Le terribili immagini di Abu Ghraib
gerardo.regnani@tin.it
06/06/2005
Le immagini relative alle crudeltà commesse dai secondini ai danni dei prigionieri detenuti nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, sono tornate di recente agli onori della cronaca in relazione ad alcuni sviluppi delle vicende giudiziarie ad esse collegate. Ma non è dell’aspetto legale che qui ci occuperemo, né di altri aspetti relativi alle questioni (come quelle politiche, ad esempio) che quella guerra ha sollevato. Il pretesto offertoci dal loro riemergere sembra poter essere utile, piuttosto, per riflettere sulle tracce che ci hanno o dovrebbero eventualmente averci lasciato queste immagini.
La riflessione si ispira ad uno scritto di Roland Barthes (1915-1980) intitolato appunto “Fotografie-choc” e contenuto, insieme ad altri testi scritti tra il 1954 e il 1956, nella celebre raccolta Miti d’oggi. Il libro fu pubblicato in Francia nel 1957, successivamente tradotto in italiano dall’Editore Lerici nel 1962 e riedito da Einaudi nel 1974. Soggetto dell’analisi barthesiana furono, anche in quel caso, delle immagini relative ad eventi cruenti, benché appartenenti ad un genere di reportage che potremmo definire, oltre che diverso, più “tradizionale” rispetto a quello proveniente dall’Iraq, praticamente “fatto in casa” da alcuni degli stessi attori protagonisti; aspetto, questo, che rappresenta una delle peculiarità di queste immagini.
Nel suo breve saggio Barthes distingue le immagini di cui tratta, innanzi tutto, in due gruppi, ovvero: quelle realizzate da un fotografo (reporter?), da una parte, e quelle (generiche) “di agenzia”, dall’altra. Quest’ultima tipologia, seppure con qualche forzatura, sembrerebbe potersi adattare alle immagini realizzate nella prigione irachena e poi circolate, praticamente in tutto il mondo, grazie anche all’opera amplificatrice della rete. Di fatto – escludendo, in questa sede, un eventuale discorso inerente plausibili “regie” occulte – non si è trattato di un singolo “autore” che, materialmente, ha eseguito le riprese, bensì di diversi che, in varie circostanze, hanno realizzato queste impressionanti fotografie. Una distinzione importante, se paragoniamo queste riprese ad un reportage “classico” realizzato da un professionista, che può aiutarci a comprendere meglio l’insieme dei segni lasciati da queste immagini sull’immaginario collettivo.
Secondo Barthes, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad immagini realizzate da un “comune” reporter, sebbene talune fotografie vengano realizzate con lo specifico intento di impressionare i suoi destinatari, esse non sempre riescono nel loro intento proprio perché risultano sovente compromesse dalla loro intenzionale componente narrativa di fondo. L’autore, sostituendosi premeditatamente allo sguardo dell’ipotetico spettatore finale, tenderebbe inevitabilmente ad enfatizzare il “suo” racconto al punto da poter far sembrare eccessivamente costruita l’eventuale mostruosità “documentata” dalle fotografie. In tal modo, poche di queste riuscirebbero davvero a produrre un autentico shock, limitandosi piuttosto, nella generalità dei casi, solo a significarlo. Sono immagini che, diversamente da quanto sembrano veicolare quelle prodotte nel penitenziario di Abu Ghraib, risultano sovente troppo efficienti, troppo ingegnose per poter emozionare chiunque indistintamente.
Il fenomeno, se osservato da una prospettiva mcluhaniana, parrebbe delineare, peraltro, i contorni di un medium “caldo”, incline a non lasciare ai suoi destinatari molti spazi interpretativi da completare, piuttosto che uno “freddo”, in grado, invece, di stimolare un esteso contributo partecipativo da parte dei soggetti coinvolti nella visione.
Le “fredde” immagini della galera irachena, nonostante manchino proprio di quella perfezione caratteristica di un lavoro ben composto – quale potrebbe essere un qualsiasi reportage “tradizionale” – sembrano, tuttavia, molto più adatte di altre a stimolare la nostra attitudine al giudizio. Differentemente, infatti, da lavori sovrabbondanti di suggerimenti, le immagini prodotte in Iraq non sembrerebbero sempre ed altrettanto gremite di elementi di riferimento e, perciò, parrebbero consentirci una maggiore libertà ideativa, consentendoci di costruire più liberamente una “nostra” storia personale, meno vincolata dalle indicazioni narrative dell’autore originario. Una libertà di invenzione che si alimenta anche della natura (solo apparentemente) “ordinaria” di queste immagini così inquietantemente vicine ad un “banale” – per quanto macabro – album di famiglia. Le immagini di quelle vessazioni fisiche e psichiche non sembrano (superficialmente, s’intende) vincolate a priori da un preconfezionato ed inalterabile obbligo all’accondiscendenza ideologica, tutt’altro; grazie alla loro “semplicità” di facciata ci provocano, costringendoci, anzi, a schierarci contro quell’orrore tanto concettuale quanto materiale. Ci invitano, dunque, a completare quella terribile narrazione della quale abbiamo soltanto delle “tracce” fotografiche. Delle impronte “mute” che ci chiedono di partecipare, integrando la frammentaria narrazione visuale che ci è stata offerta senza essere già stata, in precedenza, fatta del tutto propria dai suoi “autori reali”.
Ciò detto, i creatori di queste immagini, plausibilmente, non intendevano né spiazzare né turbare il “loro” pubblico, al contrario cercavano la “divertita” compartecipazione di un’audience immaginaria che, in luoghi e momenti differenti, avrebbe poi visto queste riprese. C’è stata, quindi, una tendenza a voler riassumere in queste scene raccapriccianti i momenti topici di una “allegra” vita carceraria, benché, a differenza di opere con maggiori pretese narrative, non si intraveda un’accanita insistenza sul “momento più raro di un movimento” anche se, di fatto, di istanti pieni di eccessi, in realtà, si è trattato.
In ogni caso, uno degli elementi caratteristici di queste agghiaccianti icone continua ad essere l’assenza apparente di una “costruzione” di fondo, motivo per cui gli attimi congelati nelle inquadrature non sembrano, almeno ad un primo sguardo, essere particolarmente meditati, analogamente ai tanti altri ritagli della “realtà” che spesso intravediamo più o meno distrattamente nel turbinio massmediatico contemporaneo.
Queste immagini sono, però, sembrate in grado di sopravvivere al disattento ed effimero interesse dei più, smuovendo qualcosa – un humus culturale ed ideologico preesistente, ovviamente – che si è alimentato, appunto, dell’orrore segnalato da queste “testimonianze”. Un effetto, si è detto, paradossalmente enfatizzato proprio dalla non sempre lineare leggibilità di molte di queste immagini, la cui essenza scandalosa, in qualche caso, deve essere ricercata e perfezionata da ciascuno di noi, piuttosto che essere già impeccabilmente preconfezionata da qualcun altro. In questa ovattata sinergia, in questo impercettibile contratto con lo spettatore finale, si delinea ancor più marcatamente l’agghiacciante “fotogenia” di queste immagini. Una capacità di resa che si nutre dell’incredulità del pubblico che, dopo aver “interpretato” quanto ha visto, tende comprensibilmente a trasalire di fronte al terribile significato di simili visioni.
Queste fotografie sembrano, inoltre, tanto più efficaci rispetto ad altre più ambiziose proprio per la loro natura di istantanee intermedie – mediane, potremmo dire, ove la medianità sarebbe da considerarsi, secondo la critica bordieuiana, l’anima più profonda ed autentica della fotografia – perennemente in bilico tra gli estremi di una schiacciante referenzialità dell’immagine, per un verso, e l’enfatizzazione simbolica dell’evento rappresentato, dall’altro. Nel caso di Abu Ghraib, questa intesa sinergica ha registrato la convergenza di elementi di rilievo quali la tangibile letteralità delle raffigurazioni e l’integrazione narrativa che, in solitaria o attraverso il “rinforzo” mediatico, è stata poi fatta da coloro che hanno visto queste riprese.
Il completamento che queste immagini – una versione “fredda” del medium fotografico, si ipotizzava – è stato reso certamente più denso anche dalla distanza di quelle “pratiche” dal fare comune di tanti di noi, dalla “lontananza” non solo simbolica di molti spettatori da quell’inferno reale ed intellettuale.
La naturale ambiguità della fotografia imponendo, comunque, il coinvolgimento di chi “vede” ha fatto il resto, stimolando, in questo caso, il desiderio di chiarire, di comprendere appieno il perché del pathos, della drammaticità estrema di questi “documenti” visuali. Il giudizio critico successivo è il frutto di una cointeressenza che, rendendo protagonista chi guarda queste immagini, attenua la funzione demiurgica – creatrice ed ordinatrice – del fotografo originario e, più in generale, della fotografia nel suo insieme, amplificando, quindi, la compartecipazione dell’osservatore che non trovandosi di fronte ad un racconto già tutto scritto potrebbe sentirsi coinvolto nella funzione narrativa.
Racconto che pur offrendoci solo un’impressione lacunosa di quella raccapricciante dimensione ci pone, in ogni caso, nella condizione di poter ben immaginare, seppure da lontano, l’orrore complessivamente veicolato da quella comune e pervasiva estensione della mente che è, in definitiva, la protesi fotografica.
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