Fotografia, comunicazione, media e società

CORPO E FOTOFRAFIA – C. Savina. Un corpo aleatorio. Sguardi nella “casa di vetro” della Fotografia

Corpo e Fotografia

C. Savina. Un corpo aleatorio

Sguardi sul corpo nella “casa di vetro” della Fotografia

La differenza tra l’uomo e l’animale non è nella presenza o nell’assenza dell’anima, né nella diversa modalità di conservarsi, ma nella differente dialettica tra il corpo e l’ambiente. L’animale si adatta all’ambiente naturale, l’uomo vi si rapporta per trascenderlo.” U. Galimberti

C. Savina, da Corpo scolpito, s.d.

Il corpo e, attraverso di esso, le modalità per provare a interpretare il mondo – e, se possibile, anche tentare di trascenderlo attraverso la Fotografia – sono da tempo oggetto di riflessione e d’indagine da parte di questo autore. Per farlo ha scelto un (s)oggetto complesso e trasversale, attraverso il quale da sempre l’essere umano “dialoga” incessantemente e a più livelli con il mondo. Questo testo, sulla base di alcune suggestioni emerse dalle diverse raccolte di immagini sul tema realizzate dall’autore, prova a descriverne la molteplicità di espressioni, seppure per accenni sommari e senza alcuna pretesa di organicità, soffermandosi su talune possibili connessioni tra il suo sguardo sul corpo e quello del mondo.

Il corpo è lo “strumento” naturale più antico a disposizione dell’essere umano.

Ma, prima ancora che uno strumento, sin dai primordi, nel corpo ha “preso forma” il più datato oggetto/mezzo tecnico non artificiale dell’Umanità. Prima delle più arcaiche e rudimentali tecniche strumentali artificiali, ci sono dunque state le tecniche naturali del corpo.

Corpo che, secondo E. Durkheim, va innanzitutto distinto in una componente fisica (indagata dalla Medicina) e in una socializzata (studiata dalle Scienze sociali).

Entrambi con il relativo patrimonio di specificità, di valori, di norme, etc.

Attraverso questa ambivalenza e la relativa e articolata dialettica, da sempre, il corpo “dialoga” con il mondo.

E, come riportato nella citazione introduttiva di U. Galimberti, a differenza degli animali che interagiscono con il mondo, seguendo l’istinto di sopravvivenza, fondamentalmente per i loro scopi contingenti, il nostro corpo lo fa anche per preparare uno nuovo, del tutto o almeno in parte differente dal mondo preesistente. E, per quanto possibile, trascendendolo, anche solo parzialmente. Un mondo diverso e non soltanto perché adattato alle sue esigenze, reso meno ostile e inospitale. Un corpo che non esiste semplicemente nel mondo, ma, già solo con la sua presenza, contribuisce a modificarlo o, quanto meno, a interpretarlo e ridefinirlo. Per tale ragione, ogni atto del corpo è sempre un atto creativo, che genera ed è generato esso stesso da idee, riferimenti, opere, che, prima, erano magari diverse o, forse, persino inesistenti.

Non un corpo inteso come semplice oggetto del mondo, dunque, ma un medium che ci permette di agire nel/sul mondo stesso.

C. Savina, da Presenze-assenze, s.d.

Un’azione attuata non soltanto dal singolo corpo fisico, ma da un “noi”, ovvero da un’entità corporea, materiale e una immateriale, culturale e complessa che, nelle diverse circostanze nel corso delle quali si manifesta, si esprime di volta in volta anche attraverso una specifica “forma” che veicola anche il senso del proprio vissuto. Un condensato che, di caso in caso e in misure anche variabili nel tempo e nello spazio, miscela e restituisce, oltre alla storia del singolo, anche il prodotto delle sue interrelazioni, delle interdipendenze sociali, siano esse già in essere da tempo o soltanto ad uno stadio iniziale.

Il corpo è, quindi, attraversato da sempre da correnti sociali, ragion per cui la sua “gestione” non è mai, esclusivamente, una questione individuale, bensì sempre e comunque sociale.

C. Savina. da Il mare oltre me, s.d.

Tra le diverse modalità di azione del corpo sul mondo, un punto di partenza e di riferimento è certamente quello relativo alla dimensione materiale, biologica, del corpo stesso. Una “realtà” articolata, caratterizzata da tutta una serie di volumi, di masse e, non ultimi, di apparati. Un insieme complesso, dunque, che viene di norma indagato, in particolare, dalla Medicina, con l’ausilio di tutta una serie di appositi strumenti, destinati ad accertarne peso, volume, etc., certificandone lo stato di salute di alcune distinte componenti o quello generale. Dimensioni articolate e complesse, quelle di questo sistema eterogeneo, che l’autore, a suo modo, ha indagato a lungo e da diverse – e, talora, apparentemente anche distanti e antitetiche – angolazioni prospettiche.

Un corpo “poliedrico” indagato a partire dall’organismo che ne costituisce, l’impianto fisico. Ma non è il solo corpo fisico quello al quale fa riferimento e che ha a lungo indagato l’autore. Non è, in altri termini, la sola componente macchina il suo oggetto di interesse esclusivo.

Tutt’altro!

C. Savina, da Il corpo tra luce e materia, s.d.

In realtà, il suo è stato un percorso di ricerca che, pur avendo inevitabilmente indagato anche il corpo fisico, “attraversandone”, talora soltanto incidentalmente, la relativa componente materica, è diretto anche altrove. Una dimensione altra che, nell’ambito di un suo percorso di analisi a più livelli, ancora in divenire, confonde e mescola deliberatamente in sé sia il punto di arrivo sia quello di partenza.

Un corpo immaginato – come in una sorta di esercizio spirituale – anche come una specie di arcana porta “sensibile” e… attraversabile.

  C. Savina, da Corpi mescolanza, s.d.

Un punto di accesso e di transito che, al pari di una sorta di pellicola fotografica, è anche in grado di registrare e di “riflettere” tanto quanto è collocato a valle dello sguardo protagonista tanto quello che è posto a monte dello stesso. Un varco “trasparente” e, insieme, “riflettente”, come una specie di misterioso strumento magico fornito in dotazione da un altrettanto imperscrutabile “mandante”. Un osservatorio privilegiato, dunque, che, attraverso la differente visione offerta da quel punto di fuga rappresentato da quel varco – sia verso il proprio “interno” sia verso l’“esterno” – ha permesso all’autore di indirizzare il suo sguardo in più direzioni e dimensioni, non solo fisiche: verso gli altri e verso il mondo, così come verso sé stesso e il suo… universo interiore.

C. Savina, da Corpo scolpito, s.d.

Dimensioni talora apparentemente anche molto distanti, per quanto complementari e interrelate. Un mondo terzo rispetto all’autore e, insieme, uno personale, interiore, entrambi riflessi e interconnessi nei suoi lavori. Una ricerca che condivide con il mondo anche il sé ipotetico – a partire da quello dello stesso autore – del protagonista di volta in volta raffigurato nelle sue fotografie.

Segni e tracce, dunque, di un corpo in perenne oscillazione espressiva tra la sua componente più prettamente naturale, verosimilmente quella prevalente nelle società più arcaiche, e quella di tipo culturale, apparentemente più evidente in quelle più moderne e più vicine ai nostri giorni.

Una dualità, quella del corpo in perpetuo equilibrio tra natura e cultura, avvertita e, da ciascuno a modo proprio, da sempre indagata.

Nessuno escluso.

Una duplicità del corpo attraverso la quale, esprimendo anche la propria specificità, ogni essere umano può interagire con il mondo e farsene un’idea propria. L’essere umano si scopre, in tal modo e non solo attraverso il proprio corpo, inevitabilmente immerso e interrelato proprio con quel mondo che indaga ed esplora. Un mondo nel quale anche il proprio è un corpo tra i corpi. Un corpo immerso in una rete di senso che, suo malgrado, contribuisce comunque incessantemente anche a costruire e/o modificare. Una giungla di segni con i quali, a seconda dei casi nel corso del tempo, il corpo è stato rivestito ed offerto allo sguardo del mondo in una molteplicità di espressioni e di status, quali: organismo, psiche, medium, mito, etc.

Una pluralità di dimensioni e di condizioni che può essere ricomposta e riassunta nella storica contrapposizione tra l’anima e il corpo.

Un dualismo che anima da sempre un confronto dialogico universale tuttora in corso e intorno al quale, a suo modo, ha riflettuto a lungo anche l’autore.

Anima e corpo che, nel corso di un suo recente intervento, hanno ispirato a Papa Francesco questa riflessione:

 

“Lo strato biologico della nostra esistenza, che si esprime attraverso la nostra corporeità, costituisce la dimensione più immediata, ma non per questo la più facile da comprendere. Non siamo spiriti puri; per ognuno di noi, tutto inizia con il nostro corpo, ma non solo: dal concepimento alla morte noi non semplicemente abbiamo un corpo, ma siamo un corpo.”

 

La storia della ricerca medica, secondo il Pontefice, offre anche una panoramica sul viaggio dell’essere umano alla scoperta del corpo e, non ultimo, di sé stesso. E, insieme, una visione d’insieme sul percorso compiuto sino ad ora dalla Medicina. Non esclusivamente da quella accademica, ossia quella di matrice c.d. “occidentale”, ma dalla pluralità delle varie forme di medicina emerse nel tempo e nelle diverse aree del mondo. Un patrimonio sempre più condiviso di conoscenze e interazioni, che, in passato, sarebbe stato difficilmente immaginabile. Una Medicina che il Papa ha, tra l’altro, metaforicamente descritto come un ponte tra le scienze naturali e quelle umane. Papa Francesco ha infine anche rievocato l’altrettanto importante dimensione della mente, strategico ed imprescindibile “strumento” di indagine e comprensione. In merito, ha aggiunto:

 

“Attualmente, si tende spesso a identificare tale costitutivo essenziale con il cervello e i suoi processi neurologici. Tuttavia, pur sottolineando la rilevanza vitale della componente biologica e funzionale del cervello, essa non è, però, l’elemento in grado di spiegare tutti i fenomeni che ci definiscono come umani, molti dei quali non sono “misurabili” e, dunque, vanno oltre la materialità corporea. Infatti, l’essere umano non può possedere una mente senza materia cerebrale; ma, nello stesso tempo, la sua mente non può essere ridotta alla mera materialità del suo encefalo. È un’equazione da seguire, questa.”

 

E senza in ogni caso dimenticare l’anima, ha poi concluso:

 

“Anche se, nel corso del tempo, questo termine ha assunto diverse accezioni nelle varie culture e religioni, l’idea che abbiamo ereditato dalla filosofia classica assegna all’anima il ruolo di principio costitutivo che organizza tutto il corpo e dal quale originano le qualità intellettive, affettive e volitive, compresa la coscienza morale. Infatti, la Bibbia e, soprattutto, la riflessione filosofico-teologica con il concetto di “anima” definivano l’unicità umana, la specificità della persona irriducibile a qualsiasi altra forma di essere vivente, inclusa la sua apertura verso una dimensione soprannaturale e, quindi, a Dio. Questa apertura al trascendente, a qualcosa di più grande di sé, è costitutiva e testimonia il valore infinito di ogni persona umana. Possiamo dire, in linguaggio comune, che è come la finestra, che guarda e porta verso un orizzonte.”

 

L’anima immaginata, ancora una volta con un’idea condivisa anche dall’autore, come una finestra, un varco da e per il mondo.

Tuttavia, secondo Platone, questo dualismo interdipendente tra l’anima e il corpo può però condizionare – talora anche inesorabilmente – il cammino verso la verità.

Nel Fedro, non a caso, Platone scriveva:

 

“sepolti in questa tomba, che chiamiamo corpo e che trasciniamo con noi, imprigionati in esso, come ostriche nel proprio guscio.”

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Quanto minore sarà questa dipendenza – una sorta di schiavitù che il filosofo ateniese immaginava come una vera e propria “follia” del corpo – tanto più ci si avvicinerà alla conoscenza. Una verità, finanche trascendente, che sarà possibile ottenere proprio liberando l’anima dal corpo.

E il corpo dalla “sua” stessa materialità.

Un corpo che, altrimenti, rischia di divenire una specie di “tomba dell’anima”.

Anima, che, secondo Aristotele, a suo modo convive sempre e comunque con il corpo, sebbene non sia anch’essa un corpo, pur restando, in ogni caso, qualcosa “del” corpo.

Un componente peculiare che, nella riflessione filosofica di Omero, ha riconsiderato il precedente dualismo anima/corpo nella dialettica tra un corpo vivente nel mondo e il relativo “cadavere”, ridotto a sola cosa del mondo.

Sarà poi con Cartesio, che si definirà ulteriormente la separazione tra il corpo e l’anima, “liberando” definitivamente quest’ultima dalla sfera di influenza del corpo materiale. E liberando l’anima dalla prigionia del corpo concreto, inteso quale semplice agente fisiologico, le si permette di essere pura espressione intellettuale. Husserl ha tuttavia suggerito di liberarsi anche dagli errori seducenti nati a partire dalle riflessioni di Cartesio. In questa prospettiva, ha consigliato, in alternativa, un ritorno all’immediatezza delle cose. Non la sola relazione anima/corpo, quindi, ma quella più ampia, universale: corpo/mondo. Un ritorno a ritroso – e sospendendo il giudizio – alle cose così come appaiono nel momento in cui appaiono.

Una distinzione, una relazione, quella tra l’anima e il corpo, che, come si è già accennato, continua anche ad alimentare il confronto dialogico tuttora in corso e tutt’altro che concluso. Resta comunque sempre aperto, inoltre, anche il problema di definire inequivocabilmente che cosa siano il corpo così come l’anima.

Una riflessione, quella sul dualismo anima/corpo, che, in relazione all’evoluzione tecnologica contemporanea, deve ulteriormente confrontarsi anche su altre, talvolta prima inimmaginabili, nuove dimensioni e prospettive, che alimentano ulteriormente anche il relativo dibattito etico e morale.

Temi delicatissimi che sembrano produrre dei riverberi anche nelle opere dell’autore.

C. Savina, da I limiti del corpo, s.d.

La pratica dei trapianti di organi, ad esempio, fa emergere nuovi e pressanti interrogativi a fronte dei quali si sta ulteriormente sviluppando la dialettica tra ambiti e discipline prima apparentemente molto distanti, come quello, ad esempio, tra la Filosofia e la Medicina. Si pensi, fra l’altro, alla discussione riguardante aspetti particolarmente delicati, quali quello concernente la c.d. morte cerebrale. E, collegato ad essa, a un’eventuale, conseguente valutazione riguardo a un possibile espianto di tessuti e/o di organi. “Doni” prelevati da un corpo ormai cadavere da reimpiantare poi in un altro ancora in vita. Un corpo magari in angosciosa attesa, perché affetto da una patologia severa, grave e/o dall’esito comunque irreversibile e fatale e, pertanto, condannato a divenire anch’egli un’altra salma senza quel “regalo” del suo (talora anche sconosciuto) donatore. Si pensi ancora, sempre in tema di espianti, agli ulteriori interrogativi etici e morali stimolati dal quel limbo temporaneo, da quel periodo di transizione – non solo fisiologico – determinato dal transito di quelle frazioni di corpo in viaggio tra i donatori originari e i futuri destinatari. Interrogativi sconfinati, legati, come sono, alle ancestrali relazioni tra la vita e la morte. Ma non solo, perché ci sono, correlate, anche altre dimensioni tangenti e/o addirittura secanti, a seconda dei casi, quei corpi sia donanti sia riceventi. Dimensioni altrettanto “sensibili”, sebbene possano apparire gerarchicamente in subordine rispetto al tema – “maggiore” e imprescindibile – del passaggio tra la vita e la morte. Per fare solo un ultimo esempio in merito, si pensi infine agli ulteriori interrogativi posti dalla identificazione certa dell’identità sia del donatore sia del destinatario del tessuto e/o dell’organo del corpo oggetto di espianto e, quindi, di donazione. Così come, non ultima, della verifica certa (e ormai irreversibile) dell’avvenuto decesso del potenziale donatore.

Momenti dolorosi, di transito, e anche di drammatica speranza e indeterminatezza.

Ed è proprio alla ricerca di maggiori certezze e di una più ampia consapevolezza sembrano appunto tendere, da sempre, anche i lavori di questo autore.

C. Savina, da Il corpo indefinito, s.d.

Opere attraverso le quali, come fa in fondo chiunque crei qualcosa non solo per sé, “dona” idealmente ad ogni ipotetico spettatore parte del suo “corpo”, tentando, in questo modo, anche di trascendere simbolicamente la sua fragile essenza.

E a questa consapevolezza della temporaneità e corruttibilità dell’esistenza questo autore oppone, tra l’altro, la sua personale ricerca sulla Bellezza. Una ricerca sul corpo, in particolare quella attraverso la fotografia di nudo che caratterizza tanta parte della sua produzione. Una nudità che, seppure con le sue specificità, sembra essere in parte ispirata, per quanto concerne la sfera poetica, da ascendenze di tipo naturalista, mentre, per quanto riguarda la dimensione estetica, da assonanze con un impianto formalista. In particolare, riguardo a quest’ultimo, si fa riferimento a una rappresentazione del corpo che tenta di trasformare in pura bellezza astratta le forme e/o le anatomie che ritrae. Una poetica della Bellezza e dell’armonia, contrapposta a quella di corpi nudi anomali, deformi e/o offesi, come si accennerà ulteriormente in seguito, dall’inclemenza di una mano umana – propria o altrui – piuttosto che da quella della biologia e/o del tempo. Un corpo nudo che, talora, può simbolicamente arrivare a rappresentare anche le perversioni dell’animo umano, le sue “miserie”, la sua marginalità etica e morale. Note d’ombra tuttora censurate – per lo meno all’apparenza, “in superficie” – dalla nostra infida società: a partire dalle difformità anatomiche alla rappresentazione della morte, dalla sessualità “malata” alla pornografia.

C. Savina, da La fine della pellicola, Vietato!, s.d.

Un corpo nudo, non di rado anche quello dell’autore, immaginato, quindi, come una sorta di cartina al tornasole usata per indagare tanto gli aspetti sociali quanto la rappresentazione dell’interiorità stessa della persona ritratta, l’intimità più profonda, inclusa quella dell’autore.

Una nudità del corpo divenuta, anche secondo lui, uno dei soggetti principali della cultura visiva occidentale.

Una cultura visiva che, attraverso la fotografia, ha raggiunto il suo climax espressivo e, insieme, l’acme della sua efficacia, il momento culminante della sua funzione.

Una vetta che, nella rappresentazione del corpo, continua tuttora a proporre lo storico e talora frusto confronto tra la Fotografia e la Pittura. Una relazione, quella tra le due forme espressive che potrebbe essere equiparata a quella tra il nudo e la nudità suggerita dallo storico dell’Arte K. Clark. In inglese, la sua lingua d’origine, esiste, infatti, una differenza tra i termini naked e nude. La loro trasposizione in italiano, in particolare per la parola nudo, è riconducibile alla condizione di un corpo materialmente spogliato degli abiti, opposto alla dimensione metaforica, ideale e iconografica di nudità. In questo scenario, la nascente pornografia avrebbe rappresentato una prima forma di autonomia della Fotografia dalla Pittura, con la creazione di una vera e propria dimensione, anche mercantile, di indipendenza della prima dalla “sorella maggiore”. Non la sola forma di autonomia, perché, per fare un altro esempio, la fotografia di nudo ha avuto modo di ricoprire un ruolo cruciale di supporto anche nei confronti delle scienze naturali, come ad esempio, lo furono i corpi fotografati dai primi cronofotografi. Anche di questa fase sperimentale sulla raffigurazione del moto è possibile ritrovare qualche vicinanza, per lo meno concettuale, nella produzione dell’autore.

Un corpo nudo in movimento, al tempo stesso, “incontestabile”, perché protetto dall’aura scientifica della riproducibilità tecnica di benjaminiana memoria. Una riproducibilità del “reale” della quale si servono tuttora a piene mani anche i pittori ai quali, peraltro, sin da allora è stata offerta la preziosa possibilità di riprodurre il corpo nei movimenti più disparati. Una varietà che nessun modello vivente avrebbe mai tecnicamente potuto offrirgli.

Il corpo nudo, sia maschile sia femminile, è divenuto quindi un sistema di segni da decodificare e analizzare, rimettendo tutto in discussione. Come, tra i tanti esempi possibili, l’ormai “vecchio” concetto di equivalenza del corpo nudo veicolato dalla religione, che, sostanzialmente, tenderebbe ad equiparare tutti gli esseri umani, opponendogli, di converso, una differenziazione scientifica fondata, invece, sulle evidenti diversità anatomiche di ciascun soggetto osservato. In simili scenari di contrapposizione non solo estetica ed ideologica, grazie alla “neutralità” assicurata dalla Fotografia, la nudità del corpo è divenuta, piuttosto, un elemento discriminante di indagine per valutare la rappresentazione esteriore di una malattia indagata. Un’evoluzione funzionale e culturale difficilmente immaginabile in precedenza, che, conseguentemente, ha messo in contrapposizione le raffigurazioni pittoriche idealizzate del corpo opposte al nudo e crudo della “obiettività” fotografica. Una Fotografia, che, alle allegorie del divino della Pittura, ha dunque opposto la “severità” scientifica di una nudità intesa come preludio di degenerazione e di morte. E, ancor prima della fine, come ci ricordano anche taluni lavori dell’autore, un corpo nudo corruttibile, che è l’emblema della fragilità umana.

C. Savina, da I limiti del corpo, s.d.

Una nudità dell’uomo che oggettivizza le derive patologiche del corpo. Un’ostensione ed esibizione del diverso inteso come attestazione di un’anomalia rispetto al consolidato stereotipo di “normalità”.

Un cliché di “normalità” anatomica che la Fotografia, suo malgrado, ha comunque contribuito a diffondere nella cultura occidentale moderna, ponendo le basi per l’identificazione del “diverso”, del freak, che si “discosta” da ciò che è considerato normale. Il corpo nudo è diventato, dunque, uno strumento di comparazione, di confronto, che attesta un’eventuale distinzione negativa, possibili scostamenti dai relativi parametri di idoneità e “normalità”.

Superata questa fase “scientifica” del medium, talune ulteriori suggestioni indotte dalle fotografie dell’autore, come accennato poc’anzi, richiamano alla mente i movimenti naturalisti e nudisti degli inizi del Novecento. Orientamenti culturali e non solo consolidatisi con la fine del Primo conflitto mondiale, un periodo storico nel corso del quale si è attenuato significativamente anche il gusto pittorialista che aveva segnato sino ad allora la storia della Fotografia, lasciando spazio ad un nuovo atteggiamento sociale teso a riappropriarsi delle libertà espressive ed individuali, come, ad esempio, il citato movimento naturalista, che ha promosso ed esaltato la nudità del corpo concepita come una condizione liberatoria, indipendente da eventuali stereotipi sociali quanto meramente erotici.  Il Naturalismo, il Nudismo, anche attraverso lo sguardo della Fotografia hanno immaginato il corpo, così come il mondo intesi nella loro massima purezza e naturalezza, anticipando anche l’orientamento realista e indipendente della Straight photography. Il Nudismo, in particolare, cercando una nuova connessione con la natura, ha tentato di recuperare sia il suaccennato concetto religioso di uguaglianza tra i corpi sia la “dignità” del corpo stesso assicurata dalla precedente classicità. Una classicità, non ultimo, baluardo difensivo contro la deriva emergente della pornografia, alimentata, come si è detto, anche dalla Fotografia.

C. Savina, da L’importanza del sesso, s.d.

Lo stesso gusto pittorialista ha subito poi un’evoluzione, ad esempio, in America dove si è affermata una sua versione più matura dedita alla semplificazione delle forme che cerca un distacco da quello originario, ovvero dalla precedente dimensione illusoria, proponendo una visione più naturalistica della “realtà” e del corpo, come nel caso dei fotografi che aderirono alla Photo secession.

Una fotografia che, analogamente ad una parte dei lavori di questo autore, ha teso ad escludere forme sistematiche di manipolazione e ritocco delle immagini realizzate. Una produzione d’autore più matura, dunque, che si è distinta per la purezza delle sue produzioni artistiche e che si è servita del corpo biologico umano, così come del corpo fisico del mondo e dei relativi profili “anatomici” per indagarne in modo oggettivo e diretto forma e volume della vita, riproducendola, poi, secondo una visione personale.

 

Le sperimentazioni di quel periodo, caratterizzate da uno sguardo sul mondo più “diretto”.

Uno sguardo tecnicamente perfetto, di maggiore sintesi delle linee e delle forme che sarà affiancato e seguito poi da ulteriori sperimentazioni sulle linee e sulle forme che connoteranno la successiva fase storica di quel formalismo del quale si è già sinteticamente detto, accennando brevemente ai riverberi che sembrano emergere, da più parti, anche nelle fotografie di questo autore.

Un pathos e una forza estetica unici, segnati dalle nitidezze assolute ed immani dei corpi immortalati nelle memorabili fotografie realizzate dagli autori che aderirono allo storico Gruppo f/64. Tra questi, solo per citarne alcuni: Ansel Adams, Edward Weston e Imogen Cunningham. Attraverso la loro visione netta e penetrante, contrapposta a quella pittorialista, il corpo nudo proposto dalla Fotografia, da allora, è diventato ancor più terreno di un’esplorazione irripetibile che ne ha esaltato le forme e la materia, le linee e le ombre. Il corpo “raccontato” è un corpo puro, assoluto, esclusivo ed indipendente da ogni ipotizzabile connessione circostante. Un corpo “ridotto”, in sostanza, a pura essenza.

C. Savina, P. Mazza, da Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo, s.d.

Ne nascerà un vero e proprio culto del corpo, una nuova estetica, che, in particolare a partire da allora, si è riflessa significativamente nelle produzioni – sia “alte” che “basse” – culturali successive, con riflessi anche molto distorti, presenti ora come allora nelle relative varianti contemporanee (su alcune delle quali si farà comunque ulteriormente cenno a seguire nel testo).

La nudità, come ha potuto sperimentare nel suo privato anche il nostro autore, è quindi divenuta anche uno strumento “piegato”, nel corso del tempo, anche a specifiche norme e valori morali e politici, oltre che estetici.

Come è stato, facendo un nuovo passo a ritroso, ad esempio, nell’ambito della Storia dell’Arte e ripensando alla forza d’urto del corpo nudo veicolata dalla Fotografia durante il periodo delle c.d. Avanguardie storiche e alle relative produzioni di movimenti artistici e culturali quali: il Cubismo, il Futurismo, il Dadaismo e il Surrealismo. Si pensi, quindi, a tutta quella sterminata serie di creazioni realizzate in quel periodo storico da una pluralità distinta di autori, ciascuno con le proprie specificità, in una comune prospettiva di ulteriore evoluzione e, insieme, di modernizzazione dell’Arte e della cultura del tempo. Una dialettica non sempre mite, alimentata dalla contrapposizione – talora anche molto accesa – verso un certo sviluppo dell’economia di mercato. Un periodo teso che interessò, per altri versi, finanche il “corpo” anch’esso mutante della Fotografia, che fu protagonista di una vera e propria contesa nell’ambito del Futurismo.

C. Savina, da Sculture viventi, s.d.

Più nello specifico, la contesa vide la contrapposizione e la contestazione anche formale della “sorella maggiore”, la Pittura Futurista, nei confronti del “Fotodinamismo” di A. G. Bragaglia (echi del quale sembrano anch’essi rintracciabili nel variegato “corpo” della produzione di questo autore).

C. Savina, da Sculture viventi, s.d.

Ma, al di là delle singole vicende di settore, si trattò, più in generale, di un percorso evolutivo dell’espressione artistica che mise in discussione i preesistenti e rigidi dogmi tradizionali preesistenti, rivoluzionando l’idea classica di Arte. Un’evoluzione che, agendo su più piani, rifletteva criticamente, ad esempio, sulla precedente e non più universalmente condivisa necessità delle particolari e superiori capacità manuali dell’esecutore. Così come teorizzò anche la possibile dissoluzione sia dell’idea tradizionale di opera d’arte sia la “scomparsa” dello stesso autore. Un’emblematica deriva concettuale paradigmaticamente riassunta nella totale rimodulazione estetica dell’opera rispetto a come prima essa era tradizionalmente intesa. Un caso particolarmente rappresentativo e, insieme, una sintesi storica di questo epico scontro culturale è stato – e rimane tuttora – quello condensato nei celebri ready made ideati da M. Duchamp, quali: la ruota di bicicletta, l’orinatoio, lo scolabottiglie, etc.

La Fotografia, nonostante la dialettica che la vide protagonista in quel periodo non fu sempre e del tutto “felice”, divenne, anche attraverso la raffigurazione del corpo nudo, un mezzo sempre più moderno e poliedrico in grado di creare anche apprezzate, durature e, non ultimo, nuove forme d’Arte.

Un’eredità culturale imprescindibile – si pensi, solo per fare qualche esempio, a Man Ray, a L. Moholy-Nagy, e, andando oltre quel periodo, ad A. Kertész, sino ad arrivare agli Anni Cinquanta e all’amato M. White – che sembra tuttora riecheggiare, a tratti, anche nelle fotografie, astratte e non, realizzate da questo autore multiforme.

Un corpo nudo, ma sempre meno “disarmato”, che, anche nel periodo successivo, diverrà sempre più spesso una sorta di “arma impropria”, uno strumento talora anche eversivo, per combattere contro i tabù preesistenti e, non ultimo, anche per affrontare scottanti questioni sociali e culturali del momento. Si pensi, in particolare, agli anni Sessanta e alla potenza dirompente del corpo, tanto spesso nudo, ormai universalmente veicolato dalla Fotografia. Una forma di riappropriazione del proprio corpo, sviluppatasi progressivamente a partire dal periodo delle Avanguardie, trasformatosi in uno strumento di contrasto alle diverse forme di censura dell’espressione allora ancora dilaganti.

Il corpo nudo, attraverso la Fotografia è via via sempre più diventato un “varco” strategico di accesso e transito verso il mondo. Un mondo che, attraverso questa “porta”, anche lo sguardo dell’autore esplora e valuta. E, così facendo, “dialoga” con il mondo e gli “descrive” il suo punto di vista e la sua poetica per mezzo dei suoi lavori. Un dare e avere che, in cambio, gli delinea nuovi e magari sconosciuti spazi di (auto)coscienza e conoscenza.

C. Savina, da Corpi – Schermata, s.d.

In quest’ottica, il corpo può essere considerato come un vero e proprio medium – una sorta di protesi del “corpo” più intimo dell’essere umano, lo definirebbe verosimilmente McLuhan – e, quindi, un mezzo progressivamente più “maturo” e consapevole del suo ruolo nel suo rapporto incessante con il mondo e, insieme, per qualsiasi autore, di essere divenuto uno strumento d’indagine, non ultima, anche della propria individualità.

E ripensando ancora a McLuhan, quando questa ricerca viene svolta attraverso la Fotografia, come nel caso di questo autore, non si fa propriamente riferimento a un medium qualsiasi, che magari vive anche in uno stato di parziale o persino totale isolamento rispetto ad altri media. Si tratta, all’opposto, di un medium che è perennemente interconnesso con la c.d. mediasfera teorizzata a partire dal 1992 da R. Debray. Un mezzo divenuto nel tempo anche un cruciale e intermedio strumento di comunicazione universale. Un mezzo di comunicazione di massa incessantemente coinvolto in un rapporto simbiotico e/o di continua interdipendenza con altri media. La Fotografia, inclusa quella che circola in rete, “dà corpo”, quindi, a uno strategico e trasversale medium tra i media per il quale risultano più che mai valide ed attuali le riflessioni di McLuhan riguardo all’interdipendenza tra i media, ovvero:

 

“Nessun medium esiste o ha significanza da solo, ma soltanto in un continuo rapporto con altri media […] In quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l’uno sull’altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro […] Non esistono ceteris paribus nel mondo dei media e della tecnologia. Ogni estensione o accelerazione produce immediatamente nuove configurazioni dell’intera situazione […] É’ quindi praticamente impossibile capire il medium della fotografia senza rendersi conto dei suoi rapporti con altri media vecchi e nuovi […] L’interdipendenza totale è il punto di partenza.”

 

Una interdipendenza della quale ha fatto concretamente esperienza anche questo autore, assistendo, nella fase conclusiva della esperienza professionale, alla storica transizione (progressiva e inarrestabile) del corpo tecnologico della Fotografia dalla dimensione analogica a quella digitale, con tutti i riflessi che la Storia, non solo quella di settore, ci sta ancora raccontando. Esiti evolutivi di un corpo tecnologico, quello classico della fotografia analogica, divenuta, quasi d’improvviso, praticamente un “fossile”, un reperto da museo.

Conseguentemente, sono cambiate anche le modalità narrative autoriali espresse sino ad allora attraverso il “corpo” della Fotografia.

Appartiene dunque alla storia tecnologica del medium – o alla sua preistoria, se si preferisce – anche tutta la sterminata produzione ante-digitale della quale si è accennato in precedenza. Quella stessa frazione temporale, si è già accennato, che sembra aver proiettato la sua ombra anche su un’ampia fetta della produzione di questo autore nella quale sembrano emergere connotazioni di matrice formalista.

Quel formalismo dedicato ai cennati studi di forme ben definite, “dure”, ricercate, di nudità del corpo che, a suo tempo, ha diffusamente caratterizzato i lavori dei fotografi modernisti.

 C. Savina, da Il punto essenziale, s.d.

Un impianto formale che ha raffigurato il corpo talora “spoglio” anche di qualsiasi elemento di personalizzazione, di qualsiasi connotazione ritenuta superflua, finanche della sua stessa connotazione antropomorfa. Un antropomorfismo posto, per quanto possibile, in secondo piano, se non persino dissimulato, occultato. Un occultamento deliberato, dando spazio, piuttosto, ai segni, alle linee e a un uso “insistito” del bianco e nero e del close up che divengono assi portanti dell’intreccio narrativo nudo, netto e, insieme, tendenzialmente astratto e decontestualizzato di quel Formalismo che ha segnato e segna ancora tanta Fotografia c.d. modernista.

In questa prospettiva, la Fotografia, mentre, per un verso, denuda il corpo ritratto, dall’altro lo “riveste” di forma. Un “dare forma”, talora anche ingrandendole, che non esclude le parti erogene del corpo nudo ritratto. In tal modo, la Fotografia tenta di mostrare la dimensione più “alta” e trascendente dei corpi ritratti, immunizzandoli, per quanto possibile, da sguardi “inquinati” da eventuali derive indirizzate verso l’erotismo o, addirittura, verso la pornografia (della quale si accennerà comunque più avanti). La Fotografia formalista, si è detto, ha inoltre riprodotto un corpo “innaturale”, tronco, astratto e, non ultimo, anonimo, scegliendo deliberatamente di non inserire, di norma, il volto nella ripresa delle frazioni del corpo nudo ritratte.

 C. Savina, da Il punto essenziale, s.d.

Di nuovo, pensando ad una parte dei lavori di questo autore, sembra emergere una sintonia, una comune linea espressiva anti-ritrattista che può indurre una sorta di effetto straniante nell’osservatore posto di fronte a queste produzioni inusuali e, per taluni aspetti formali, anche anticonvenzionali.

Una produzione inconsueta, se correlata ad una visione classica, che può far pensare anche alla “imposizione” dell’autore al corpo ritratto di una sorta di acrotomofilia (dal greco ἀκρότομος “avere l’estremità tagliata”, da ἄκρον akron “estremità” e -τομος -tomos da τέμνω temno “taglio” e φιλία philia “amore”, l’acrotomofilia è una parafilia che porta il soggetto a provare interesse sessuale verso le persone amputate (una menomazione congenita o acquisita…).

Un tema, quelle delle “derive” del quale, come accennato, si riaccennerà di nuovo, che non sembra interessare l’autore, per lo meno nelle forme più radicali, benché anche la sua produzione abbia esplorato la nudità del corpo per meglio comprenderne anche la dimensione delle (sue comprese) perversioni umane.

Un’indagine che ha “testato” anche il suo corpo come campo di indagine.

Un corpo, quello di volta in volta protagonista delle sue fotografie, che, comunque, non è mai divenuto un corpo altro, diverso. Né, mai, è stato considerato come una cosa qualsiasi, estranea, anche quando il corpo protagonista non era il suo. Non sono stati quindi mai presentati corpi intesi esclusivamente come dei semplici organismi viventi, ovvero come ancora li intende, fra altri possibili saperi dei nostri tempi, una certa Medicina.

I corpi di norma indagati dall’autore sono certamente anche corpi biologici, ma sono, soprattutto, corpi di persone. In questa relazione ambivalente tra l’organismo e la persona, la scelta per la componente più “umana”, piuttosto che per quella preminentemente biologica, non ha scartato comunque a priori quest’ultima, entrando essa – e a più riprese – in ogni caso prima o poi in scena (con l’abbigliamento, ad esempio, con suggerimenti riguardanti l’assetto posturale, la predilezione per talune discipline, quali l’amata danza, e, più in generale, per un più sano, equilibrato e corretto stile di vita).

C. Savina, da Schiene, s.d.

Un imprescindibile punto di intersezione su entrambi i fronti di questa dicotomia è l’interesse, anche dell’autore, verso la cura delle malattie sia del corpo materiale sia di “quello” immateriale.

Patologie psichiche, queste ultime, che – come, in qualche misura, sa anche l’autore – colpendo la psiche, magari a seguito di un trauma, come un morbus sine materia, possono emergere e lasciare segni profondi anche senza l’evidenza di apparenti riscontri fisiologici e/o organici.

C. Savina, da Corpi – Psicoanalisi, s.d.

Quale che sia lo stato di salute del corpo materiale e psichico, “abitando” protempore il corpo si vive, sostanzialmente, “in” e comunque tramite il corpo materiale.

E, proprio attraverso le interazioni di questa ambivalenza – tra l’essere biologico e la sua componente psichica – il corpo interagisce sia con il mondo concreto sia con quello simbolico/astratto. Un’interazione, che si alimenta dell’inesauribile dialettica tra entrambi le sue componenti che avviene a più livelli e sempre e comunque in un reticolo significante articolato e molteplice.

Riguardo a questa molteplicità W. Withman ha scritto:

 

Chiedeva forse qualcuno di vedere l’anima?

Guarda la tua forma, il tuo aspetto, persone, sostanze, animali, alberi, i fiumi correnti, le rocce, le sabbie.

 

Tutti contengono gioie spirituali, che più tardi emanano;

come può il corpo vero morire e venire sepolto?

 

Del tuo vero corpo, e del vero corpo di ciascun uomo, di ciascuna donna,

ogni elemento sfuggirà alle mani dei becchini trasmigrando verso sfere appropriate,

seco recando quanto l’ha arricchito, dall’istante della nascita all’ora della morte.

 

I caratteri disposti dallo stampatore non rendono l’impressione, il significato, il senso principale,

più di quanto la sostanza e la vita di un uomo non lo rendano nel corpo e nell’anima,

indifferentemente, prima della morte o dopo la morte.

 

 

Osserva, il corpo comprende e afferma il significato, lo scopo principale, include e afferma l’anima;

chiunque tu sia, quanto superbo e divino è il tuo corpo, o ciascuna sua parte!

 

Un processo incessante, un confronto dialettico senza soste – se si fa eccezione per le pause “imposte” dal sonno – sino alla fine, sino alla morte. Superata questa soglia fatale il corpo vivo diviene poi un cadavere. Un corpo senza più vita da affidare, eventualmente, un’ultima volta alla Medicina perché lo studi, in particolare, per cercare di comprenderne le cause che lo hanno portato al decesso. E qualsiasi corpo che ha cessato di vivere è anche una sorta di barriera verso il mondo, un corpo ormai irrimediabilmente perso e “chiuso in sé”. Un corpo fuori dal mondo, che, con il mondo, ha smesso definitamente di interagire. Non sempre e non del tutto, però, perché il corpo può comunque “risorgere” in qualche modo, come, per fare soltanto due esempi tra i tanti possibili:

Il corpo vivo, invece, come paiono ricordarci costantemente anche le immagini dell’autore, non è mai separato dal mondo. All’opposto, è proprio “lo” strumento che ci permette di collegarci al mondo e, di volta in volta, misurarlo, organizzarlo e, eventualmente, anche di “incamerarlo”. Il corpo ci permette costantemente, lo si ribadisce, di avere un’idea del mondo. Un quadro certamente con delle lacune, limitato e parziale, quanto astratto e inevitabilmente impreciso del “reale”. Ed è proprio con questo “mezzo” aleatorio ed incerto l’essere umano fa esperienza del mare di materia, di saperi, di culture e, quindi, di senso nel quale “nuota” incessantemente.

Tra questi, ricordando i già citati interessi dell’autore, c’è anche la danza.

C. Savina, da Il corpo nella danza, s.d.

Danza intesa come un universo simbolico e gestuale di esplorazione degli spazi che circondano i corpi nella contingenza di ogni performance. Una rappresentazione simbolica del cammino di ricerca verso la conoscenza e la verità che caratterizza il cammino dell’essere umano, incluso quello dell’autore. La danza lo fa con un suo specifico impianto espressivo, anche attraverso una continua rimodulazione prossemica degli spazi che “imprigionano” il corpo concreto di volta in volta coinvolto nelle sue “prestazioni”. Un processo perpetuo, di fatto senza soluzione di continuità, talora composto di unità suddivisibili. Unità suddivisibili, ovvero “corpi” significanti anch’esse che ruotano come satelliti nell’orbita di senso del “corpo celeste” maggiore rappresentato, ad esempio, dall’occasionale protagonista. Corpi reali e corpi immaginari, dunque, che nel corso di ogni esibizione mettono in scena insieme la cangiante prospettiva situazionale con la quale la danza “misura” e interpreta ininterrottamente il mondo che circonda il “suo” stesso “corpo”. Un “corpo” che è sia il punto di partenza sia l’orizzonte e la destinazione finale anche del cammino disvelatore della danza. Un percorso simbolico che confonde, in una contemporanea relazione sinergica, sia lo sfondo contingente della rappresentazione – al quale è correlato l’ambiente di riferimento, prossimo o distante che sia, tangibile o meno che appaia – sia il tempo di esecuzione del gesto del corpo fisico che danza. Un confine che si tenta di raggiungere attraverso la gestione “orientata” di questo corpo materiale che danza in una dimensione spazio/temporale che diviene essa stessa un “corpo” ideale, “sostanza” del relativo universo reale e/o simbolico di volta in volta rappresentato. Un corpo biologico che danza tratteggia quindi un perimetro semantico, una cornice di interesse, un dentro e un fuori che imprimono a ciascuna esecuzione un marchio di esclusività, un’impronta ogni volta unica all’atto, al gesto attraverso il quale, passo dopo passo, la danza si esprime, divenendo essa stessa “corpo” (significante). Un gesto che non è, di norma, mai “inconsapevole”, ma sempre finalizzato, indirizzato. Un atto “politico”, anche in quest’ambito, determinato a percorrere un sentiero più o meno definito, volto disvelare una determinata dimensione e/o una specifica “verità”. Un gesto “orientato”, dunque, attraverso lo spazio che viene via via esplorato. Un gesto che, tuttavia, se preso singolarmente e scollegato da uno specifico e più ampio progetto di fondo e, pertanto, privo di una possibile destinazione finale, rischierebbe di apparire come un atto chiuso in sé stesso, insensato, finanche “gratuito”, che non rinvia a null’altro. Una condizione indispensabile perché anche lo spazio della danza è a sua volta ridefinito dai gesti stessi della danza. Attraverso quei gesti viene “piegato”, per così dire, oltre che ad una specifica destinazione d’uso anche a una ben definita cornice interpretativa. Un perimetro interpretativo e un (ri)orientamento verso una (talvolta) nuova e, eventualmente, anche differente verità. Per lo meno quella circoscritta dai gesti, ovvero dalle “parole” con le quali la danza si esprime e, nel contempo, formula ininterrottamente anche (meta)discorsi su sé stessa. Con i suoi tanti linguaggi espressivi il corpo materiale, pure attraverso il gesto della danza, ogni volta diviene una specie di metaforico varco, una specie di apertura verso/sul mondo. Senza questa sorta di cerimoniale la danza – e, quindi, il corpo fisico attraverso di essa – avrebbe indubbiamente delle ulteriori difficoltà a esprimersi e “parlarci” del mondo, limitandosi, semmai, solo ad immaginarlo, senza però poterlo condividere. Senza questa propensione comunicativa, senza questa cangiante liturgia di atti, la danza potrebbe quindi risultarci addirittura senza alcun senso e incapace, quindi, di “tradurci” il mondo. Dissolvendo, così, anche le molteplici capacità espressive e gli sforzi narrativi del corpo reale che danza “a contatto” con il mondo.

Un’azione, quella della danza, che U. Galimberti ha descritto così:

 

“Disporre del proprio corpo è disporre dello spazio del mondo dove il corpo può agire. Lo spazio del mondo appartiene al corpo come una parte della sua carne, e finché l’anatomia non si deciderà a studiare il corpo partendo dalla fisiologia, e la fisiologia dall’essere nello spazio del mondo, l’anatomia continuerà a darci informazioni sul cadavere, perché solo il cadavere non è più al mondo. Se il corpo costruisce azioni in base alla percezione dello spazio reale e virtuale che il mondo gli offre, cosa potrà insegnarci la fisiologia del sistema nervoso dove il corpo è chiamato a rispondere a stimoli invece che a risolvere situazioni?”

 

C. Savina, da Il corpo nella danza, s.d.

E disponendo del proprio corpo, si esercita, a vari livelli, una sorta di potere sul mondo, a partire da ciò che è nella sua disponibilità immediata (apparati, idee, etc.).

Così come lo sono state, ad esempio, gli strumenti e le azioni che, permettendo l’atto tecnico dello scrivere, hanno reso possibile la creazione di questo stesso testo che tu stai ora leggendo.

In tal modo, il corpo crea un valore aggiunto ulteriore a ogni sua azione, a ogni cosa che, agendo in qualche modo anche su sé stessa, comunque modifica e trasforma l’esistente rispetto al suo stadio preesistente.

Le diverse geografie visive create dai corpi fotografati dall’autore rappresentano, in questa prospettiva, una sorta di esempio rappresentativo, tra altri possibili, di “traduzione” in immagini delle ininterrotte interrelazioni del nostro corpo duplice – dell’anima e del corpo, in realtà – con il mondo. “Traduzioni”, dunque, realizzate collegando ad ogni atto, ad ogni idea creata, il relativo contenuto. Ed ogni volta il nostro corpo “doppio” si rimette quindi “in gioco” sostenendo il suo rapporto con il mondo. Queste connessioni, questa interdipendenza, sembrano documentare concretamente le tante espressioni dell’anima e della coscienza del corpo e del suo essere nel/al mondo. In questa prospettiva, il corpo può apparire esso stesso sia una “cosa”, un oggetto sia, al tempo stesso, “lo” strumento (accennato in apertura) atto a tessere questa trama di scambi materiali e/o simbolici, nel fitto e continuo intreccio dialettico con il mondo.

Una rete di senso, intessuta incessantemente per dare e darsi un senso, per dare e darsi un fine.

Diverso è il caso, ad esempio, della malattia – dimensione dolente evocata anche in taluni lavori dell’autore – dove il corpo sembra posto in una sorta di sfondo, come se non fosse più al mondo. Un corpo fuori dal mondo, esterno ad esso, come se fosse un oggetto terzo, una cosa qualsiasi. Ed è a questa cosa che rivolge il suo sguardo scientifico quella Medicina che considera il corpo soltanto come un puro organismo. Un corpo nel quale la presenza della malattia è di norma scandita dalla sofferenza e dal dolore. Sofferenza che mette in evidenza tutta la fragilità umana.

Un tema particolarmente caro all’autore, così come quello del dolore.

Fragilità che ci ricorda la caducità del tempo. Caducità del tempo che passa. Fragilità che talvolta, magari inutilmente, si tenta di nascondere per mostrarsi, al contrario, forti, potenti. Fragilità che si tende a mascherare, ostentando, anziché fragilità, una sorta di infrangibilità. In un’epoca nella quale decisionismo e arroganza, anziché essere viste come dei difetti, sono, invece, considerate delle virtù, da difendere e affermare, pensare che una “tara” come talora può anche sembrare la fragilità – sia essa del corpo, così come dell’anima – non sia in assoluto un disvalore potrebbe risultare una stranezza, finanche un’assurdità. Ma la Storia dei piccoli passi, quella di ogni giorno, mostra, al contrario, che non sono affatto le sole dimostrazioni di forza a farci crescere, quanto, e non di rado, proprio le nostre tante fragilità. Fragilità, magari seguite, oltre da forme adeguate di resistenza, da altrettante e ancora più adeguate forme di resilienza. Fragilità, della quale, possono individuarsi i segni tangibili sui corpi – come è nel caso di taluni dei corpi protagonisti dei lavori di ricerca dell’autore – ancora segnati dagli esiti di qualche trauma e, che ciò nonostante, sono ancora capaci di ascoltare il proprio corpo e quello altrui, anche nel momento del disagio, della sofferenza, del dolore.

E il dolore, e “la” triste qualità della vita, che convive e accompagna spesso con la fragilità. Dolore che risveglia la paura, che, a sua volta, in una sorta di implacabile circolo vizioso, riaccende ancora una volta il dolore e così via, sino alla fine. Una fine, non solo del corpo, che in talune forme di patologie sembra un appuntamento ancora più imminente, in un perpetuo, perenne presente che replica sé stesso incessantemente. Il “corpo” più intimo muore, così, continuamente.

Si è morti dentro un corpo che ancora respira.

La paura non è dunque connessa al solo dolore fisico, al corpo biologico, potendo manifestarsi anche in una dimensione di sofferenza mentale e sociale. Tutta la condizione umana è influenzata – e, non di rado, persino inondata e sommersa – dalla paura. Questa paura, questo dolore, possono manifestarsi nella propria personalità, producendo riflessi anche significativi, oltre che nell’interessato, in quel reticolo strategico di relazioni che connota la vita del nostro corpo sociale. La paura della morte segna, di fatto, tutta l’esistenza. Un’esistenza, che, purtroppo occorre ammetterlo, si svolge tutta in funzione della morte e, in particolare, della paura dell’arrivo della morte. La paura della morte diviene la paura di vivere di chi teme di morire. Un enigma, la morte, che rappresenta emblematicamente un enigma dentro l’enigma della vita. Enigma dell’esistenza che è un altro tema al quale è legato l’autore, a partire dalla nascita e agli eventuali traumi che possono eventualmente accompagnarla.

C. Savina, da Corpi – Psicoanalisi, s.d.

E, per sfuggire alla morte si sperimenta di tutto, persino vivere e prolungare il dolore. Il dolore diviene, in tale prospettiva, un paradossale segno di vita. In altri termini, un’assurda, cinica e beffarda forma di speranza. In questa condizione, quando non si avverte il dolore, ci si può sentire finanche smarriti. Lo si può arrivare persino a cercare. Lo si aspetta, magari con ansia, provando un ulteriore assurda sensazione, ovvero: il vuoto da dolore. Un vuoto che può apparire come un anticipo della fine. Un acconto, perché soltanto la fine dissolve definitivamente e chiude i conti con tutto, anche con il dolore. Ci si può quindi legare al dolore talora assente, come se fosse un anch’esso un corpo che ci manca. Un corpo che, “purtroppo”, non c’è sempre. Ma, quando c’è, può invece “offrirti” un dolore “terapeutico”, che sembra irragionevolmente quasi in grado di “ridarti” temporaneamente la vita.

Non una vita ultraterrena, come promettono i relativi orientamenti filosofici e/o religiosi, bensì una vita banalmente terrena.

Una condizione di ulteriore fragilità, che rischia peraltro di ammantarsi di nichilismo. Il nichilismo di chi si sente nulla al mondo e che è “costretto” a sperare, dopo aver tanto sofferto in vita, di venir poi eventualmente ripagato per questo “Altrove”, da “Qualcuno”.

Quale che sia la ragione, non si può, tuttavia, essere in alcun modo né indulgenti né, tanto meno, deboli nei confronti del dolore.

Ancor meno, rivestirlo di meriti e di senso, pur tenendo nella dovuta considerazione la sua preziosa e strategica funzione di spia, di campanello d’allarme di una possibile alterazione del corpo. La dimensione del dolore è, in ogni caso, sempre inaccettabile e non la si può quindi, semplicemente, sdoganare né tollerare o scusare. Ė un’esperienza tragica, che spaventa e rende impotenti. Una dimensione crudele, che – sebbene ci avverta che qualcosa non va – non dà di norma spiegazioni né sembra permettere di ottenerne. Una sfera esperienziale senza senso, dunque, che segna a volte solo qualche tappa del cammino esistenziale, altre volte, invece, l’intera esistenza dello sfortunato protagonista. Un comportamento, quello legato al dolore, che può quindi arrivare al paradosso. Un atteggiamento illogico che può condurre l’essere umano a sopportare e supportare un dolore del proprio corpo capace di fare più rumore di qualsiasi altro rumore.

Sino all’ultimo.

Tutto, in fondo, “odora” di morte e il nostro corpo, ovviamente, non fa eccezione.

In particolare, il corpo nudo, ancor più se è il corpo sofferente di un malato.

In questa prospettiva, la nudità può rievocare una duplice idea della morte comprendente sia la dimensione della labilità della vita che scorre via veloce, invecchiando ogni corpo, sia quella di un corpo sostanzialmente già finito.

Al di là dell’apparente autodistruttivo gioco al massacro, lo sa bene chi, in questo limbo infinito che è l’esistenza, fa esperienza del dolore. Il dolore fisico che colpisce il corpo biologico, così come quello interiore: il dolore di vivere.

E l’essere umano afflitto dal dolore, fragile e comunque comprensivo, fragile e comunque capace di consolare è una sorta di mosca bianca: un ideale quasi irraggiungibile di essere umano.

Il corpo colpito dalla sofferenza, dal dolore, dalla malattia, è un corpo che, non rispondendo più a determinate caratteristiche, viene inesorabilmente classificato come un corpo non più “a norma” e, pertanto, è oggetto di una più o meno ampia esclusione dal tessuto sociale. Questa nuova dimensione del corpo che – non corrispondendo più alle regole vigenti di coercizione del potere sociale sull’individuo – lo riveste di un nuovo status. Il corpo, infatti, diviene un (s)oggetto più difficile da trattare perché non è più un corpo “docile”. Non è più, almeno in parte, un elemento sociale accondiscendente e, come tale, diviene una sorta di corpo estraneo. Un corpo alterato, diverso, a causa della nuova condizione acquisita con la malattia. Un corpo che, prima era “la” casa…:

La casa. “Interni” 

La mia casa era un caos calmo.

La mia casa, ora, è una paralisi agitante.
La mia casa era un albero solido.

La mia casa, ora, è un relitto ondeggiante.

La mia casa era una fiamma avvolgente.

La mia casa, ora, è solo riflessi involontari.

La mia casa era una teoria di luci e di idee.

La mia casa, ora, è una pena crescente.

La mia casa era forza e volontà.

La mia casa, ora, è tremore e terrore.

La mia casa era uno spazio libero.

La mia casa, ora, è un luogo ostile.

La mia casa era di mattoni e cemento.

La mia casa, ora, è una fragile esistenza.

La mia casa era un progetto ambizioso.

La mia casa, ora, è una vita senza sogni.

La mia casa era una mente viva.

La mia casa, ora, è carne senz’anima.

La mia carne… è stata la mia casa.

Il mio corpo, ora, non è più la mia casa.

Il mio corpo, ora,

è ormai un’ombra debole,

quasi solo…

pensiero.

Pensiero…”

G. Regnani, La casa – “Interni“, dalla raccolta Disturbi diversi, 2017 

Una diversità associata, di norma, a qualcosa che, oltre ad essere spiacevole, triste, è anche brutta anche soltanto a pensarci, figurarsi a vederla e/o, addirittura, a viverla. Una diversità che, quindi, si mette automaticamente in contrapposizione con un’altra, opposta, positiva, ovvero l’idea, anch’essa universale, di Bellezza. Una contrapposizione al tunnel buio della vita rappresentato dalla malattia.

Bellezza comunemente intesa, come ha ricordato A. Abruzzese, come uno degli “interessi abstracti dell’uomo”.

Un interesse, quello per il “corpo” plurale della Bellezza, che, come accennato in precedenza, è stato condiviso da sempre anche dall’autore.

Un “corpo” tanto amato, che cerca e propone incessantemente in tutte le forme possibili, “dandogli forma” nelle sue fotografie.

Una Bellezza che può anche essere figlia di una fotogènia propria o “indotta” nel (s)oggetto ritratto.

Quale che ne sia l’origine, quella della Bellezza come generalmente la intendiamo oggigiorno – accennando molto brevemente all’evoluzione storica anche dell’idea del bello descritta da U. Eco nella sua Storia della Bellezza – è anche l’esito di un rapporto molto particolare e mutevole con il “corpo”, altrettanto interessante e poliedrico, dell’Arte, non ultima, quella moderna. Un rapporto, similmente a quello di tanti altri corpi culturali che hanno incrociato le loro strade, che ha avuto un’alternanza di attrazioni e repulsioni. Una relazione che, non di rado, ha tuttavia assunto anche le forme di una vera e propria stretta simbiosi tra i due “corpi”, segnata, però, dai riflessi determinati dall’avvicendarsi di teorie estetiche che, in certi periodi storici, hanno riconosciuto solo la bellezza della Natura, sottovalutando o addirittura non considerando quella dell’Arte, così come, in altri momenti, è accaduto, invece, l’inverso. C’è stata, dunque, un’alternanza gerarchica, talora anche della lontananza tra questi due corpi culturali. Uno iato, un vuoto, una distanza prospettica tra questi due universi, che ha visto fasi nel corso delle quali la Bellezza era una qualità attribuibile soltanto alla Natura (ambienti, scenari, prodotti, etc.) e l’Arte doveva soltanto “accontentarsi” di starle vicino facendo bene il “suo” lavoro riproducendo sempre al meglio la “realtà” della Natura. In questo orizzonte di valori un calzolaio ed uno scultore erano considerati, nel caso il loro prodotto fosse stato valutato come tale, entrambi dei produttori di arte. Lo spartiacque, il diverso distinguo, anche formale, tra quello che oggi definiremmo arte – come ad esempio la pittura, la scultura, l’architettura – e quello che individueremmo invece come una forma più o meno apprezzabile di artigianato si è poi via via delineato con l’ideazione della dimensione delle c.d. Belle Arti. La Bellezza, riflettendo come qualsiasi altra idea lo spirito del tempo, non è comunque mai stata sempre la stessa nel corso della storia dell’Umanità. Nulla di immutabile, dunque, anche per il “corpo” della Bellezza. Una periodica mutazione, piuttosto, l’ha portata a “cambiare pelle” e assumere volti anche molto diversi nel corso del tempo e delle aree del mondo di volta in volta interessate. Trasformazioni diverse, dunque, che hanno interessato tanto la Bellezza fisica dell’essere umano, della natura, quanto delle idee, della trascendenza e dei suoi protagonisti. Un mutamento e un’evoluzione che, aggiungendo un altro piccolo frammento storico, ha visto la Bellezza, ad esempio nell’Antica Grecia persino priva di una vera e propria estetica e di una teoria della Bellezza. In quel periodo, infatti, la Bellezza aveva una sorta di statuto autonomo che portava spesso ad associarla ad altri elementi qualitativi umani, quali, ad esempio, l’essere una persona giusta. Una variazione continua, quella riguardante la Bellezza, che non ha escluso anche la relativa terminologia di riferimento. La stessa parola kalón, per esempio, solo impropriamente è traducibile con il termine “bello”. Kalón riguarda, infatti, tutto quel che piace, tutto ciò che attrae lo sguardo e suscita l’ammirazione altrui. La forma di una cosa, dunque, così come le qualità non percepibili con i sensi, possono esprimere la bellezza. Si pensi, ad esempio, alla bellezza di un animo o del carattere di una persona e così via. Qualità che sono materialmente tangibili, quindi, cosi come quelle che non lo sono e che vengono valutate con l’occhio della mente piuttosto che con quello del corpo.

Una Bellezza a più dimensioni, ancor più desiderata nel caso risulti rarefatta o, addirittura, manchi del tutto.

Non ultima, la Bellezza della forma delle forme…

C. Savina, da Il corpo tra luce e materia, s.d.

Bellezza che, in linea con l’autore, manca ancor di più nel caso dovesse essere invece sostituita, come accennato, da un’esperienza traumatica, da un deficit del corpo, da un handicap, da una patologia, palesandosi, piuttosto, attraverso turbamenti, disequilibri, disfunzioni, asimmetrie anatomiche, etc.

Una Bellezza multiforme, dunque, fin nelle sue derive estetico-narrative contemporanee più estreme e radicalizzate.

In queste terre ai margini della ragione, per i corpi narranti e/o narrati, sembrano dissolversi i confini classici, le abituali linee di demarcazione tra il bello e l’orrido. Emergono corpi che si fondono e si confondono in una miscela sensoria ed emozionale magmatica e talora allucinatoria. Un amalgama indistinto e continuamente oscillante tra l’apparente normalità e gli estremi di una dimensione patologica. Si pensi, all’esempio emblematico di “Crash”, il famoso romanzo dello scrittore britannico J.-G. Ballard pubblicato nel 1973, che, nel 1996, D. Cronenberg, regista canadese non nuovo a trasposizioni cinematografiche di opere letterarie considerate “infilmabili”, propose nell’omonimo film. Il corpo protagonista del romanzo è un corpo nel quale si condensa e si estremizza una pulsione erotica ormai sconfinata in una surreale e fatale deriva morbosa: una parafilia nota come simforofilia. Una forma di perversione che trova ed alimenta l’eccitazione dei protagonisti in presenza e/o al contatto con corpi deformati, menomati, asimmetrici, a causa di eventi traumatici, anche consapevolmente inferti o autoinflitti, quali, ad esempio – ed è ancora il caso del celebre bestseller di J.-G. Ballard – gli incidenti stradali. Anche in questa dimensione narrativa estrema il potere attrattivo ed erotizzante della bellezza di quei corpi “diversi” ingigantisce e assedia oltremisura il desiderio dei protagonisti. A suo modo, si tratta di corpi caratterizzati da una bellezza, che, al di là delle sue discutibili “qualità” specifiche e contingenti, appare comunque effimera, transitoria, fugace.

Ciò nonostante, i corpi continuano ad essere lo strumento per mettere comunque “in forma”, rendere tangibile la Bellezza, nelle sue più svariate espressioni. Un interesse trasversale, che attrae, coinvolge e seduce un sempre più ampio spettro di persone, cercando di superare anche taluni storici steccati legati alle questioni del genere. Anche in questo ambito, il lavoro dell’autore e le riflessioni ad esso collegate, offrono possibili spunti per un rinvio al dibattito, anche aspro e tuttora in corso, riguardante la c.d. teoria del gender. Uno di questi, potrebbe essere l’uso di espressioni diffuse e comuni, quale quella di sesso forte. Un’espressione che, nell’ambito di questo confronto dialettico potrebbe probabilmente risultare criticabile, se correlata all’idea, secondo una determinata tesi, di una sostanziale inesistenza di differenze tra i sessi biologici. Da questa tesi, deriverebbe la “libertà” di cambiare a piacimento il proprio precedente sesso. Un costrutto teorico che – senza addentrarsi troppo in un terreno anche specialistico e potenzialmente “scivoloso” – miscela e assembla vari elementi provenienti da ambiti culturali diversi, quali, tra gli altri: la sociologia, il femminismo, gli studi sul transessualismo, etc. Un reticolo culturale articolato che, pur convivendo al momento in una cornice ideologica apparentemente unitaria sintetizzata nell’espressione ombrello di teoria gender, sembra non poter comunque riassumere appieno – non ultimo, proprio per la complessità e la specificità delle diverse fonti d’origine – nessuna delle suaccennate dimensioni culturali. Ciò premesso, in linea con l’art. 21 della nostra sempreverde Carta Costituzionale, è ormai tempo che l’aumentata sensibilità e l’attesa maturata al riguardo, trovino spazi adeguati per esprimersi nell’ambito di un confronto dialettico civile improntato al rispetto reciproco. Un dibattito democratico e possibilmente non inquinato a priori da eventuali pregiudizi, che comprenda, ove del caso, anche l’intervento del Legislatore.

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Ma, nonostante questo quadro evolutivo, gli stereotipi, come ha potuto sperimentare anche l’autore, continuano, tenaci, a resistere. Si pensi, ad esempio, a quello classico di maschio e al correlato luogo comune di un tipo di persona da sempre magari più sensibile ad un’idea di vigore, di potenza, di forza, piuttosto che a quella della Bellezza, tradizionalmente considerata una qualità più affine e congeniale all’universo femminile, piuttosto che a quello maschile. Un’istantanea di un corpo sociale che, come accennato, appare ormai datata e che una serie più meno graduale di riposizionamenti culturali, con i conseguenti, correlati riorientamento dei costumi e delle consuetudini sociali ha già, di fatto, progressivamente e non di rado profondamente modificato. Ne sono traccia e testimonianza l’emergere e via via l’affermarsi di ulteriori modelli di corpi ideali cosi come di corpi sociali – tra le quali nuove tipologie di famiglia – tra gradienti differenti di ibridazione e più o meno nuovi rituali sociali, se del caso riattualizzati, rimescolati e/o riadattati rispetto a quelli preesistenti. A proposito di nuovi corpi ideali, tra altri possibili, un esempio emblematico, verosimilmente frutto anche di quel culto del corpo del quale si è accennato in precedenza, potrebbe essere il rinnovato e trasversale interesse per la c.d. “vigoressia” o “bigoressia”. La vigoressia è un sottotipo di dismorfofobia – conosciuta anche come dismorfia muscolareanoressia inversa o complesso di Adone – caratterizzata dalla costante ed ossessiva attenzione alla tonicità del corpo, che si traduce in una serie di pratiche correlate, per fare ulteriori esempi di dettaglio: in allenamenti insistiti e prioritari rispetto ad altri impegni sociali, nella morbosa regolazione e mantenimento della massa magra, nella rigida e religiosa osservanza di specifiche diete alimentari e così via. Un fenomeno che, per quanto ovvio, riguarda, anche nelle sue forme tendenzialmente estreme e patologiche un target di persone che sovente non sono affatto dei professionisti del mondo dello sport, ma, per quanto accanite e fobiche, delle persone comuni. E non solo uomini. Ne è la dimostrazione palese il fatto che la vigoressia – che registra una crescita più o meno costante – risulti sicuramente più diffusa nella popolazione maschile, in particolare tra gli atleti, pur non escludendo, tuttavia, anche tante donne. Una tendenza patologica, quella della vigoressia, che, tra l’altro, può nutrirsi ed alimentarne a sua volta delle altre, non meno severe e preoccupanti, tra le quali la c.d. “dismorfofobia”. Si tratta di una patologia psichica che, in particolare dagli psichiatri e dagli psicologi, è diffusamente considerata un vero e proprio disturbo ossessivo/compulsivo – connotata da un eccesso di preoccupazione, talora anche parzialmente o totalmente infondata, riguardante possibili difetti estetico-funzionali di specifici parti del proprio corpo. Anomalie fisiologiche quali, a puro titolo di esempio: un tratto del volto, una frazione del corpo, una postura, etc.

C. Savina, da Schiene, s.d.

Imperfezioni del corpo, effettive o presunte, che, non di rado, possono arrivare “ad imporre” all’interessato l’adozione di qualunque possibile rimedio finalizzato a sanare e, quindi, risolvere il difetto riscontrato o soltanto ipotizzato.

In questo tipo di scenari, ma non solo, il corpo condensa “il” luogo per eccellenza del desiderio e dell’appagamento, non ultimo, del piacere. Ma, al tempo stesso, il corpo diviene una sorta di premonizione e di proiezione anterograda del rimpianto futuro che, talvolta si prova prima ancora del piacere stesso. Un’esperienza percorsa dai fantasmi della precarietà del piacere e della ineluttabilità della sua fine e della morte. Corpi sessualmente segnati da un destino predefinito che, in ogni caso, la fatalità del quotidiano non riesce a fermare ed opacizzare. Corpi che assommano in sé il male e, insieme, la relativa possibile – e, forse, unica – cura per un’anima irrimediabilmente malata.

E anche in questa dimensione così peculiare, sembra riemergere ancora una volta l’enigmatica ambivalenza del corpo tra natura e cultura. Un corpo umano non solo dato naturale, ma anche, e forse più, creatore e prodotto della cultura e della società nella quale vive.

Una dimensione prometèica che connota anch’essa la produzione dell’autore, a sua volta, creatore di forme e, attraverso di esse, di nuovi “corpi”.

  C. Savina, da Corpi mescolanza, s.d.

Una presenza, quella del corpo, da sempre, dunque, in precario equilibrio tra la naturalità e la dimensione culturale. Una rappresentazione prevalentemente simbolica, quest’ultima, che è il frutto, in evoluzione continua, della cultura dei luoghi fisici e virtuali nei quali il corpo, non solo materiale, vive e si collega al mondo. Un mondo, nel quale il corpo, plasmandolo, “socializza” anche sé stesso, evolvendo, quindi, in un corpo sociale.

 C. Savina, da Progetto sul ritratto “Come mi vedono gli altri”, s.d.

Un corpo sociale sottratto, almeno in parte, alla sua natura inumana originaria. Un’evoluzione che ha comportato anche una progressiva perdita dell’identità fisica primordiale in cambio dell’acquisizione di una nuova identità, anche psichica, ma, soprattutto, socializzata. E, liberando il corpo dalla sua individualità biologica primigenia, il mondo trasforma questo corpo, per quanto mai del tutto, in un corpo artificiale. Un corpo, come accennato, socializzato e, per quanto possibile, più “docile”, quasi… “addomesticato”.

E per tentare di “gestire” il corpo e, prima ancora, di comprenderne e/o valorizzarne possibili “diversità” (di genere, filosofiche, religiose, politiche, etniche, etc.), il mondo si è avvalso anche di un’altra strategica protesi, ovvero dell’abbigliamento.

Nel fitto intreccio di norme sociali che ci tengono “schiacciati al suolo” – che l’autore avverte come un’invisibile forza di gravità – l’abbigliamento svolge tuttora una funzione altrettanto cruciale. L’abbigliamento, esprime il modo di “sentire” il proprio corpo. Ancor più, dimostra l’accettazione o meno del proprio corpo e, non ultimo, il suo rapporto con il pudore. Secondo G. W. F. Hegel:

 

“Il vestire trova la sua giustificazione da un lato nel bisogno di difendersi dagli effetti delle intemperie, giacché la natura non ha tolto all’uomo questa cura, anzi a lui l’ha lasciata completamente, a differenza dell’animale, la cui pelle è coperta di piume, di peli, di scaglie ecc. Dall’altro lato l’uomo è spinto a coprirsi dal pudore. Il pudore è l’inizio dell’ira contro qualcosa che non deve essere. L’uomo che diventa cosciente della sua destinazione superiore, della sua essenza spirituale, non può non considerare inadeguato quel che è solo animalesco, e non può non sforzarsi di nascondere quelle parti del suo corpo che servono solo a funzioni animali e non hanno né una diretta determinazione spirituale, né un’espressione spirituale.”

 

La nudità, come ha potuto sperimentare anche l’autore, tende quindi ad assimilare il corpo ad una cosa qualsiasi. In questo corpo oggetto, come tanti altri, proprio a causa di questa condizione, dilaga il senso di pudore generato dalla vergogna. Una condizione del corpo sulla quale l’essere umano interviene ribaltandola, ovvero coprendo in tutto o almeno in parte la propria carne spoglia. Il corpo (ri)vestito affronta dunque così la vergogna, gestendo il pudore residuo. In tal modo, trasforma il suo status da oggetto in soggetto, da cosa osservata a essere anche osservatore. Ė proprio il pudore, infatti, quello indotto dalla vergogna, che connota un corpo nudo allorché è “ridotto” nello stato di “miseria” dell’animale o di una cosa qualsiasi. Un “(s)oggetto” qualsiasi, esposto, indifeso di fronte agli sguardi che lo “spogliano” del bene preziosissimo della propria soggettività. I vestiti, nascondendo alla vista anche soltanto particolari zone del corpo, aiutano, quindi, il corpo stesso ad invertire questo precipitare verso la dimensione dell’oggetto, restituendogli la sua dignità di soggetto. Questo scudo, questa pellicola fatta di indumenti, permette al corpo di trascendere, di oltrepassare la precedente condizione di indigenza animalesca, di cosa qualunque, facendo emergere, nelle restanti parti visibili del corpo, una dimensione più “alta”, spirituale e, pertanto, più in sintonia con la condizione umana.

C. Savina, da Il corpo squarcio di luce nel buio, s.d.

Da una diversa prospettiva, il corpo condensa invece il mondo non tanto celandosi dietro quella pellicola rappresentata dall’abbigliamento, quanto esponendosi attraverso proprio attraverso di esso, grazie alla serie infinita e variegata di queste pellicole che riproducono, simbolicamente, la multiforme varietà del mondo.

U. Galimberti ha scritto al riguardo:

 

“Il sistema delle vesti, assicura sì il passaggio dal sensibile al senso, ma non nascondendo il sensibile per liberare sensi spirituali, ma esponendo il sensibile per sprigionare le sue possibilità simbolicamente diffuse dalle vesti che, adeguando l’identità corporea alla varietà degli aspetti mondani, sono uno dei più interessanti veicoli in cui il corpo manifesta la sua intenzionalità nel mondo e per il mondo.”

 

L’abbigliamento rappresenta metaforicamente, quindi, la varietà e multidimensionalità del mondo, con la sua storia, la sua geografia, la sua natura, la sua arte e, non meno importante, l’appartenenza, la consonanza di un corpo ad/con uno specifico gruppo sociale, etnico, religioso, etc. Una “pressione” e, insieme, una forma di socializzazione avvertita come vincolante dall’autore, così descritta da R. Barthes:

 

“Alla riduzione della valenza biologica ed etnica del segno vestimentario fa riscontro un incremento della sua valenza sociologica, che fa dell’indumento l’espressione di una funzione o l’asserzione di un valore che rinviano di continuo al mondo istituzionalizzato che ci circonda.”

 

L’abbigliamento, da semplice “DPI” (“dispositivo di protezione individuale”), è divenuto quindi qualcos’altro, istituzionalizzandosi nel tempo come una sorta di vero e proprio dispositivo di espressione individuale. Un dispositivo che usa un “suo” specifico linguaggio, veicolato da un relativo rigoroso sistema di simboli, segni, etc. Un sistema identitario di significazione che contribuisce alla costruzione del sistema stesso e del connesso impianto di relazioni e regole sociali nel quale è “immerso”. L’abbigliamento, pur nelle sue più svariate derive espressive, è divenuto per il corpo un ulteriore strumento di “controllo sociale”, progressivamente alimentato e/o modificato da rituali, costumi, mode, etc.

Mode, modi, che, dalla Sindone del Cristo alla camiciola del neonato, dall’uniforme al bikini, dalla tuta da lavoro alla divisa dei detenuti, coprono un corpo che, in una sintonia variabile con il mondo, si sente talvolta incluso, talvolta no.

E, coprendosi, ogni corpo “agisce” senza apparentemente sembrare intento a farlo. E, così facendo, “dialoga” in vari modi con il mondo anche soltanto attraverso la semplice ostensione “silenziosa” del proprio abbigliamento.

Basta vestirsi, in sostanza, per “essere” o apparire qualcosa e/o qualcuno nel mondo.

Richiamando J.-P. Sartre potremmo forse riassumere questo percorso dialettico circolare fatto di rimandi, all’interno dei quali una persona si esprime attraverso l’indumento realizzato o, come è più comune, indossato, così come l’abbigliamento esprime simbolicamente la persona stessa. Modificando l’indumento, si modificherà, conseguentemente, la persona, l’attore umano di volta in volta protagonista. E, insieme, il “suo” corpo.

Lo stesso corpo che, nell’esplicito estremo della pornografia, cerca ancora oggi di vestire i panni, “nuovi”, di un corpo progressivamente più libero dai tabù preesistenti.

C. Savina, da La fine della pellicola, Vietato!, s.d.

Tabù anche molto pervasivi e resistenti, come ha sperimentato, a più riprese, anche l’autore. Tabù dai quali tenta comunque tuttora di affrancarsi il corpo contemporaneo. Un corpo sempre più protagonista di una pratica liberatoria e antirepressiva, prima oggetto di una limitazione censoria alla sua espressione, che ora, gradualmente, si sta progressivamente erodendo. Il corpo della pornografia continua ad essere, in tal senso, un corpo emblematico. Un corpo divenuto ancor più una sorta di lente di ingrandimento della società e dell’evoluzione dei suoi costumi. Una specie di “fotografia” del mondo contemporaneo. Una finestra – oscena, quanto si vuole – attraverso la quale guardare anche in trasparenza, noi e oltre noi stessi, l’ambiente e il sistema di relazioni reali e simboliche nel quale siamo tutti attori e/o spettatori. Il corpo ha assunto, in questa prospettiva, la funzione di una sorta di “specchio” nel quale il mondo, a partire dal singolo individuo, si riflette e, al tempo, si plasma e si proietta verso sé stesso e verso l’altro da sé.

Altrettanto logora, sia per il corpo sia per la persona che “veste”, è la dimensione della privacy (un altro ambito “sensibile” per l’autore). Una sfera intima ormai incessantemente ed inesorabilmente erosa da una pandemica – quanto, a tratti, finanche patologica – ossessione della visibilità. Un’ossessione che dilaga, trasversalmente, in tutta la società contemporanea: dai bambini agli anziani. Il corpo intimo, prima affidato alla discrezione delle confessioni private, appare ora “liberato” da queste e altre maglie. Un corpo apparentemente sempre meno vincolato dai freni e dai tabù di un tempo ormai sorpassato che, con una progressione impressionante, esonda ormai dappertutto, inesorabilmente attratto verso il buco nero prodotto da quella fabbrica di mode e di modi di essere che alimenta e si alimenta di un audience crescente popolante i vari media, primo fra tutti il web. Conseguentemente, per il corpo contemporaneo, quegli indumenti, quegli accessori e quei comportamenti ed espressioni che in precedenza erano patrimonio (quasi) esclusivo dei set a luci rosse sono stati progressivamente e diffusamente traslati al quotidiano e a consuetudini di uso e consumo comune. Una diffusione, una “normalizzazione” e una perdita della precedente trasgressività del corpo una volta stigmatizzato nella pratica della pornografia che potrebbe essere definita come: “pornografizzazione della vita quotidiana”. Una “corrosione” irreversibile della c.d. società civile tradizionale. Uno sdoganamento del corpo pornografico di un tempo che apre la strada ad una vera e propria “normalizzazione della pornografia”. Un corpo “rivestito” di un senso, di un’espressione identitaria espressa attraverso la fisicità, la pelle, gli atti, in una dimensione liquida sempre meno privata, con tutti i possibili riflessi che ne derivano. Non ultimi, per questo corpo nudo – non solo in senso figurato – ormai naufrago nel web, quelli connessi anche con l’eventualità di una possibile “emorragia identitaria”. Il corpo contemporaneo della pornografia è divenuto un emblema della tendenza semplificatoria della realtà sempre più complessa operata dai media, non solo quelli visivi. Media che attestano come “normali” la dimensione, le pratiche e i corpi reali della pornografia, trasferendone nel visivo e, quindi, riversandone anche nella quotidianità i relativi “contenuti”. Per questo corpo oramai spoglio anche della sua privacy, la nostra epoca, come teorizzava R. Barthes, è quanto mai un’era classificabile come un’era delle immagini più che della parola.

 

La cultura di massa non è il frutto del proliferare dei libri – purtroppo o fortunatamente, non saprei – quanto delle immagini.

 

Una cultura di massa all’interno della quale il corpo postmoderno vive, secondo A. Abruzzese, una dimensione alienata che, riflettendo sulla pornografia, ha sintetizzato e descritto con parole che lasciano il segno:

 

“La nudità del corpo, la sua riduzione alla natura di animale (per quanto arricchito da straordinarie protesi meccaniche e sociali) cade vittima di ogni pratica e di ogni discorso trascendentale.” Il corpo, in questa “atmosfera modificata”: “non ha senso se non [per, N.d.r.] quello che fa. Ha […] derivato le sue forme moderne dalla sostanza divisa e ripetitiva dei rapporti industriali, delle macchine pesanti, […] ha sempre lavorato sul corpo, senza attenuarlo, senza vestirlo con filtri e abiti che impediscano lo sguardo diretto sulle sue funzioni. La progressiva divulgazione della pornografia – nel corpo, appunto, dell’esperienza psicofisica – ha funzionato in chiave anti-estetica, anti-narrativa, anti-statuale, e dunque contro le retoriche dell’arte e della società.

La pornografia è il “fuori scena” che tutti siamo.”

 

C. Savina, da L’importanza del sesso, s.d.

Ma ci sono anche altri fattori che, nostro malgrado, “agiscono” sempre e comunque sul corpo. Fattori per nulla secondari – come riverberano, in modo diretto e/o indiretto, anche i lavori di questo autore – quali, ad esempio: il tempo. Tempo, che, malgrado ogni resistenza, altera realmente il corpo, modificando implacabilmente tutte le sue componenti fisiche e psichiche. Il tempo, da questo punto di vista, è “il” nemico per antonomasia del corpo. Corpo che “certifica” – non ultimi, anche a noi stessi – la nostra “esistenza in vita”. Ma non solo, “documentando”, infatti, anche il luogo e il tempo dove si consuma questa sua esistenza biologica. In quest’ottica, il corpo è anche “il” luogo dove il corpo stesso “emerge” e si manifesta al mondo. In tal modo, secondo M. Foucault, il corpo condensa in sé una sorta di “punto zero” del mondo. Un punto di riferimento, un asse materiale e simbolico intorno al quale, idealmente, ruota tutto il resto. In quanto punto di riferimento, tutto è visto in questa prospettiva. Tutto, sino alla fine, allorché il corpo scompare al/dal mondo. Da luogo percepibile, con la morte, diviene soltanto ricordo, memoria. Una scomparsa, un’inesorabile dissoluzione, che, anche durante la sua esistenza, il corpo, attraversando dimensioni e gradienti anche molto differenti, comunque sperimenta. Si pensi, tra i tanti esempi possibili, a quella forma di “assenza” quotidiana determinata dal riposo notturno. Oppure all’annullamento emotivo, talora indeterminato, indistinto, dovuto ad un legame sentimentale (non necessariamente problematico). E, ancora, su di un piano simbolico quanto percettivo, al turbamento collegato alla momentanea “scomparsa” del corpo nel caso di una sua rifrazione e/o riproduzione su una qualsiasi superficie riflettente o attraverso una semplice fotografia. Momenti ed eventi anche minimali, quotidiani e apparentemente banali, che ci anticipano che il nostro corpo, il nostro “contenitore” ancora vivente, un giorno finirà comunque per… “dissolversi”.

Tematiche delicate, quella della “dissoluzione”, e, prima ancora, quella riguardante il senso dell’esistenza, che la ricerca dell’autore sul corpo ha più volte incrociato e, a suo modo, indagato attraverso le sue fotografie.

C. Savina, da L’alba del mondo, s.d.

Un tema, in particolare quello della scomparsa, riguardo al quale, come autore che si esprime con e attraverso la Fotografia – per quanto possa non sentirsi del tutto in sintonia – tiene comunque dovutamente conto dell’asserzione difficilmente confutabile scritta da S. Sontag nella quale ha affermato che:

 

“Ogni Fotografia è un memento mori. Fare una Fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa. Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo.”

 

Autoritrarsi e/o ritrarre qualcuno in una Fotografia pone quindi l’autore e/o l’attore ritratto di fronte ad una mini esperienza della Morte. La Fotografia, in questa prospettiva, secondo R. Barthes, assume le forme di un vero e proprio spettro. Il semiologo francese ha anche precisato ulteriormente che la Morte “prende corpo” concretamente nella Fotografia “assumendone” l’aspetto attraverso la sua staticità, la sua freddezza e l’essere, in definitiva, essa stessa una sorta di “corpo” senza vita. Pertanto, ogni fotografia, “congelando” un dato momento e interrompendo il flusso dinamico degli eventi, “si comporta” proprio come la Morte nei confronti della vita. Per tale ragione, nell’immaginario collettivo, “la” relazione per antonomasia della Fotografia, da sempre, è quella che la collega all’idea della Morte.

Tuttavia la Fotografia, nonostante la sua relazione apparentemente indissolubile con la Morte, ha in sé sia “il male” sia l’antidoto. Per un verso, infatti, sembra fermare la vita, per un altro, sembra anche l’unico baluardo visivo che, paradossalmente, la salvaguardi dalla sua dissoluzione definitiva. In particolare, è nella fotografia di ritratto che la Fotografia sembra esprimere in maniera particolarmente evidente questa sua capacità di salvaguardia della memoria, del ricordo, restituendoci anche una dimensione per quanto possibile più autentica e privata del “corpo” del soggetto raffigurato che Nadar (pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon) ha definito “la somiglianza intima”:

 

“La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che avvince le intelligenze più elette, un’arte che aguzza gli spiriti più sagaci, e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli… la teoria fotografica s’impara in un’ora; le prime nozioni pratiche, in un giorno…Quello che non s’impara… è il senso della luce… è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate… Quello che s’impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto, è quell’intuizione che ti mette in comunione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza più favorevole, la somiglianza intima.”

Una somiglianza intima alla quale anche l’autore ha costantemente tentato di “dare una forma” attraverso i suoi ritratti, così come i suoi autoritratti. Un’ambizione legittima, quella di desiderare di riuscire sempre a trasferire nell’immagine l’anima, il “corpo” più intimo del soggetto ritratto.

 

C. Savina, P. Mazza, da Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo, s.d.

Un desiderio che ha accomunato nel tempo gli innumerevoli ritrattisti che, sin dall’esordio della Fotografia, si sono cimentati anche a questo genere di immagini. Immagini all’apparenza tanto semplici da realizzare, quanto insidiose. “Corpi” insidiosi, per i quali non è sempre così facile trovare un’adeguata e soddisfacente sintesi visiva, un equilibrio tra le sembianze fisiche del corpo materiale del soggetto raffigurato e le sue attese di resa da quel ritratto. Ritratto che, da sempre, condensa, secondo G. Calvenzi, la comune e universale aspirazione di mostrare agli altri sempre il proprio “corpo” migliore:

 

“Il ritratto fotografico nasce quasi contemporaneamente alla fotografia. E da subito è un genere che riscuote un grandissimo successo: il nuovo mezzo narrativo, molto democraticamente, consente ad un pubblico sempre più vasto di ottenere a costi contenuti un’immagine di sé e di tramandarla alle future generazioni. A partire dal 1850 studi fotografici attrezzati con sale posa, abiti e decori a disposizione dei clienti nascono un po’ ovunque. La tecnica è lenta, le persone vengono messe in posa con gli abiti migliori e i margini interpretativi concessi al fotografo sono molto ridotti. Il ritratto fotografico nasce quindi con stretti legami con la memoria e l’invenzione di sé, con il desiderio di proporsi nel migliore dei modi.”

 

Il ritratto potrebbe inoltre ricordarci, ancora una volta, che la Fotografia – per quanto, all’apparenza, “inconsapevolmente” – non è soltanto un semplice atto tecnico, quanto, come si è già detto anche riguardo ad altri ambiti, in ogni caso, un gesto intenzionale, se non addirittura ideologico. Basti pensare, a puro titolo esemplificativo, anche soltanto alla scelta del momento, del luogo e del soggetto stesso da raffigurare nel ritratto. Selezionando, si opera sempre – e in ogni caso – una scelta. Una preferenza tra cosa sarà “dentro” e cosa resterà “fuori”. Un’opzione che, benché escluda “qualcosa”, questa non sarà, in ogni caso, mai del tutto assente: restando, se non altro, come punto di riferimento, come elemento di un confronto dialettico perpetuo e costante, anche a distanza.

Corpi, dunque, e volti che, al di là delle apparenze e delle relative scelte “politiche” fatte a monte dall’autore, sono sempre e comunque sia una rappresentazione per quanto possibile idealizzata del “corpo” ritratto sia una traccia, una metaforica proiezione anche dell’autore stesso. Il ritratto, ancor più di altre tipologie di fotografie, sembra dunque riassumere in sé questa ambivalenza, ovvero la raffigurazione di un corpo terzo che è, al tempo stesso, anche una sorta di simbolico autoritratto del “corpo” dello stesso autore. Simulacro del ritratto e, insieme, traccia di chi lo ha ritratto. Un’operazione di salvaguardia, di custodia del ricordo tanto del “corpo” raffigurato, quanto dell’autore, dunque.

E, insieme, un emblematico surrogato di un (s)oggetto ormai assente che “resuscita” di volta in volta nell’immagine, tornando “presente” ad ogni sguardo. Una sorta di quintessenza del miracolo tecnico realizzato dalla Fotografia. Il ritratto, in questa prospettiva, è “il” genere di raffigurazione che sembra meglio documentare questa dote “soprannaturale” della Fotografia. Una dote che sembra condensare proprio nel ritratto il tentativo estremo di trascendere la realtà facendo “risorgere” l’assente ormai dissolto nel passato e, forse, anche nel ricordo.

E nella Fotografia e, ancora una volta, in particolare in quella di ritratto, si concentra anche “la” contraddizione tecnologica ricordata da R. Barthes ne “La camera chiara”, ovvero quel controsenso tecnologico che consente alla Fotografia di “attestare” eternamente la presenza di un’assenza. Una “resurrezione” laica, una nuova occasione di far rivivere, attraverso l’immagine, un corpo ormai scomparso: un varco dimensionale tra un prima e un dopo; un metaforico passaggio tra presente e passato; una stregoneria tecnologica capace di trasformare il passato in “presente”. Quella della Fotografia è, dunque, “la” capacità di rendere “presente”, ovunque per chiunque, …un’assenza.

In questa prospettiva, il corpo impresso nell’immagine può compensare quel senso di vuoto, di solitudine e, come ha testimoniato anche l’autore, persino di vertigine e di sconforto di fronte al nulla creato dall’assenza che la Fotografia comunque testimonia e rappresenta. La Fotografia può, quindi, divenire una sorta di strumento magico in grado di dare nuova vita, di far rinascere, in qualche modo, il corpo di volta in volta in essa ritratto. Due facce di una stessa medaglia: un medium bifronte che se, per un verso, sembra interrompere ineluttabilmente il flusso dell’esistenza, per un altro, sembra invece farlo (metaforicamente) rivivere.

Ma, “resuscitando” un’assente, attraverso ogni fotografia prende idealmente vita, come accennato, uno… spettro.

C. Savina, da Il corpo squarcio di luce nel buio, s.d.

Il fantasma di un corpo che pur non essendo là realmente, rinasce comunque ad ogni sguardo posato su una fotografia. Un miracolo tecnico che, nel caso di una persona effettivamente scomparsa, ci “restituisce” – per quanto solo come un simulacro – comunque almeno una raffigurazione dell’assente. Una dimensione dolorosa, quella della perdita, alla quale la Fotografia tenta in qualche modo di sopperire, seppure creando soltanto dei surrogati.

Questa dimensione del dolore e della morte ha attratto, da sempre e non solo nel mondo della Fotografia, molti autori ed artisti. Tra i tanti, si pensi, ad esempio a: J. Saudek, A. Nobuyoshi, J.-P. Witkin e A. Serrano. Artisti tutti molto noti, ciascuno con le proprie specificità, per una ricerca che, per modalità ed espressione, richiama – più o meno esplicitamente, ma, in particolare, nel caso degli ultimi due – l’ambito della medicina legale (come, ad esempio, nella serie “The Morgue” realizzata nel 1992 da A. Serrano). Entrambi sono inoltre accomunati da una deliberata tendenza all’eccesso, alla provocazione estrema, alla dissacrazione. Hanno infatti realizzato opere fotografiche che – per i contesti, per i soggetti e, non ultimo, i corpi o le parti di questi ritratti senza alcun filtro – hanno sovente ricevuto aspre critiche, con l’effetto (falsamente “distorsivo”) di aumentarne, invece, ulteriormente la notorietà. Sono anche autori tacciati di essere persino dei cinici e sfrontati “cacciatori” di pretestuose – e facili? – esche emotive, lanciate per “fare colpo” su un diffuso quanto superficiale e patologico voyerismo morboso. Immagini criticate anche per la scelta dell’esplicito, dell’ostentazione di corpi e/o di particolari anatomici del corpo talora particolarmente crudi, terrificanti e raccapriccianti. Una “strategica” trasparenza, un’assenza di veli, che li ha portati alla realizzazione di immagini nelle quali, non di rado, sono stati raffigurati dei corpi nei quali sembrano deliberatamente esasperati ed esaltati anche l’eventuale “diversità” del soggetto ritratto.

C. Savina, da Simmetrie e asimmetrie (umane), s.d.

A partire da eventuali deformità fisiche dei relativi corpi, di tipo congenito e/o acquisite che siano, talora anche possibili devianze di natura psicologica e/o riconducibili alla sfera sessuale, etc. Una produzione d’autore con un’estetica peculiare, universalmente riconoscibile, al pari di una specie di marchio di fabbrica. Una connotazione formale ed estetica particolarmente evidente soprattutto nelle opere di J.-P. Witkin. Opere singolari, dunque, inclini a proporre corpi e scenari tendenti a veicolare – attraverso l’ostensione insistita di corpi “offesi” – anche una sorta di culto dell’orrido, del deforme e, al tempo stesso, del vulnerabile e dell’effimero. Una tragica rassegna di immagini nelle quali viene riassunta ogni possibile forma di “miseria” del corpo, senza sconti per nessuno. Una nudità, in particolare, come si è appena accennato, quella ritratta da J.-P. Witkin, che è stata ostentata attraverso corpi anomali e abbruttiti e connotata da una visione apocalittica cesellata da una serie di collegamenti tra dimensioni altrimenti antitetiche, come la Vita e la Morte, il permesso e il vietato, il normale e il deforme, l’attrazione e la repulsione e così via.

Una poetica “estrema”, quella di J.-P. Witkin, che l’autore stesso, in una testimonianza esclusiva riportata da G. Celant, descriveva, senza filtri, minuziosamente così:

 

“A partial listing of my interests: physical prodigies of all kinds, pinheads, dwarfs, giants, hunchbacks, pre-op transsexuals, bearded women, active or retired side-show performers, contortionists (erotic), women with one breast (center), people who live as comic book heroes, Satyrs, twins joined at the foreheads, anyone with a parasitic twin, twins sharing the same arm or leg, living Cyclops, people with tails, horns, wings, fins, claws, reserved feet or hands, elephantine limbs, etc. Anyone with additional arms, legs, eyes, breasts, genitals, ears, nose, lips. Anyone born without arms, legs, eyes, breasts, genitals, ears, nose, lips. All people with unusually large genitals. Sex masters and slaves. Women whose faces are covered with hair or large skin lesions and who are willing to pose in evening gowns. Five androgynes willing to pose together al Les Demoiselles d’Avignon. Hairless anorexics. Human skeletons and human pincushions. People with complete rubber wardrobes. Geeks. Private collections of instruments of torture, romance: of human, animal and alien parts. All manner of extreme visual perversions. Hermaphrodites and teratoids (alive and dead). A young blonde girl with two faces. Any living mith. Anyone bearing the wounds of Christ.”

 

E a possibili interlocutori ha risposto con questa dichiarazione:

 

“When people see my work, there is no “gray area” of response. What they experience is either love or hate. People who hate what I make hate me, too. They must think I am a demon or some kind of evil sorcerer. Those who understand what I do appreciate the determination, love and courage it takes to find wonder and beauty in people who are considered by society to be damaged, unclean, dysfunctional or wretched.

My art is the way I perceive and define life. It is sacred work, since what I make are my prayers.

These works are the measure of my character, I am judged by myself, by my contemporaries and, finally, by God. My life and work are inseparable. It is all I have. It is all I need.”

 

Ma, al di là di ogni possibile considerazione anche di ordine etico e morale, come si è detto anche per la pornografia, si tratta comunque di opere che tentano, in ogni caso, “sdoganare” questa morbosa e macabra iconografia del mostruoso, rivestendola di apparente “normalità”.

C. Savina, da L’alba del mondo, s.d.

Vita e Morte unite, dunque, in un incessante, quanto allucinante e spaventoso, vortice visivo.

Vita e Morte che non di rado sono unite insieme anche da un altro, insolito “collante”. Un “corpo” spesso effimero, quanto trasversale, del quale si è già parlato in precedenza e che riemerge in questa nuova e anomala veste, ovvero: la Bellezza.

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Una caratteristica, quella della Bellezza, che, se associata alla Vita, non desta di norma nessuna sorpresa né, tanto meno, alcuna preoccupazione. Può, viceversa, stupire e preoccupare non poco o, comunque, apparire quanto meno singolare pensarla, invece, come una “qualità” della Morte. L’orrido “corpo” della Morte, in effetti, da sempre, ha suscitato una varietà di sentimenti repulsivi nei quali si sono mescolati paura, orrore, pietà, ma, anche, paradossalmente, fascino. Si, anche fascino, attrazione, magari legati al senso del mistero, all’ossessione per la fugacità del tempo, alla fragilità dell’effimero della quale è intrisa l’esperienza umana, etc. Per queste o altre possibili ragioni, usando un’espressione che potrà risultare plausibilmente discutibile, quanto eccessiva, radicale, si potrebbe forse affermare che anche il “corpo” della Morte può palesare una sua bellezza. Una forza attrattiva, finanche “fisica”, che “prende forma” attraverso una vera e propria maggiorazione estetica. Una sorta fotogènia che sembra emergere con ancor più forza in talune specifiche situazioni, come nel caso di certe produzioni artistiche. Per concludere sul tema, si pensi, tra altri comunque possibili, ai già citati esempi delle opere prodotte da A. Serrano e da J.-P. Witkin, per quel che concerne la fotografia, e a “Crash”, il romanzo di J.-G. Ballard, per quanto riguarda l’ambito cinematografico. Ed è proprio in quest’ultimo ambito che il termine fotogènico è stato utilizzato inizialmente e ha cominciato a circolare in maniera abituale, per quanto sia stato originariamente preso in prestito proprio dal mondo della Fotografia, divenendo poi universalmente sinonimo di un soggetto idoneo, per le qualità estetiche, a poter essere ripreso perché, appunto, fotogènico.

L’aggettivo fotogènico, andando all’etimologia del termine, proviene dall’inglese photogenic (composto da photo– «foto-» e –genic «-genico») e dal francese photogénique. Entrambi i termini, originariamente avevano il significato dell’aggettivo italiano fotògeno, ovvero quello di «atto a impressionare un materiale fotosensibile». Il termine fotogènico ha dunque variato il suo significato nel corso del tempo, passando dal riferirsi a una caratteristica specificatamente tecnica alla temuta connotazione estetica dei nostri giorni. Una qualità, che, l’universale e pervasivo mondo dei social, ha reso oggigiorno ancora più “indispensabile”.

C. Savina, da Ritratti vivi, s.d.

Un problema per tanti affatto astratto e per molti di questi, nemmeno arbitrario. Una preoccupazione in crescita esponenziale, a quanto pare, che, rispetto alla dimensione più contenuta e/o più di nicchia del passato, risulta ulteriormente amplificata nell’economia relazionale della rete. Una dimensione nella quale, ad esempio, il possesso o meno di una simile qualità, può avere riflessi significativi sulla propria visibilità e/o (eventuale) autopromozione.

Effetti, conseguenze, che, concretamente, possono tradursi in successo o insuccesso del protagonista delle relative immagini, a prescindere dalla destinazione d’uso alla quale sono, di caso in caso, indirizzate: loisir, portfolios, etc.

C. Savina, da Ritratti vivi, s.d.

La fotogènia condensa quindi un potenziale talora persino strategico, grazie alla sua capacità di amplificazione delle qualità estetiche del protagonista ritratto. Una specie di “arma” non convenzionale, atta concretamente ad “offendere” possibili antagonisti. Un’“arma”, dunque, perché la fotogènia può essere colta “al naturale”, dando un adeguato risalto alla bellezza già presente in ciò (persona o cosa) che viene raffigurata o, all’occorrenza, amplificata o persino “creata”, ove manchi, mediante l’utilizzo di uno dei tanti software dedicati.

La fotogènia, in ogni caso, è di norma considerata un attributo non tanto soggettivo, quanto oggettivo. Una qualità, dunque, un “talento” estetico naturale che, semplicemente, talune cose, così come talune persone, hanno, altre no. Questa qualità, ancor più se è naturale, può essere rilevata, in particolare, nella semplicità, nella naturalezza e spontaneità di una persona. Qualità, queste, che, in fase di produzione o di post-produzione, devono comunque essere adeguatamente rese e valorizzate. In questa prospettiva, tutto, oggettivamene, può risultare fotogènico. Anche la “realtà” può dunque rivelare un suo “lato” fotogènico. Ne è una dimostrazione ormai incessante – e evidentemente contrapposta alla precedente visione “naturale” della fotogènia – la dimensione iperbolica e “sovrannaturale”, sempre più artificiosa e artificiale (sino e oltre la fiction, se del caso) dei media contemporanei. Le loro rappresentazioni non hanno ormai – nel bene e nel male – praticamente quasi più nulla di naturale.

La fotogènia rappresenterebbe, in ogni caso, la qualità – naturale o artificiale che ne sia stata l’origine – in grado di donare persino “l’immortalità” a chi o a cosa la possiede, preservando virtualmente il (s)oggetto protagonista dalla dissoluzione e “resuscitandolo” potenzialmente all’infinito nelle immagini nelle quali sarà di volta in volta raffigurato.

La fotogenia potrebbe quindi salvare l’essere umano dalla Morte, o per lo meno da un’ulteriore morte spirituale. Una funzione “soprannaturale”, che come appena accennato, realizzerebbe attraverso il transfer attivato dall’immagine nella quale il (s)oggetto è raffigurato. Un transfert che, per quanto ovvio, prenderebbe forma solo nel caso vi sia una Bellezza fotogènica. E solo in presenza di una simile forma di amplificazione estetica, che agisca come una profilassi, potrebbe essere salvaguardata la Vita della persona e/o della cosa ritratta in un’immagine, “sconfiggendo” momentaneamente, per lo meno a livello visivo, la Morte.

Ma tornando al rapporto che la Fotografia intrattiene con la Morte, R. Barthes ha anche evidenziato come qualsiasi ritratto, in particolare se la persona e/o il corpo raffigurato è quello di una persona ormai scomparsa, possa configurarsi un gesto speciale, onnipotente, magico anche per le ragioni già accennate, e, a tratti, persino trascendente. Una magia, quella della Fotografia generalmente tesa, non tanto a celebrare la dissoluzione del mondo, quanto a “ridargli la vita”. Un dispositivo simbolico, la Fotografia di resurrezione visiva e, insieme, di conservazione della memoria. Memoria, che, altrimenti, potrebbe irrimediabilmente dissolversi, che fa della Fotografia una strategica protesi affettiva e documentaria. Anche per queste ragioni, nell’immaginario collettivo, la Fotografia, nonostante il suo “ritrarsi”, si conferma tuttora come uno dei più importanti – se non, addirittura, “il” medium privilegiato – per la conservazione del passato. E non solo quello personale.

Una Fotografia che, “congelando” il Tempo, può provocare anche una sorta di disorientamento nell’osservatore, raggiungendo il culmine dell’efficacia del medium.

Un confine estremo, secondo G. Celant, che si realizza allorché:

 

“La fotografia raggiunge la sua massima soluzione solo quando è in grado di ostacolare il flusso inalterato dell’esistente e a trasformarlo in visione pietrificata.”

 

Una funzione strategica, si è accennato, che la Fotografia svolge da sempre, in ogni caso, in modo discreto: senza mai mostrarsi. Una caratteristica testimoniata anche dalle fotografie dell’autore. Si, perché la Fotografia si sottrae sistematicamente, ha aggiunto il semiologo francese per “lasciare spazio” al (s)oggetto, al corpo, all’oggetto, all’ambiente ritratto nell’immagine. E, così facendo, la Fotografia non solo “rende presente” il “corpo” della scena raffigurata, ma la rende anche “al presente”. Al riguardo, R. Barthes ha inoltre paradigmaticamente ricordato che la Fotografia è:

 

“sempre invisibile.”

 

In ogni caso, un’immagine fotografica sembra inoltre non perdere mai del tutto la sua forza documentativa. Una proprietà che non riguarda tanto e/o esclusivamente il (s)oggetto raffigurato nella fotografia quanto la relativa componente temporale. Aspetto, questo, che lo studioso transalpino ha evidenziato ulteriormente, aggiungendo che:

 

“Da un punto di vista fenomenologico, nella Fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione.”

 

Degli esempi rappresentativi, tra i diversi possibili, possono essere le fotografie di gruppo e/o di famiglia (generi ai quali l’autore ha dedicato un interesse particolare e non occasionale).

C. Savina, da Il ritratto di grupppo, s.d.

Si tratta di una parte costitutiva rilevante, planetaria e trasversale del “corpo” poliedrico della Fotografia. Un genere al quale la Fotografia da sempre attinge e si alimenta Ed è anche grazie al contributo incessante della Fotografia, in effetti, se la famiglia continua comunque a confermarsi – pur nelle sue ulteriori formulazioni contemporanee – nel novero delle agenzie di socializzazione storiche, ovvero tra i corpi sociali fondanti anche di questa nostra società postmoderna. Tradizionalmente, è da sempre “la” comunità sociale più diffusa e radicata. Un costante punto di riferimento, anche nelle sue “versioni” contingenti. Un corpo sociale che, nell’immaginario collettivo, continua ancora diffusamente ad essere considerato come “il” corpo sociale per antonomasia. Così è anche per l’autore, che a questa agenzia, così come alle fotografie di gruppo ha dedicato specifici lavori, connotati da tutta una serie di elementi simbolici, di accorgimenti tecnici, di componenti estetiche, etc. Entrambi corpi sociali di rilievo e, insieme, “corpi” essi stessi nel più ampio “corpo” della Fotografia. Parte di un organismo articolato, dunque, “testo” significante e, insieme, documento prezioso e trasversale non solo della storia della Fotografia ma, più in generale, dell’Arte e della Storia della società non solo contemporanea. Senza dimenticare, poi, le “incursioni” di questi come di altri generi anche in altri ambiti, apparentemente anche molto distanti, quali quello dell’Arte concettuale, dei ready made e, non ultimo, delle installazioni. Come potrebbero essere plausibilmente interpretati anche i gruppi realizzati da questo autore. Un tratto distintivo di questo genere di immagini è certamente individuabile nelle pose spesso stereotipate dei soggetti che vi sono ritratti. “Corpi” rituali che applicano precise regole di ingaggio in occasione, ad esempio, di ricorrenze, festività, celebrazioni, etc. Liturgie specifiche, con tanto di mimica, prossemica e pose di rito. Una sorta di elementi di certificazione, di garanzia di prodotto tipico delle relative agenzie di socializzazione e sempreverde collante sociale. Marchi di autenticità e, insieme, un invisibile paratesto narrativo, con tanto di figure formali, ruoli attanziali, valori fondanti, etc., inerenti quello specifico corpo sociale. Una sorta di prodotto culturale universale che, però, anziché essere l’output del sistema organizzato dell’industria culturale, è, di norma, un prodotto fatto in casa.

C. Savina, da Il corpo e la famiglia, il gruppo, s.d.

Un prodotto fai da te che, comunque, ha volumi produttivi di portata, praticamente, industriale.

Una galassia infinita di immagini che raccontando le consuetudini, le interrelazioni interne ed esterne di questi corpi sociali e che “descrive” un mondo in continua evoluzione.

E come tutte le immagini, anche le fotografie di gruppo e/o di famiglia sono una forma di astrazione.

Altrimenti detto: un’opera concettuale.

Astrazioni, dunque, media “bizzarri”, come li definirebbe R. Barthes, che fanno circolare “messaggi senza codice”, che mostrano una realtà comunque “intrattabile”. La loro bizzarria non gli permette comunque di “parlare” senza l’aiuto di un “ventriloquo”, ovvero senza una “voce esterna”. Un altro medium, quindi. Come, ad esempio, un’apparentemente innocua e neutra didascalia esplicativa. Una condizione assurda, di mutismo, che solo un ventriloquo che “parli” al posto dell’immagine fotografica – importando senso di norma dall’esterno e incollandolo “dentro” l’immagine – le permette poi di “parlare”. E “parlando”, magari svelarci le storie dei gruppi raffigurati nell’immagine: la famiglia, gli amici, i colleghi, etc.

La Fotografia è dunque un medium che, come il corpo umano, esiste e funziona, solo grazie e attraverso altri “corpi-organi”, ovvero per mezzo di altri media. Organi di norma “interni”, nel caso del corpo umano. Organi di norma “esterni”, ovvero altri media non contenuti “dentro” l’immagine, invece, nel caso della Fotografia. Elementi esogeni di senso, che concorrono dall’esterno a “dare una forma” e una “voce” ad ogni immagine fotografica. Un’immagine che vive, dunque, proprio attraverso l’intermediazione della ventriloquia mutuata da altri media.

E non c’è alternativa per qualunque tipo di immagine, per uscire dal loro mutismo congenito, se non ricorrere, come accennato, all’aiuto “esterno” di altri media. Nella “casa di vetro” della Fotografia, “dentro” ogni immagine, in sostanza, non c’è di norma nulla, se non si importa del senso dall’esterno. Tutto o quasi quel senso, la narrazione, i valori, etc., arrivano di solito da un’altra parte, posta fuori dall’immagine. Un altrove, un “fuori”, che, di norma, è dunque tecnicamente estraneo all’immagine. E le fotografie di gruppo e/o di famiglia o di altro genere che siano – comprese quelle di questo autore – non fanno, ovviamente, eccezione. Anzi, ne sono proprio una conferma e una rappresentazione emblematica.

Attraverso le “pareti” apparentemente trasparenti di qualsiasi fotografia noi crediamo, infatti, di “guardare dentro” l’immagine.

C. Savina, da La vita che segna, s.d.

Ma, in realtà, quel che osserviamo, non è l’interno ma quello che, dall’esterno, viene riflesso all’interno. Altrimenti detto, anche il “corpo” di una fotografia di famiglia o di una fotografia di gruppo, come qualunque altra immagine del resto, è un corpo muto, senza parola e senza senso predefinito. Sin dalla “nascita”. E può “parlare”, come si è accennato, non con la propria “voce”, bensì soltanto per mezzo di una protesi significante esterna trasfusa dentro l’immagine da un contesto terzo, estraneo all’immagine e posto, come detto, “fuori” dalla fotografia. Potrebbero forse fare, almeno parzialmente, eccezione quelle fotografie di famiglia e/o di gruppo caratterizzate da elementi di forma fortemente stereotipati dei quali si è pure accennato. Ma, in realtà, in assenza di aiuti esterni, senza un senso esterno “incollato” dentro la fotografia di volta in volta interessata – per quanto stereotipato possa essere questo significato importato “dentro” – anche queste immagini (persino nel caso di veri e propri cliché) rimarrebbero, in ogni caso, sostanzialmente mute. Senza questo aiuto esterno, non sapremmo, ad esempio, quando, dove e perché sia stata mai realizzata una certa immagine. Ma non solo, non potremmo, infatti, dare un nome agli eventuali (s)oggetti ritratti al suo interno. Non potremmo quindi dare – al pari di un medico legale impegnato nell’esame post mortem di una salma – nessun dato neanche riguardo alle possibili “cause” dell’evento rappresentato nell’immagine, né, tantomeno, dei corpi ancora anonimi raffigurati “dentro” l’immagine. La Fotografia, quindi, solo dopo essere stata rifornita adeguatamente di senso importato dall’esterno, diviene quella che tutti conosciamo, ovvero uno strumento e un canale di comunicazione per dare finalmente “voce” ai (s)oggetti presenti in un’immagine. Tutti comunque accomunati, senza la ridetta “assistenza esterna”, da una originaria “consegna del silenzio”. E di fronte a tanto mutismo, d’innanzi ad un silenzio così “assordante” non è conseguentemente possibile comprendere di fronte a chi e/o che tipo di rappresentazione ci si trovi. All’opposto, invece, con il sostegno simbolico di altri media – sia testi scritti (quali, ad esempi: degli appunti, delle legende esplicative, ecc.) sia “testi” non scritti (altre immagini, testimonianze audiovisive, descrizioni orali, etc.) – ogni eventuale tentativo di “lettura” dell’immagine, prima condannato ad un esito incerto se non persino fallimentare, assume poi una connotazione di senso più o meno definita e, comunque, ben diversa dal mutismo precedente. Si è infine di fronte ad un’immagine finalmente “parlante” perché non più orfana di senso. Diviene quindi possibile farne anche un’eventuale ricostruzione indiziaria – o un’autopsia, se si preferisce – attendibile del “cadavere” visuale che si sta osservando. Si può, in tal modo, “dare voce”, ad esempio: ai luoghi fisici raffigurati, al senso delle posture delle varie comparse, all’umore generale di un evento e, non ultimo, agli stessi protagonisti ritratti (ad esempio: la mamma, il nonno, il compagno di scuola, etc.).

Tra questi “aiuti”, si pensi, come già accennato. in particolare alla potenza espressiva, alla forza d’urto semantico, di norma inavvertita, di una piccola e apparentemente semplice didascalia. Un “testo” che è quanto mai strategico per la sua determinante funzione di staffetta, di orientamento e ancoraggio semantico dell’interpretazione entro confini più o meno definiti. Ci si potrebbe ora forse anche chiedere, pur correndo il rischio di alimentare qualche sospetto per una sorta di eccesso di relativismo:

C. Savina, da Il ritratto di grupppo, s.d.

Senza tralasciare, accennando la questione della referenzialità, il notevole coinvolgimento emotivo che questi percorsi concettuali tendono a generare sia nei diretti interessati sia nei loro dintorni affettivi.

La camera chiara” di R. Barthes offre, al riguardo, diversi spunti memorabili.

Le immagini di famiglia e/o di gruppo sono quindi anch’esse emblematici quanto trasversali surrogati prodotti dalla Fotografia. Supplenti di altrettanti corpi sociali che, oltre il “ritrarsi” e la relativa “invisibilità” che li accomuna alla Fotografia generalmente intesa, hanno con essa un altro strategico elemento in comune: la cornice. Un ulteriore corpo significante, un delimitatore formale del perimetro “politico” d’interesse, anche quando non sia chiaramente delineata, risulti indefinita e poco o per nulla tangibile. La cornice incarna sostanzialmente il reticolato, il muro di cinta – i confini reali o immaginari – posti a presidio, controllo e difesa del contenuto di senso interno all’immagine. Essa è una sorta di check point “sorvegliato” dove viene controllato ogni transito di senso tra l’esterno e l’interno dell’immagine e viceversa. Un varco e, insieme, un ponte fra le due dimensioni di senso e la relazione dialettica tra l’interno dell’immagine con quanto è e veicola significato al di fuori di essa. Una dialettica e una contrapposizione ineliminabili, incessante e, in ogni caso, strategici per assicurare l’intangibilità del senso acquisito (almeno “sino a nuovo ordine”, come, ad esempio, una risemantizzazione parziale o totale del senso contenuto nell’immagine). Una interrelazione strategica perché, senza di essa, l’interno dell’immagine non potrebbe avere né senso “certo”, così come, all’opposto, l’esterno non potrebbe, ad esempio, confermare e consolidare la relativa dimensione significante. Un senso che si nutre, si arricchisce e si consolida vicendevolmente, proprio grazie alla relazione tra ciò che appare essere “dentro” e ciò che sembra essere rimasto “fuori”. Un confronto dialettico tra elementi diversi, i quali, con gradienti e in una relazione sinergica di volta in volta eventualmente anche variabile contribuiscono a definire lo scarto di senso, la relazione gerarchica e funzionale, etc. tra ciò che è “dentro” e ciò che è “fuori”. Ė questo, in sostanza, il contenuto di senso che custodisce e difende nei suoi confini, nel suo perimetro – formale o, talora, anche soltanto immaginario e/o ipotetico – una cornice. Le fotografie di gruppo e/o di famiglia, analogamente a qualsiasi altra immagine, anche in questo caso, non fanno eccezione. Comprese, per quanto ovvio, quelle di questo autore.

Così come, anche per loro, vale la riflessione di R. Barthes che evidenzia una delle caratteristiche distintive della Fotografia, ovvero la forza del potere di autentificazione. Un potere di autentificazione che mette in subordine quello di raffigurazione. Raffigurazione attraverso la quale la Fotografia “registra” a suo modo l’essenza visiva del mondo. Un’essenza visiva che, per quanto differita a livello temporale, supera la mera riproduzione del reale, andando oltre. Un andare oltre che ripropone il passato presentandolo addirittura “al presente”. La Fotografia diviene, in tale prospettiva, una specie di fabbrica degli spettri, producendo ininterrottamente soltanto una sorta di corpi fantasma. Corpi fantasma paradossalmente immersi in un eterno presente fittizio. Un presente ipotetico, dunque, quanto immutabile e senza futuro, del quale la Fotografia ci mostra perennemente il “cadavere” del corpo del relativo referente originario. Attraverso questa ostensione nella “camera ardente” raffigurata in ogni immagine, la Fotografia alimenta l’emergere di una dimensione straniante, dove il “reale” è sempre assente. Un “reale” scomparso e sostituito soltanto da simulacri visivi. Una specie di follia percettiva, una vera e propria allucinazione visiva che – attraverso questo medium “folle” che chiamiamo Fotografia – offre allo sguardo “corpi” ormai svaniti, virtualmente reificati e resi presenti… “al passato”. Ne deriva, ha sintetizzato R. Barthes, che:

 

“La Fotografia diventa allora […] medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo.”

 

Ogni immagine, inoltre, è per sua natura sempre una paradossale rappresentazione di secondo grado che, nella migliore delle ipotesi, può far presupporre – senza comunque poterlo garantire con certezza assoluta – un eventuale rapporto con un altrettanto eventuale referente originario, una possibile fonte concreta, “reale”.

Un collegamento, una relazione ipotetica, dunque, tra un prima e un dopo, tra un originale e una sua probabile copia, che, inevitabilmente, sfocia in una paradossalità. Una paradossalità generata dalla coesistenza nell’immagine-copia, come emblematicamente avviene in ogni fotografia, di un (s)oggetto comunque altro, differente dall’originale, seppure nell’apparentemente indistruttibile vincolo di verosimiglianza con l’analogo originario. Un’assurdità insita in ogni immagine – fotografie comprese, ovviamente – proprio a causa dall’amalgama in ciascuna di esse di un’immagine altra, diversa e comunque anche temporalmente più o meno distante, del suo apparente (s)oggetto originario. L’idea diffusa della verità come presunta somiglianza fedele tra una rappresentazione e il suo referente, forse in nessun ambito è così tanto pregnante e insistente come nel mondo delle immagini. Nella Fotografia, considerata “il” vero ed inossidabile “duplicato” del reale, sembra poi riecheggiare in maniera ancor più evidente perché non offre, in assoluto, alcuna risposta definitiva che dia una certezza assoluta. Questa indeterminatezza è ovviamente ulteriormente amplificata nel caso di immagini che hanno l’eventuale “sfortuna” aggiunta di non riprodurre fedelmente le apparenze del relativo referente originario. Del resto, se così fosse, ovvero se l’immagine fosse la copia esatta del suo originale, non esisterebbe alcuno “scarto” tra la copia e l’originale e non vi sarebbe più alcuna differenza tra di loro.

Una questione, questa della verosimiglianza della riproduzione rispetto alla realtà originaria che, nel caso specifico dell’ambito artistico, perde – o, comunque, cambia in maniera significativa – valore, perché, per un autore che ricrea il “reale” la verità si può, per così dire, “sacrificare”, sostituendola con l’emergenza di una dimensione altra, che tende a trascendere il reale concreto al quale fa eventualmente riferimento l’immagine (ad esempio un quadro, una scultura, etc.). Una dimensione differente, non di rado caratterizzata dalla visionaria “inattualità” di chi immagina persino senza aver mai prima visto e conosciuta la “realtà” che riecheggia nelle opere che realizza. La compresenza, inoltre, del dato originario e di un relativo piano concettuale nelle relative copie rende ancor più critici i rapporti di dipendenza tra queste differenti dimensioni. L’immagine, in ogni caso, è sempre una “immagine di”, ossia un’immagine di qualcosa che rinvia comunque alla propria origine. Analogamente, non si ha un’immagine se non si “ricalca” una qualche realtà di idee o di (s)oggetti. In altri termini, se la realtà non fuoriesce da sé stessa e non crea qualcosa che è altro da sé. E la riproduzione, la provenienza e la discendenza costituiscono, quindi gli ambiti metaforici di riferimento privilegiati per ragionare intorno alla creazione di un’immagine, dato che ogni riproduzione tende comunque a creare un’indissolubile “consanguineità” con la fonte originaria e, così facendo, pone le basi per la creazione di un’ulteriore immagine, ovvero la suaccennata: immagine di. Anche le immagini dell’autore sembrano quindi ricordarci – ancora una volta, nel caso ce ne fosse bisogno – che anche la Fotografia, come qualsiasi altra immagine, se è intesa come ideale metafora dell’esistenza, non si fonda su “punti fermi”. Anch’essa è circondata di fantasmi, simulacri, tracce labili, nel caso migliore di semplici apparenze. Non esisterebbe, quindi, più nulla di certo, tanto meno una sola verità, bensì, per quel che possono servire, delle eventuali, possibili “versioni” di quest’ultima. L’idea di verità, in questo ordine di idee, è divenuta una sorta di chimera inafferrabile. In altre parole – chiudendo il cerchio con quanto scritto in precedenza anche a proposito della destinazione del percorso di ricerca verso la conoscenza di questo autore – la verità diviene un’apparenza, peraltro momentanea, tra tante altre ugualmente ipotizzabili. Per di più, si tratta di un’apparenza senza più alcun valore. Anche la verosimiglianza dell’immagine fotografica con il “corpo” originario del quale sarebbe un’eventuale copia, alla prova di fatto si dissolve nel nulla. Sopravvive solo una sorta di intento visionario. Un sogno più profondo, più intenso, che tenta di trasformare un “impossibile” in un non incredibile. E la cennata verosimiglianza dell’immagine fotografica – che prova schizofrenicamente a tentare di rendere verosimile l’inverosimile, tentando di “dare forma” di verità e di concretezza al nulla – è soltanto pura immaginazione. È, in generale, il paradosso ingannevole veicolato da qualsiasi immagine. Un paradosso, si ribadisce, ulteriormente accentuato nella Fotografia che, come in una sorta di gioco perverso, sembra poter garantire il massimo della verosimiglianza anche quando, in realtà, offre soltanto il massimo della finzione. In quest’ottica la riproduzione della “realtà” è in subordine. Un supplente, ossia una sorta di “verità mimetica” del (s)oggetto originario. Un’astrazione e uno slittamento concettuale che cambia lo status dell’immagine da sinèddoche e/o metonimia piuttosto che analogon. Un analogon che prende a prestito dalla concettualizzazione una possibile veridicità che rinvii a quanto denota o significhi. Una concettualizzazione che mette in relazione il processo interpretativo delle immagini con l’ambito linguistico. Un percorso interpretativo che rinvia al c.d. nominalismo, secondo il quale il collegamento tra segni e significati, andando oltre la derivazione dall’originale, è essenzialmente arbitrario. Ciò nonostante, secondo l’analisi semiotica la doppia idea che convive in ogni segno, ovvero quella del rappresentato e della sua rappresentazione, tenderebbero a conservare un inevitabile legame con il segno naturale pur nell’indispensabilità del segno artificiale. Un segno artificiale, distinto dal (s)oggetto originario, ma irrinunciabile per la raffigurazione. Una raffigurazione, magari insoddisfacente, perché oscilla tra un’icona e un feticcio, che, in ogni caso, veicola il “corpo” dell’immagine che il destinatario finale poi osserverà. Una mimesi contrastante, posticcia, finanche antitetica, insita in ogni immagine, dunque. Un contrasto non riducibile alla sola divergenza fra una rappresentazione simile o dissimile, dato che ogni immagine può tendenzialmente conservare qualche eventuale segno della forma, delle fattezze del “modello” originario. Conseguentemente, almeno in superficie, almeno in apparenza, in ogni riproduzione, fotografie incluse, continua comunque incessante a riverberarsi il referente originario. All’opposto, l’eventuale prevalenza della non somiglianza determina una frattura irreparabile tra l’immagine finale e il relativo referente di provenienza. In questo caso, per creare un eventuale relazione con il (s)oggetto originario, l’immagine rinvia all’accennato nominalismo. A seguito di questo trasferimento interpretativo, l’immagine da ontofanica diviene semiologica.

Una dimensione interpretativa che, anche accettando l’eventualità dell’obiettività della raffigurazione rispetto al suo referente originario, tende generalmente ad associare l’interpretazione a fatti arbitrari, analogamente a quanto avviene con la scrittura e la parola. L’immagine diviene, pertanto, un segno che non ha più una relazione ontologica con il “corpo” del suo referente originario.

Scriveva al riguardo J.-J. Wunenburger:

 

“Nel segno, l’immagine rinvia in modo convenzionale a una certa identità rappresentativa che le è connessa, in quanto il rappresentante o il significante assicurano prima di tutto una funzione denotativa. Nel simbolo, il nesso significante-significato fa appello a un metalinguaggio che arricchisce il senso proprio con un senso figurato.”

 

Per tale ragione, un simbolo non è una traccia innocente e neutrale ma un elemento che conferma che qualcosa che appare in esso contiene anche il significato di ciò che raffigura. Tuttavia, non obbligatoriamente un’immagine è sempre “oggettivamente simbolica”, nel senso che essa significa qualcosa soltanto per chi eventualmente lo presuppone. Ciò detto, il valore simbolico del “corpo” dell’immagine dipende comunque più dallo sguardo di chi la osserva che dalla cosa vista in sé. L’interpretazione di qualsiasi cosa vista in un’immagine, in definitiva, è più imparentata con la coscienza che non con la realtà delle cose stesse. E, al riguardo, la produzione di questo autore, comprendendo anche molte immagini “irreali”, può rappresentare un esempio rappresentativo.

Ognuna di queste mimesi, inoltre, ognuno di questi “corpi” fotografici – rievocando l’ipotetica creazione di una realtà secondaria, sostanzialmente, una finzione – rinvia inevitabilmente anche al celebre mito della caverna di Platone. Un mondo irreale, una realtà immaginaria, che, di nuovo, rende particolarmente critica la relazione di quello che l’immagine mostra con il referente originario. Un universo visivo fittizio, un’astrazione concettuale alla quale può risultare talora arduo attribuire lo status di traccia (sensibile), talora persino di un eventuale, possibile collegamento con l’esistente, con il “vero” originario. Un altro da sé che non è una semplice, “passiva” raffigurazione, ma, all’opposto, è sempre una rappresentazione “attiva”, un medium attraverso il quale si riordina instancabilmente il proprio universo simbolico. Un’attività incessante e onerosa nella fitta, intricata e immensa foresta di segni e di senso che connota quest’era della relatività del visibile.

C. Savina, da Il corpo indefinito, s.d.

Un reticolo significante nel quale è convenzionalmente consigliato tentare di interpretare ogni segno come parte di una teoria di galassie di senso con la consapevolezza, già accennata, che, piuttosto che certezze, potrebbero invece risultare soltanto innumerevoli potenziali verità più o meno latenti. Tra queste, quella relativa alla tratteggiata questione mai definitivamente conclusa relativa alla capacità – o meno – della Fotografia di “duplicare” il reale. La “verità” che ne emergerebbe, tenendo conto dell’accennata perenne dissonanza tra raffigurazione finale e la fonte originaria, confermerebbe non tanto quanto la Fotografia sia in grado di riprodurre il “reale”, bensì proprio l’esatto contrario, ovvero l’impossibilità assoluta di replicare la “realtà”.

In questa “tara”, in questo “handicap”, risiede la paradossalità anzidetta e, insieme, l’inquietudine e l’incessante fascino della Fotografia (inclusa quella dell’autore).

All’opposto, un disegno, una scultura, un quadro, pur mostrando apparentemente una forte somiglianza con cosa riproduce, si mostra sempre per quel che è, ovvero un artefatto e la sua, connaturata, natura soggettiva e, dunque, soltanto, rappresentativa. La Fotografia, al contrario, sorprende e stupisce sempre allorché “si scopre” questa natura soggettiva e rappresentativa. Una “scoperta” finanche straniante di fronte ad un medium che, sebbene tenti incessantemente di creare dei legami con il reale concreto, in assoluto, non vi riesca affatto. L’aspirazione di fondo della Fotografia può essere quindi reindirizzata nella demiurgica e comunque strategica rappresentazione secondaria del mondo. Una “realtà” di secondo grado che, almeno apparentemente, sembra “vera”, come se fosse un reale di primo grado.

Anche per tali ragioni, secondo M. Cacciari il mondo della Fotografia è un mondo “tutto umano”. Un “corpo” artefatto (ri)creato di sana pianta dagli esseri umani, perfettamente in linea con l’aleatorietà e l’astrattismo dei nostri tempi.

Considerazioni, anche queste ultime, che riguardano, per quanto ovvio, anche la “casa di vetro” simbolicamente condensata in ognuna delle fotografie di questo autore.

Una casa anch’essa “bizzarra”, che, come accennato, attraverso le sue pareti “trasparenti” ci mostra o, meglio, “riflette”, al pari di un’allucinazione, non l’interno ma l’esterno. Un mondo esterno, una contaminazione aliena, che, metaforicamente, comprende anche chi osserva, con tutto il suo bagaglio di senso, valori, etc. Una sorta di subdolo Cavallo di Troia che, una volta entrato in casa, se ne impossessa e, prendendone il controllo, veicola poi senso di norma importato dall’esterno dell’immagine. Un’invasione e un compromesso che la Fotografia “deve” in ogni caso accettare, perché, si è detto, senza questa infrastruttura esogena di significati, potrebbe restare irrimediabilmente muta. Magari intrisa anche di Bellezza, come tante immagini, ma, comunque silente, …aleatoria.

Roma, 13 Dicembre 2021

G. Regnani

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Gallery (integrale)

C. Savina, da Corpo scolpito, s.d.

C. Savina, da Corpo scolpito, s.d.

C. Savina, da Il corpo indefinito, s.d.

C. Savina, da Il corpo indefinito, s.d.

C. Savina, da Corpi – Schermata, s.d.

C. Savina, da Corpi – Psicoanalisi, s.d.

C. Savina, da Corpi – Psicoanalisi, s.d.

  C. Savina, da Corpi mescolanza, s.d.

  C. Savina, da Corpi mescolanza, s.d.

 C. Savina, da Il punto essenziale (seno freccia), s.d.

 C. Savina, da Il punto essenziale (seno freccia), s.d.

C. Savina. da Il mare oltre me, s.d.

C. Savina. da Il mare oltre me, s.d.

C. Savina, da La vita che segna, s.d.

C. Savina, da Simmetrie e asimmetrie (umane), s.d.

C. Savina, da Sculture viventi, s.d.

C. Savina, da Sculture viventi, s.d.

C. Savina, da Il corpo nella danza, s.d.

C. Savina, da Il corpo nella danza, s.d.

C. Savina, da Il corpo e la famiglia, il gruppo, s.d.

 C. Savina, da Progetto sul ritratto “Come mi vedono gli altri”, s.d.

C. Savina, da La fine della pellicola, Vietato!, s.d.

C. Savina, da La fine della pellicola, Vietato!, s.d.

C. Savina, da Ritratti vivi, s.d.

C. Savina, da Ritratti vivi, s.d.

C. Savina, P. Mazza, da Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo, s.d.

C. Savina, P. Mazza, da Frazioni, totalità. Pelle, pellicola, corpo, individuo, s.d.

C. Savina, da Il corpo squarcio di luce nel buio, s.d.

C. Savina, da Il corpo squarcio di luce nel buio, s.d.

C. Savina, da L’alba del mondo, s.d.

C. Savina, da L’alba del mondo, s.d.

C. Savina, da L’importanza del sesso, s.d.

C. Savina, da L’importanza del sesso, s.d.

C. Savina, da I limiti del corpo, s.d.

C. Savina, da I limiti del corpo, s.d.

C. Savina, da Il corpo tra luce e materia, s.d.

C. Savina, da Il corpo tra luce e materia, s.d.

C. Savina, da Presenze-assenze, s.d.

C. Savina, da Presenze-assenze, s.d.

C. Savina, da Schiene, s.d.

C. Savina, da Schiene, s.d.

C. Savina, da Il ritratto di grupppo, s.d.

C. Savina, da Il ritratto di grupppo, s.d.

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CORPO E FOTOFRAFIA – C. Savina. Un corpo aleatorio. Sguardi nella “casa di vetro” della Fotografiaultima modifica: 2022-01-01T00:02:30+01:00da
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