel). Non vi sarebbe, poi, vera distanza tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dalla nostra palese forma materiale, perché: “noi non abbiamo un corpo, noi siamo un corpo” (Nancy), un corpo unico che avvolge, protegge e veicola un’irripetibile insieme di significati individuali e collettivi. Valori che, non senza qualche discutibile ambizione, Paolo Sasso vorrebbe condensare nel corpo nudo inteso come “ritratto totale”, una metaforica sintesi del “valore individuale e segno irripetibile dell’unicità di ogni persona”.

Un’idea senz’altro ambiziosa, “un sussulto mai spento”, come lo ha definito lo stesso autore, nel quale sembra possibile poter rintracciare delle affinità con quanto affermava Nadar (1820-1910) in una sua celebre “testimonianza” che, in chiusura, riportiamo: “La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che avvince le intelligenze più elette, un’arte che aguzza gli spiriti più sagaci, e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli … la teoria fotografica s’impara in un’ora; le prime nozioni pratiche, in un giorno … Quello che non s’impara … è il senso della luce .. è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate … Quello che s’impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto – è quell’intuizione che ti mette in comunione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza più favorevole, la somiglianza intima” (Prinet, Nadar).

Roma, 27 luglio 2004

G. Regnani

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Riferimenti

Abruzzese A. Lessico della comunicazione Meltemi, Roma 2003
Beaumont N.. Storia della fotografia Einaudi, Torino 1984
Benjamin W. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Einaudi, Torino 1996
D’Autilia G. L’indizio e la prova. La storia nella fotografia La Nuova Italia, Milano 2001
Geertz C. Interpretazione di culture Il Mulino, Bologna 1998
Marra C. Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi Mondarori, Milano 2001
Peirce C. S. Collected Papers Harvard University Press, Cambridge 1958
Pessoa F. Prova per Fernando Pessoa (tr. A. Tabucchi) 7-12.1.97 Teatro Adua, Torino 1997
Signorini R. Arte del fotografico. I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi 20 anni Editrice C.R.T., Torino 1997

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