Pietro D’Agostino. Vedo un suono accanto a me. Sinestesia

di G. Regnani

gerardo.regnani@gmail.com

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https://www.pietrodagostino.com

Pietro D’Agostino. Vedo un suono accanto a me. Sinestesia

(versione non estesa)

Le poetiche e, a tratti, arcane immagini in b/n di Vedo un suono accanto a me sono state realizzate dalla fine degli Anni ‘90, nel corso di piccole esplorazioni solitarie, inizialmente senza una fotocamera, in alcune aree verdi di Roma.

Queste fotografie mi hanno innanzitutto portato ad immaginare l’autore alle prese con una sua personale rilettura di quei luoghi, come ai tempi del Grand Tour. La Città eterna, tra le tappe del mitico Tour, è stata infatti una delle più note, così come la campagna romana e le aree boschive, anch’esse ricche di scorci suggestivi.

Questo spunto, mi ha ricordato anche come la fotografia, sin dagli albori, si sia con il tempo radicata nell’immaginario collettivo come una sorta di meravigliosa “arte facile”: fama tuttora viva, fondata anche sull’infelice idea di considerarla come una banale arte “meccanica”, dunque sostanzialmente “stupida” e – allora come ora – alla portata di chiunque.

Alcune immagini mi hanno inoltre fatto tornare in mente le fotografie minimaliste (semplici e spoglie aree erbose nella stagione invernale) della mostra personale di S. Bacci, intitolata Sotto, del 1998, il primo anno di attività dello Spazio FINE (Fotografia e Incontri con le Nuove Espressioni) nei Docks Dora di Torino. Un cammino apparentemente unico – e comunque diverso, per ciascuno dei due autori – unito, semmai, dalla consapevolezza comune che più che la destinazione è proprio il cammino percorso l’aspetto più interessante e rilevante dell’esperienza vissuta. In questa prospettiva, la raccolta sembra dunque documentare la ricerca dell’autore di un intangibile filo in grado di collegarlo a una dimensione differente, capace di trascendere quella di primo grado. Un’esplorazione avviata senza fotografare e senza una vera e propria meta fisica predeterminata, solo con un primo intento: tentare di conoscere meglio quei luoghi, per poi magari “­­oltrepassarli”, addentrandosi non solo fisicamente in essi. Ed esplorandoli anche in una diversa prospettiva ha, fra l’altro, constatato che quegli spazi erano a lui tanto prossimi, quanto ancora poco noti. Iniziando poi a fotografare, ne ha via via incluso altri, comprese delle zone di sottobosco, tra le quali, alcune apparentemente inaccessibili, mostrando una certa “insistenza” narrativa nel proporre veri e propri grovigli vegetali. Quasi una sorta di ostinazione, certamente non casuale, perché quegli insiemi indistinti lo hanno evidentemente colpito. Il potere simbolico ed evocativo di queste riprese mi ha richiamato alla mente anche un altro ben noto intreccio di emozioni, affetti ed eventi che ci accomuna tutti: … la vita! Un metaforico parallelismo, dunque, in quel dilatarsi apparentemente disorganico e squilibrato del verde, nel quale sembra vincere solo il caos.

In seguito, la ricerca ha virato verso una direzione multisensoriale e, da prevalentemente visiva, è divenuta anche … sonora! Un’integrazione sensoriale che poggia su piccole fenomenologie percettive, come nel caso di impressioni, suggestioni, vissute sentendo solo un fruscio, un piccolo suono distante. Il riferimento agli echi, alle piccole emergenze sonore mi ha anche ricordato “Salvini”, protagonista de Il poema dei lunatici di E. Cavazzoni, non di rado “imbrigliato”, durante le sue singolari esplorazioni, in minute suggestioni acustiche, a partire dal fascino anche di semplici fruscii. Del resto, ogni suono si caratterizza, come l’autore ben sa essendo anche musicista, in una sensazione uditiva e/o in una vibrazione prodotta, molto spesso, da un semplice movimento d’aria, che, vibrando, crea sensazioni, emozioni e, in definitiva, … senso.

Come accennavo, anche per ragioni personali, questa raccolta mi ha finanche portato a riflettere su una visione più di confine, rievocandomi l’impegno narrativo/divulgativo di O. W. Sacks, in particolare del suo celebre L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Nel testo, la descrizione del quotidiano dei pazienti risulta sovente segnato da una miscela di esperienze divisa tra le loro percezioni visivo/sonore e una serie di trasporti, sia patologici sia non patologici (di natura intellettuale/spirituale). A proposito di questi ultimi stimoli, credo che possano essere tanti gli autori/artisti (compreso il “nostro”, forse?) che, nel tempo, si sono magari avvalsi di “aiuti” analoghi (impulsi di natura psicologica/trascendente), per favorire, almeno in parte, l’innesco e/o lo sviluppo di creazioni autoriali/artistiche. Sacks ricordava, inoltre, che l’immaginazione, così come la memoria, possono “condurci” in dimensioni differenti, talora anche trascendenti. Un altrove – che, non di rado, esploriamo (volentieri e magari di proposito) senza alcuna “bussola” – che nasce e vive nel sorprendente ed infinito tessuto emozionale incessantemente ordito da quel “telaio incantato” che è il nostro cervello.

Ma cosa sono, tentando un ipotetico metadiscorso, tutti questi riferimenti/riflessioni e queste fotografie?

A cosa “danno forma”, se non a delle idee o, in altri termini, a delle metafore?

Delle supplenze, insomma, che richiamando qualcosa, rinviano, in ogni caso, a qualcos’altro.

E, in quanto tali, non sono anch’esse, in fondo, delle immagini?

Mentali e immateriali, almeno nella fase ideativa, ma, comunque, a queste riconducibili.

In questo caso, la metafora che immagino possa meglio adattarsi a questa ricerca visivo/sonora credo sia la sinestesia, magari riassunta nell’espressione visioni sonore, quale possibile sintesi dei chiari suoni evocati in/da queste immagini/metafore, che, come tali, rinviano – “parlandone” –  anche al microcosmo sentimentale e culturale del loro autore.

Un’intensa poesia visiva, infine, che mi ricorda dei versi di Nostalgia di D. Sylvian, che penso possano avere delle consonanze anche con queste fotografie:

Voices heard in fields of green […]

Are lost within the wanderings of my mind.

Roma, 1° maggio 2017

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Pietro D’Agostino. Vedo un suono accanto a me. Sinestesia

(versione estesa)

Le poetiche e, a tratti, arcane immagini in b/n della serie intitolata Vedo un suono accanto a me sono state realizzate da Pietro D’Agostino a partire dalla fine degli anni Novanta, nel corso di piccole esplorazioni solitarie, inizialmente senza una fotocamera, in alcune aree verdi della Capitale.

Il testo che segue, non è propriamente un resoconto organico e rigoroso riguardante questa ricerca; è, piuttosto, una raccolta di libere impressioni e connessioni con queste immagini così cariche (per me) di echi e di suggestioni.

Proverò quindi, per frazioni, ad accennarne meglio qui di seguito.

Le esplorazioni fotografiche di queste zone arboree capitoline, mi hanno innanzitutto portato ad immaginare l’autore alle prese con una sua personale rilettura di quei luoghi, analoga a quella dei protagonisti del mitico Grand Tour. Ricordo, in merito, che, tra i secoli 18° e 19°, furono molti i facoltosi viaggiatori protagonisti di quel leggendario giro nelle principali città e aree d’interesse artistico e culturale europee, diffusamente considerato un componente irrinunciabile della formazione dell’aristocrazia del Vecchio continente. Tra le mete fondamentali di quel celebre Tour ci sono state, ovviamente, le principali città d’arte del Bel paese e, tra le preferite, la Città eterna è stata certamente una delle più visitate. Per comprendere meglio il fascino che allora l’ha resa una delle destinazioni preferite, credo sia sufficiente ripensare, come credo concordi anche Pietro D’Agostino, al suo enorme ed incomparabile patrimonio archeologico, artistico e ambientale e, non ultimi, ai suoi dintorni, con l’altrettanto interessante panorama dalla campagna romana, così come delle tante aree boschive, anch’esse ricche di scorci suggestivi. Ed è quest’ultimo riferimento alla campagna romana che, in particolare, mi ha indotto ad immaginare un possibile collegamento con le fotografie di questo autore. Del resto, trattandosi di un fenomeno culturale memorabile, parte di un mito ormai radicato nell’immaginario collettivo, non credo sorprenda che possa aver lasciato delle risonanze – per quanto latenti e/o inconsce esse siano – anche  in  Pietro D’Agostino. Per tale ragione, ho  immaginato  che  anche  lui – come, magari inconsapevolmente, accade in tanti altri casi nel DNA culturale nostrano – potrebbe essere stato “contaminato” dagli echi di questa leggendaria fase storica, divenendone un altro “portatore sano”, perlomeno sino all’inizio di questo suo viaggio. Un altro piccolo esempio di contaminazione del nostro quotidiano con quel periodo mitico, può forse essere la (poco nota) consuetudine di quei ricchi “viandanti” di attraversare l’Italia misurando, già allora, il trascorrere del tempo con il c.d. orologio alla francese (o ultramontano), tuttora in uso e basato su cicli orari di dodici ore, anziché ventiquattro, che gradualmente soppiantò la preesistente ora italica. Questo epico esercito di turisti di lusso, fu comunque nel tempo integrato da tante altre comparse, tra le quali, ovviamente, diversi fotografi, taluni dei quali divenuti anch’essi poi celebri, alcuni anche nell’immediato.

La raccolta di Pietro D’Agostino è stata per me anche l’occasione per ricordare come la fotografia si sia progressivamente radicata nell’immaginario collettivo come una sorta di meravigliosa “arte facile”. Sin dagli albori e non soltanto per i pochi che inizialmente potevano permettersi di praticarla – a causa di costi, ingombri, logistica, etc. – e grazie anche all’alone esotico che ha avvolto di fascino i memorabili luoghi e i viaggi del Grand Tour. Una fama tuttora viva che, in breve già all’epoca, divenne praticamente planetaria, perché fondata anche sull’infelice idea di considerare la fotografia come una banale arte “meccanica”, dunque sostanzialmente “stupida” e – allora come ora – alla portata di chiunque. L’incessante evoluzione e la progressiva semplificazione tecnologica del medium contribuirono non poco, nel tempo, ad alimentare ulteriormente il mito del Tour e insieme, in una sorta di relazione simbiotica, quello del mezzo fotografico stesso. L’arrivo della dagherrotipia e della calotipia, ad esempio, sostituirono progressivamente gli strumenti e le tecniche precedentemente usati per integrare il diario di viaggio di “riproduzioni della realtà” realizzate da tanti di quei viaggiatori, come nel caso dei disegni fatti a mano anche da un altro mitico personaggio del tempo, William Henry Fox Talbot, uno dei padri ufficiali della fotografia. Lo studioso britannico infatti, durante il suo illuminante soggiorno sul Lago di Como, proprio usando una camera lucida per disegnare a mano, concepì l’idea che tempo dopo gli avrebbe finalmente permesso di “catturare” la realtà. Ispirazione che, una volta rientrato in patria, lo portò, dal 1834, a sperimentare i materiali e le tecniche con i quali realizzò poi gli ormai epici photogenic drawing, tra i quali quelli pubblicati nella storica raccolta intitolata The Pencil of Nature, edita tra il 1844 e il 1846.

E, pensando ad una possibile applicazione anche alle immagini di Pietro D’Agostino, ricordo che non passerà poi molto tempo e ad accrescere ulteriormente la fascinazione del Grand Tour arriverà finanche la stereoscopia (da stereos, solido, a tre dimensioni), l’ormai celebre tecnica fotografica, antesignana del 3D, che trasmette un’impressione di tridimensionalità, analoga a quella generata dalla visione binoculare del sistema visivo umano (non proprio una novità dei nostri giorni, aggiungo, come testimonia anche il testo The Stereoscope, pubblicato nel 1856 da David Brewster e riedito nel 2006 dall’Archivio Stereoscopico Italiano).

Alcune delle fotografie di Pietro D’Agostino mi hanno inoltre fatto tornare in mente la mostra personale di Simone Bacci, intitolata Sotto, proposta nel 1998, primo anno di attività dello Spazio FINE (Fotografia e Incontri con le Nuove Espressioni) con sede nei Docks Dora di Torino, e curata da Claudio (Fortunato) Isgrò, tuttora presidente dell’omonima Associazione culturale. Nel testo che accompagnava la mostra, intitolato Sette sedie in cerca di un osservatore in relazione all’analogo allestimento della mostra, il curatore – rinviando alle immagini minimaliste dell’autore allora in mostra: delle semplici e spoglie aree erbose nella stagione invernale, praticamente senza orizzonti – rievocava una piccola storia Zen. La vicenda racconta di un allievo che, scoraggiato da diversi inutili tentativi, confessa avvilito al suo maestro di non “vedere” niente altro oltre il paesaggio che gli era stato proposto di osservare. Viene, quindi, rimandato più volte dal maestro a meditare nuovamente di fronte allo stesso panorama, senza alcuna indicazione e/o spiegazione aggiuntiva, sino a quando inizia finalmente a “vedere” e “sentire” in quei luoghi una dimensione altra, andando oltre le apparenze visibili. Similmente all’ipotetico allievo della storiella Zen, prima, e di Simone Bacci presso lo Spazio FINE, dopo, anche Pietro D’Agostino ha avviato dapprima “inerme” la propria ricerca estetica ed interiore, essendo anche lui equipaggiato solo dei propri sensi. Un cammino apparentemente unico – e comunque differente per ciascuno dei due autori – unito semmai dalla consapevolezza comune, probabilmente già condivisa anche dai mitici viaggiatori del Grand Tour, che più che la destinazione è proprio il cammino percorso l’aspetto più interessante e rilevante dell’esperienza vissuta.

In questa prospettiva, le immagini di Pietro D’Agostino sembrano dunque documentare la ricerca di un intangibile filo in grado di collegarlo a una dimensione differente, capace di trascendere quella di primo grado, ponendo magari le basi per una nuova avventura percettiva, affettiva ed, eventualmente, anche meditativa. Un’esplorazione che l’autore, durante le sue prime brevi escursioni, ha avviato, oltre che a “mani nude”, come ho accennato, anche senza una vera e propria meta fisica predeterminata. Aveva tuttavia in mente un primo intento, ovvero: tentare innanzitutto di conoscere meglio quei luoghi, per poi magari “­­oltrepassarli”, addentrandosi non solo fisicamente in essi. Ed esplorandoli anche in una diversa prospettiva ha, fra l’altro, constatato che quegli spazi erano a lui tanto prossimi, quanto ancora poco noti. Un interesse, dicevo, perseguito inizialmente senza nessun equipaggiamento, praticamente “disarmato”, senza quindi la possibilità materiale di poter fissare qualche traccia di questi suoi primi percorsi mediante l’utilizzo di una fotocamera. Successivamente, quando ha iniziato a fotografare, ha via via incluso altri percorsi oltre a quelli romani, aggiungendovene di montani e litoranei, fotografando non di rado anche delle zone di sottobosco, tra le quali, alcune apparentemente inaccessibili. Ed è proprio su queste ultime e più emblematiche fotografie che vorrei brevemente soffermarmi prima di proseguire. In particolare, perché mi ha colpito una certa “insistenza” narrativa dell’autore nel proporre diverse fotografie nelle quali sono raffigurati veri e propri grovigli vegetali. Quasi una sorta di ostinazione la sua, certamente non casuale, perché quegli insiemi indistinti lo hanno particolarmente colpito. Tempo addietro, me ne parlava infatti in questi termini:

“Qui la natura ha un aspetto selvaggio e ha ripreso con vigore la sua, se pur piccola, avanzata nel territorio in maniera caotica e con minimi interventi umani.”

Aggiungo che la visione, in diverse immagini, dell’incessante e informe sviluppo della vegetazione mi ha anche provocato un piccolo shock, non solo visivo. Il potere simbolico ed evocativo di queste fotografie, infatti, mi ha richiamato alla mente un altro ben noto intreccio di emozioni, affetti ed eventi che ci riguarda tutti molto da vicino, ovvero: la vita. Un impercettibile turbamento, accennavo, che, almeno per quel che mi riguarda, ruota intorno all’idea di un’apparente difficoltà/impedimento alla visione/passaggio di chiunque tentasse di esplorare/attraversare appieno questi intrichi, anche solo con lo sguardo, connotando il luogo come un ambiente ostile e, per certi versi, a tratti anche selvaggio e ingovernabile, proprio come talvolta ci appare l’esistenza. Una similitudine, dunque, in quel dilatarsi apparentemente disorganico e squilibrato del verde, nel quale pare primeggiare soltanto il disequilibrio e il caos. Non sempre e non del tutto, perché, in altre immagini affini, a questa visione così estrema mi è sembrato talora possibile associarne un’altra più sfumata, meno radicale. Pensando, quindi, ai (s)oggetti di queste altre fotografie – raffiguranti una vegetazione meno occlusiva – piuttosto che ad uno scenario ineluttabile ed estremo, mi è sembrato infatti possibile associare la natura che vi è ritratta all’idea di una serie di temporanei (per quanto precari) equilibri, che si susseguono senza soluzione di continuità, con l’obiettivo di quel verde di crescere, di moltiplicarsi; detto altrimenti, di durare. In un ulteriore immaginario collegamento, ho inoltre associato la flora raffigurata in queste immagini al brusio crescente e policromo di suoni – solo all’apparenza inizialmente disorganizzati – prodotti da un ensemble di orchestrali che prova ad intonare gli strumenti, in vista dell’avvio di un concerto, il cui esito non è comunque mai sempre scontato. L’orchestra, dunque, così come la natura/vita, dopo l’apparente confusione iniziale riprende il suo corso, tentando di raggiungere nuove mete, nuovi equilibri, magari anch’essi instabili e precari, che potrebbero poi essere sovrapposti/sostituiti con/da altri eventi similari e via così, praticamente … all’infinito. Così come è anche l’esistenza di un qualsiasi essere vivente, sia esso appartenente al regno animale o vegetale, fino alla “vita” delle materie inorganiche che, sebbene con un diverso e talora anche lentissimo ciclo, comunque costantemente si trasforma, evolvendo (o involvendo), ad un certo punto,  in qualcos’altro.

Anche il percorso dell’autore durante la sua ricerca ha registrato un mutamento, evolvendo, nel corso del tempo, verso una dimensione sensoriale ulteriore, più marcatamente multisensoriale: divenendo, da un’iniziale indagine prevalentemente visiva, una ricerca anche … sonora! Un’integrazione sensoriale che poggia su piccole fenomenologie percettive, come nel caso di impressioni, suggestioni, vissute avvertendo un semplice fruscio, un qualsiasi piccolo suono distante. Un’esperienza che mi ha descritto così:

“Nel tempo ho notato che in queste passeggiate solitarie (non solo nei parchi a Roma, ma in montagna, in campagna, nei boschi, al mare, etc.) il mio percorso si sviluppava prevalentemente seguendo dei suoni invece dell’itinerario “visivo” che più o meno mi ero proposto di fare. E molte volte mi sono trovato a fotografare nella direzione di provenienza del suono, suggestionato e affascinato da fruscii, rumori o suoni lontani. Ecco allora il titolo: Vedo un suono accanto a me.”

E questo riferimento agli echi, all’attenzione tesa a percepire queste piccole emergenze sonore mi ha fatto anche risuonare nella memoria un personaggio particolare nato dalla fervida ed originale immaginazione narrativa di Ermanno Cavazzoni, di cui riaccennerò a breve, non di rado “imbrigliato”, durante le sue singolari esplorazioni, in minute suggestioni acustiche, a partire dal fascino anche di semplici fruscii. È solo un riferimento vago, lo preciso, che, immaginando il momento che ha preceduto la realizzazione delle sue fotografie, mi sembra possa avere qualche possibile consonanza anche con le riprese di Pietro D’Agostino. Del resto, ogni suono si caratterizza, come l’autore ben sa essendo anche musicista, in una sensazione uditiva e/o in una vibrazione prodotta da un mezzo di trasporto qualsiasi: aria, molto spesso, ma anche tante altre svariate fonti. Semplice aria in movimento, dunque, che, vibrando, crea sensazioni, emozioni e, in definitiva, produce … senso. E tale probabilmente è stato anche per l’autore lo scenario percettivo/simbolico di suoni/segni tangibili e non riguardante possibili echi che gli sono potuti giungere mentre osservava e/o “ascoltava” un bosco, ovvero le sue piante, i suoi cespugli, il suo fogliame e/o l’erba secca. I suoni sono quindi oscillazioni che viaggiano attraverso canali/vettori disparati. In relazione alla loro specifica frequenza o intensità, in tanti casi non hanno un destinatario/ricevente della nostra specie, perché ce ne sono di impercettibili e/o non decodificabili dall’orecchio umano. Si pensi, ad esempio, ai segnali sonori (e non) prodotti dai pipistrelli, che li usano per “vedere”, orientarsi, comunicare e/o predare nel loro campo d’azione o le specie marine che li usano anch’esse tanto per funzioni sociali quanto per individuare possibili prede. La natura, in effetti, è un universo ricco di suoni (atmosfera, suolo, sottosuolo, acqua), un’immensa composizione sonora, fluida e in continua evoluzione; diversamente dallo spazio, habitat privo invece di suoni. Ma, al di là delle loro specificità, i suoni sono tra i principali vettori di significato della specie umana.

Come ho accennato precedentemente, osservando queste immagini, mi sono trovato a riflettere anche su una visione più di confine e, plausibilmente, maggiormente imparentata alla dimensione emotiva e clinica del peculiare personaggio principale del romanzo dello scrittore emiliano citato prima: Il poema dei lunatici, l’opera letteraria probabilmente più nota di Ermanno Cavazzoni. Il poema è stato reso celebre dalla trasposizione cinematografia di Federico Fellini nella sua ultima regia e, per tanti, nel suo vero e proprio testamento spirituale: La voce della luna, interpretato, tra gli altri, da un estatico Roberto Benigni, nel ruolo di “Ivo Salvini”, e da un altrettanto ispirato Paolo Villaggio, nelle vesti del “Prefetto Gonnella”. Più nello specifico, anche per ragioni personali, le fotografie di Pietro D’Agostino, oltre alle gesta del protagonista e alla sua patologica decodifica sonora, mi hanno inoltre rievocato l’impegno narrativo/divulgativo del neurologo, chimico e scrittore inglese Oliver Wolf Sacks, in particolare del suo celeberrimo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Nel testo, il quotidiano dei pazienti protagonisti dei vari episodi che compongono l’opera risulta sovente caratterizzato da una miscellanea di esperienze divisa tra le loro percezioni visivo/sonore e i diversi viaggi, anche conseguenti, riportati nel libro. In particolare, riguardo a quest’ultimo fenomeno, ricordo che Sacks precisava che le cause/basi erano da ricercarsi negli esiti delle stimolazioni organiche/non organiche sui lobi temporali – i nostri lobi “musicali” – e la parte reminescente del cervello. Secondo il medico anglosassone, la scintilla fenomenologica dei trasporti descritti nel suo testo può quindi essere sia di natura patologica sia di natura intellettuale/spirituale.

A proposito di questi ultimi tipi di trasporto (non patologici), immagino che possano essere tanti gli autori/artisti che nel corso della storia dell’Umanità abbiano eventualmente potuto avvalersi dell’“aiuto” di analoghi stimoli di natura psicologica/trascendente, per favorire, almeno in parte, l’innesco e/o lo sviluppo di creazioni autoriali/artistiche; e, chissà, se qualcosa di simile può magari aver avuto un suo eventuale ruolo (piccolo/grande?) anche nella fase di realizzazione di Vedo un suono accanto a me.

Riaccennando al libro di Sacks, l’autore chiariva che, nel caso specifico di cause organiche (patologiche), i soggetti interessati presentano una clinica segnata dalla rilevazione di particolari “onde a fronte rapido”, quale base invariabile della reminescenza dei protagonisti e delle “allucinazioni esperienziali” o “sogni epilettici” degli stessi. Secondo l’analisi clinica del ricercatore inglese, non si tratta mai di fantasie, bensì, e praticamente sempre, di ricordi molto precisi e vividi molto vicini alle esperienze originarie, sebbene la varietà e la dimensione “assurda” di tali reminescenze le renda, in pratica, senza senso e casuali. La possibile causa organica, aggiungeva, può essere l’esito sia di una stimolazione elettrica locale sia di attacchi spontanei dovuti a un ictus ischemico o emorragico (dal latino “colpo”, piccola trombosi o infarto locale). Il testo dello studioso britannico illustra, inoltre, una patologia dalla definizione (di fatto) paradossale, ossia: l’“epilessia musicale”. Una definizione che, andando più nel dettaglio, gli appariva come una contraddizione in termini, allorché si contrapponga la dimensione musicale – intesa come emozione/sentimento selettivo, dal significato spesso intenso e profondo – all’epilessia nella sua manifestazione fisiologica puramente casuale, del tutto non selettiva – senza né sentimento né significato. Una patologia con manifestazioni, non di rado, sino ai limiti del parossismo – frequentemente preceduta da uno stato mentale di vaghezza ma, al tempo stesso, particolarmente elaborato: la c.d. “aura mentale” o “allucinazione esperienziale”, una sorta di “raddoppio della coscienza”; uno stato di coscienza quasi parassitario o un miscuglio tra uno stato di sogno e dei residui di coscienza normale.

Nonostante questi riferimenti sulle severe derive di alcune patologie neurologiche e psichiatriche, Sacks ricordava inoltre, ed è questo un aspetto che mi interessa particolarmente evidenziare ripensando alle intense fotografie di questo autore, che l’immaginazione – alla quale, da sempre, anche Pietro D’Agostino, al pari di qualunque altro creativo, credo attinga tanto quanto gli è possibile – così come la memoria, hanno il potere e la capacità di “condurci” in luoghi e dimensioni differenti, talora anche trascendenti Un altrove – che, non di rado, esploriamo (volentieri e magari di proposito) senza alcuna “bussola” – che nasce e vive nel sorprendente ed infinito tessuto emozionale incessantemente ordito da quel “telaio incantato” comunemente noto con il nome di cervello.

Accennavo prima che anche a livello fisiologico e percettivo – dimensione credo ben nota all’autore, che, tra l’altro, “partecipa e collabora a varie iniziative performative con musicisti e poeti di area sperimentale e di ricerca” – i suoni sono un’importante forma di comunicazione tra le altre. Sono, quindi, dei veri e propri universi di senso, peculiari anche riguardo alle relazioni tra la loro “forma” e il combinato e coincidente contenuto, sebbene talora non coesistente. Si pensi, ad esempio, alla musica e alla miriade di sfumature in cui essa può essere percepita e interpretata: dagli esordi, all’alba dell’Umanità, alle singolarità talvolta apparentemente estreme della musica contemporanea e/o d’avanguardia, “colta” o meno che sia. Il viaggio estetico ed emotivo di Pietro D’Agostino, a proposito dei tanti differenti caratteri della musica, mi ricorda anche alle riflessioni del celebre direttore d’orchestra Leonard Bernstein. Sensibile all’argomento, nel suo libro La gioia della musica ne evidenziò, in particolare, quattro dimensioni interpretative e/o tecniche, ovvero: “narrativo-letteraria”, “affettiva-emotiva”, “atmosferico-pittorica” e, non ultima, quella più prettamente “musicale”. Più nel dettaglio, Bernstein precisò che l’ultima, quella “musicale”, è differente da tutte le altre in quanto non caratterizzata da una dimensione soggettivo-interpretativa. Ne potrebbe derivare, aggiungo, che quest’ultima rappresenterebbe, quindi, una dimensione più marcatamente oggettiva/tecnica e, pertanto, (solo) apparentemente più distante ed autonoma rispetto alle convinzioni filosofiche, religiose e, in termini più ampi, delle relazioni sociali e culturali contingenti. Detto in altro modo, riassumerebbe meglio una dimensione prettamente denotativa (letterale), se confrontata con quella prevalentemente connotativa (metaforica) delle altre.

Ma, astraendomi per un attimo e tentando una sorta di breve metadiscorso, anche queste ulteriori possibili riflessioni, così come le opere di questo autore, sono, in definitiva, delle idee o, detto in altri termini, delle metafore: rappresentando infatti qualcosa, di norma in forma astratta, per rinviare comunque a qualcos’altro. E, in quanto tali, non sono anch’esse in fondo delle immagini? Immateriali e intellettuali, se non altro nella fase creativa, ma, in ogni caso, a queste in vario modo riconducibili.

La metafora, infatti, è notoriamente, una figura retorica prodotta da un processo psicolinguistico mediante il quale, attraverso l’associazione di due diverse realtà/dimensioni connesse da un elemento percepito come equivalente, si mette in atto la sostituzione della definizione dell’una con quella di un’altra. Tecnicamente, come anche il processo creativo di questo autore sembra dimostrare, si concretizza in un processo di trasferimento simbolico di una o più immagini; un parallelismo in sintesi, all’interno del quale la relazione tra due soggetti o concetti è fissato in maniera diretta, ossia senza un ‘come’ in funzione di mediatore tra le due idee/dimensioni. La forza e l’efficacia della metafora è correlata anche alla “distanza” concettuale tra i microcosmi semantici interessati e può variare in relazione a fattori storici, sociali, linguistici, e più in generale, culturali, divenendo essa stessa medium attraverso il quale, a partire dal singolo individuo, si veicola cultura, sia consolidando ulteriormente il patrimonio preesistente sia, fornendo nuove prospettive interpretative, facendolo evolvere ulteriormente.

Nel caso di Vedo un suono accanto a me la metafora che immagino possa adattarsi meglio alla ricerca visivo/sonora di questo autore possa essere la sinestesia. È un particolare tipo di metafora nella quale si fondono, in una stretta interrelazione e a vari livelli, due termini – l’ascolto e la visione, per esempio, nel caso di Pietro D’Agostino – che rinviano ed evocano sfere sensoriali diverse. Un’espressione che immagino rappresentativa, ripensando, in particolare, alla dimensione emotiva di questa raccolta di fotografie, potrebbe forse essere: visioni sonore. Così, almeno per me, suppongo sia possibile connettere e riassumere gli intensi e, a tratti, trascendenti chiari suoni raffigurati in queste metaforiche immagini che, come tali, rinviano – “parlandone” –  anche al microcosmo sentimentale e culturale del loro autore.

Una poesia visiva la sua, infine, che mi richiama alla mente anche un frammento di Nostalgia, terza traccia dell’album Brilliant Trees (1984), la prima pubblicazione da solista del cantante David Sylvian dopo lo scioglimento dei Japan, lo storico gruppo di provenienza, con le sue influenze jazz, funk e ambient. In quel brano ho letto dei versi che, immagino, possano avere delle consonanze anche le profonde fotografie di Pietro D’Agostino:

Voices heard in fields of green

Their joy, their calm and luxury

Are lost within the wanderings of my mind …

Roma, 1° maggio 2017

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Pietro D’Agostino. Vedo un suono accanto a me. Sinestesiaultima modifica: 2017-09-22T22:42:58+02:00da gerardo.regnani
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