Fotografia, comunicazione, media e società

Social network e Fotodinamismo

La fotografia (im)mobile. L’attualità di una visione critica* – 07.08.2013 in evidenza

 

Come è noto, la battaglia del Futurismo contro il “passatismo” si è avvalsa anche dello storico contributo di una delle sue espressioni più celebri e peculiari: il Fotodinamismo. La relazione con il Futurismo non é stata però delle migliori, a causa dell’iniziale avversione dei pittori futuristi, plausibilmente alimentata dalla loro non piena consapevolezza delle potenzialità di questo nuovo medium, sebbene il Fotodinamismo abbia anche favorito una sorta di  metadiscorso sulla fotografia in un periodo cruciale per le Avanguardie storiche.

 

Ma delle Fotodinamiche e del loro valore aggiunto, cosa rimane ora nella dimensione magmatica e rizomatica del cyberspazio? In particolare, resta qualcosa di quell’esperienza nel fiume di fotografie che inonda quotidianamente i social network?

 

Tenterò di dare una prima possibile risposta a questi interrogativi attraverso una breve serie di considerazioni intorno ad alcuni importanti riferimenti storici, tecnici e teorici che hanno interessato il Fotodinamismo e un primo sguardo su quell’emblematico medium tra i media che è tuttora, anche nel web, la fotografia.

 

 

 

* Questo testo è un ampio estratto – senza alcuna pretesa di esaustività e/o di sistematicità.- di un mio intervento al Convegno Internazionale intitolato “Eredità e attualità del Futurismo”, svoltosi l’11 e 12 aprile 2013 presso il Centro culturale Elsa Morante, uno spazio polifunzionale situato in Piazzale Elsa Morante nel quartiere Eur Laurentino in Roma. Il convegno è stato organizzato da Giancarlo Carpi e Antonio Saccoccio. A tutti loro un sentito ringraziamento per l’opportunità e l’ospitalità.

 

*  *  *

 

Un importante riferimento per chi si occupa delle Fotodinamiche è il testo di A. G. Bragaglia  – con il quale ha collaborato il fratello Arturo – dedicato al Fotodinamismo, a lui ispirato dal Manifesto Tecnico dei Pittori Futuristi del 1911 (Bragaglia 1980: 13). Con la pubblicazione di quel testo il Fotodinamismo, contrapponendosi ai postulati estetici del passato e richiamando una prossimità con le altre Avanguardie storiche europee, ha consolidato ulteriormente il suo apporto al Futurismo divenendo una peculiare e specifica componente della fotografia futurista, caratterizzata anche da una sorta di dimensione surrealista ante litteram, successivamente riconosciuta anche da André Breton.

 

Al di fuori del Fotodinamismo, la fotografia è stata allora comunque diffusamente usata dai futuristi sia quale strumento per documentare le loro iniziative nella scena culturale di riferimento sia per promuovere una specifica e talora fortemente simbolica immagine di sé: emblematico, al riguardo, è il caso della “foto-performance”, divenuto un caratteristico mezzo di raffigurazione della “realtà” in chiave futurista.

 

Proseguo riproponendo, innanzitutto, la definizione di “dinamismo” di A.G. Bragaglia, che, così l’ha definito: “V’è il dinamismo effettivo, realistico, degli oggetti in evoluzione di moto reale – che, per maggior precisione, dovrebbe esser definito movimentismo – e v’è il dinamismo virtuale degli oggetti in statica del quale s’interessa la Pittura Futurista” (ivi, 13).

 

Questa definizione è per l’autore di fondamentale importanza ed è per tale ragione che aggiunse anche: “Il nostro è movimentismo, tanto che, se non si fosse voluto precipuamente notare il dinamismo interiore della Fotodinamica, questa avrebbe dovuto dirsi Fotomovimentistica o Fotocinematica” (ivi, 13).

 

Considerati questi suoi riferimenti, non sorprende che l’intento dichiarato dell’autore fosse quello di realizzare un’autentica “rivoluzione”, capace di mutare radicalmente l’idea di fotografia, liberandola dal peso di una concezione ormai percepita come qualcosa di arcaico e banale, facendone evolvere il ruolo e, di conseguenza, elevandone davvero le capacità espressive al rango di arte.

 

Secondo Bragaglia, infatti, la possibilità della fotografia di evolvere da mero mezzo tecnico per la riproduzione automatica del reale in un veicolo di espressione artistica era incondizionatamente legata al rifiuto della “sua” funzione oggettiva alla quale opporre, piuttosto, un diverso status fondato su un percorso del tutto astratto, intellettuale e non necessariamente connesso con la realtà. Era stata dunque attuata una sottomissione della strumentazione tecnica alle intenzioni politiche sostenute da questo teorico del Fotodinamismo.

 

Il conseguentemente prezzo da pagare avrebbe dovuto essere la dissoluzione delle modalità di rappresentazione pregresse, fondate sulla comune concezione della fotografia come “specchio del reale”, congelato nella popolare forma dell’istantanea, ovvero, secondo  un sentire diffuso, la fotografia tout court.

 

Partendo da questa premessa, nella “realtà” contingente della rete, i social network, con il loro portato innovativo e talora potenzialmente rivoluzionario – alimentato di norma “dal basso”, piuttosto che calato e/o imposto “dall’alto” – possono verosimilmente rappresentare un’utile e peculiare punto di riferimento anche sull’attualità e sull’eredità del pensiero critico di A.G. Bragaglia (benché, in questa prima fase, non siano stati sondati in modo particolarmente ampio e sistematico).

 

Credo, infatti, che possa considerarsi ormai comunemente condivisibile il fatto che in più occasioni i social network abbiano dato prova – con capacità crescenti e tipiche di quel metamedium che è Internet, talora persino in contrapposizione con altri media tradizionali (radio, tv, giornali: i c.d. old media, in sostanza) – di poter offrire valide rappresentazioni di quella dimensione del reale che viene comunemente definita come la “vita vera” o, come direbbe Bragaglia, la “vita viva”. Una dimensione vibrante, quella immaginata anche da questo autore, distante tuttavia dalla “oscena e brutale” verosimiglianza raffigurata nella staticità della comune fotografia.

 

Tale prospettiva assume una connotazione ancor più significativa allorché si consideri che nelle Fotodinamiche di Bragaglia la raffigurazione del moto dei corpi, come ha evidenziato Filiberto Menna, si è avvalsa di “mezzi linguistici non pittorici”. Infatti, optando tra la rappresentazione del moto virtuale, come nel caso “obbligato” della pittura futurista, e quella del moto reale, l’ideatore del Fotodinamismo ha preferito per quest’ultimo, concentrando il suo interesse su quello che ha definito, come detto, il “movimentismo” (ivi, 210) 

 

Il Fotodinamismo, quindi, è stato ideato e “provato” non solo come un semplice, quanto “giusto” processo creativo ma, nella prospettiva di A.G. Bragaglia, addirittura necessario.

 

Nonostante ciò, come è noto, le critiche non si fecero certo attendere, tant’è che le relazioni tra il Futurismo e il Fotodinamismo – e, più in generale, tra il Futurismo e la fotografia nel suo insieme – diedero vita a non pochi contrasti.

Un rapporto difficile, caratterizzato dalla decisa avversione verso il medium tecnologico da parte di esponenti di rilievo della pittura futurista. A titolo esemplificativo, si ricorda soltanto il noto invito scritto di Boccioni a Sprovieri del 4 settembre del 1913: “Mi raccomando[,] te lo scrivo a nome degli amici futuristi, escludi ogni contatto con la fotodinamica del Bragaglia, una presuntuosa inutilità che danneggia le nostre aspirazioni di liberazione dalla riproduzione schematica o successiva della statica e del moto […] Quello che ti dico su Bragaglia tienilo per te perché lui personalmente mi è simpatico.” Seguì, il successivo 1° ottobre, la sconfessione ufficiale della Fotodinamica da parte del Futurismo, datata 27 settembre 1913 (ivi, 142, 155).

 

Tali contrasti – considerate le questioni teoriche di riferimento e/o le ipotizzate incompatibilità tra i diversi media utilizzati dai futuristi – è verosimilmente interpretabile, secondo Claudio Marra, come una sorta di “protezionismo pittorico”, oltre alla dichiarata avversione verso la fotografia nel suo insieme di cui si è già detto. Questo contenzioso è però poi apparso paradossalmente proprio in contrasto anche con il vivo interesse che il Futurismo ha invece sempre espresso per il progresso tecnologico e le sue potenzialità nei confronti della società. In questa dimensione la fotografia non era e non è tuttora affatto in subordine ad altri media, assumendo, piuttosto, una funzione a dir poco paradigmatica (Marra 2000: 18-36), sebbene non esistano situazioni immutabili nel mondo dei media: non ci sono ceteris paribus ha affermato Marshall McLuhan. Una dimensione, non solo simbolica, che diverrà poi un elemento di rilievo anche nell’analisi dello stesso McLuhan (Calvesi in Bragaglia 1980: 18).

 

E tra i mezzi di interpretazione del mondo che connotano l’universo fotografico, la Fotodinamica rappresenta tuttora, anche a mio parere, un esempio peculiare.

 

Si è trattato di una serie di immagini paradigmatiche nelle quali sembra tuttora individuabile una molteplicità di elementi capaci di connotarle come una sorta di metalinguaggio ancora vivo che, all’epoca, ha tra l’altro rappresentato l’esemplare condensato di un periodo di ulteriore evoluzione delle modalità di utilizzo del medium fotografico anche nella sfera dell’espressione artistica.

 

In tale scenario, il Fotodinamismo non ebbe dunque vita facile né riscosse la stessa fortuna che la fotografia continuava in ogni caso ad avere in altri contesti culturali.

 

Una delle critiche più aspre, quanto ovvia, indirizzata alle Fotodinamiche è stata quella di accomunarle a delle immagini mancate, a degli errori in sostanza, piuttosto che a delle foto che, secondo chi le aveva ideate, avevano invece un ulteriore e ben specifico valore aggiunto, non essendo affatto mosse, bensì, secondo Bragaglia: “movimentate”.

 

Tecnicamente le fotodinamiche possono essere descritte come delle sovraesposizioni prolungate, nelle quali il soggetto raffigurato è stato illuminato da una potente sorgente luminosa concentrata che ne ha consentito sia l’isolamento dallo sfondo così come la tracciabilità della relativa traiettoria.

 

L’intenzione innovatrice di queste immagini era dunque quella di rendere “la vita quale puro movimento” resa in un unicum visivo che evocasse “il moto perpetuo nella perpetuità di un gesto reso.” Secondo Bragaglia questo progetto di rappresentazione della virtualità – che definirei ante litteram – aspirava a rievocare “irrealisticamente” il reale, tracciando in un quadro sinottico ogni componente del movimento, incluse quelle frazioni che, di norma, risultano invisibili. La nemica numero uno in questa battaglia Fotodinamista era – e rimane tuttora in questa prospettiva, aggiungerei – ancora una volta, l’istantanea: capace soltanto di rendere una frazione del moto, arrestandone l’evoluzione in una delle sua singole componenti, senza offrirne una visione riassuntiva in una sola immagine (ivi: 17).

 

Da questo punto di vista, l’avversario è stato dunque l’istantanea, della quale pure era stata tanto apprezzata, nella sua staticità, “la vecchia bellezza della linea”, benché a danno della “gioia del ritmo” e del dinamismo (ivi, 43).

 

Successivamente, la fotografia ha ricevuto comunque un riconoscimento formale delle sue potenzialità, a lungo volte alla promozione del progetto futurista, benché questo sia arrivato molto tempo dopo – faccio riferimento, in particolare, alla pubblicazione con Filippo Tommaso Marinetti del “Manifesto della Fotografia futurista” avvenuta nel 1930 (Lista 2001: 273) – allorché la scia della fotografia futurista appariva ormai molto più labile rispetto al passato, se non in buona misura inevitabilmente dispersa.

 

Il Fotodinamismo si era pertanto assunto il compito, per elevare la fotografia allo status di arte moderna, di “purificarla” attraverso le sue opere, rendendola finalmente capace di evocare emozioni vere, forti, cariche di pathos in grado di trasmettere un’autentica “sensazione dinamica della vita”, rappresentata attraverso le sue manifestazioni, quali, ad esempio: “il ritmico pulsare  del sangue: l’incessante respiro, nella vibrante energia dei gesti, degli atti” (Bragaglia 1980: 19).

 

Secondo Claudio Marra, per lo meno agli esordi, i Bragaglia erano prevalentemente interessati alla realizzazione di fotografie di tipo scientifico. Scienza, dunque, ha sottolineato lo studioso, piuttosto che arte. Più nel dettaglio, secondo Marra, i Bragaglia sono stati interessati da un percorso di tipo pseudoscientifico che fu probabilmente influenzato dal diffuso interesse dell’epoca verso sperimentazioni che arrivavano a miscelare tra loro generi tanto differenti quanto distanti, quali la fotografia spiritica e le ricerche nel campo della biologia e della medicina. Si è trattato di una tendenza allora molto comune che ha trovato uno stimolo ulteriore nella dimensione tecnica ancora non completamente esplorata del mezzo fotografico (Marra 1999: 30-1). A ciò si aggiunga inoltre che l’idea di scienza dei nostri giorni, che rinvia a un ambito caratterizzato da obiettività e razionalità, non è certamente identica a quella che verosimilmente era radicata all’epoca. In quel contesto trovava spazio piuttosto una dimensione mistica che non ha talora escluso neanche sperimentazioni dai risvolti bizzarri, occulti e, non ultimo, magici. Analoghe sono state le riflessioni di Maurizio Calvesi, secondo il quale si è trattato di un’esperienza connotata da una vera e propria “orgiastica ricerca di convergenze, tra conoscenza sperimentale e rappresentazione, tra estetica, fisica e psicofisica, tra arte e psicologia della percezione [con l’intento di abolire, n.d.r., sia] la distanza gerarchica tra fotografia e pittura, sia pure con l’ambizione di «innalzare» la fotografia al livello dell’arte.” Nella sinergia ottenuta attraverso queste sperimentazioni, il magico e il tecnologico sono venuti quindi a contatto, indicando nuovi e inattesi riferimenti per l’immaginario tecnologico del tempo (Bragaglia 1980: 189-190). Non distante, Maurizio Fagiolo che dell’opera di Bragaglia ha rilevato: “Il sottofondo di mistero, di oriente, di esoterismo, il vapore fantasmatico, di magia, di pampsichismo, l’atmosfera spiritica.” Altrimenti detto, è sembrato emergere un mondo arcaico sulla linea di un nuovo orizzonte.

 

In ogni caso, il Fotodinamismo è sembrato comunque capace mescolare insieme due finalità: l’una di tipo scientifico (o parascientifico), l’altra di natura artistica, tesa a veicolare la prospettiva interpretativa soggettiva dell’autore e, conseguentemente, a stimolare emozioni nell’osservatore. Scienza dunque, per un verso, per la metodologia utilizzata in fase di ricerca, arte, per l’altro, in quanto dedita a suscitare emozione nel pubblico, tentando di andare oltre l’apparenza del reale (ivi, 50, 213).

 

In questa dimensione connotata da scientificità e materialità, l’immagine fotografica è apparsa come una specie di singolare “occhio” meccanico inventato in un’epoca di sapere assoluto. La fotografia ha assunto, inoltre, la funzione di strategico utensile tecnico della Scienza nell’analisi del mondo tangibile, praticamente, una specie di “retina” del ricercatore. Questa nuova e talvolta alienata visione sul mondo (Marra 2000: 13) può, complessivamente, essere ancora una volta riportata all’altrettanto strategica contrapposizione tra la scientificità (di una visione obbiettiva e imparziale) e la soggettività (immanente all’atto stesso dell’osservare). Nonostante questo, credo che il proposito di fondo della fotografia, anche nel caso del Fotodinamismo, sia apparso comunque quello di affermarsi come una sorta di demiurgica rappresentazione del reale, posta in essere con la rappresentazioni di una realtà differente, di secondo grado, in apparenza analoga o similare a quella reale di primo grado.

 

Una prospettiva per certi versi analoga, secondo me, è tuttora riscontrabile anche nell’ambito dei social network.

 

Tuttavia, insisteva Bragaglia, la dimensione magmatica della vita non può essere comunque rappresentata arrestando con un’istantanea il moto, perché “il movimento è la vita della vita”, pena la sua irreparabile dissoluzione. Né rappresentava un valido surrogato, secondo l’autore, l’altrettanto nota soluzione della cronofotografia che, semmai soltanto parzialmente, poteva offrire una verosimigliante sensazione dinamica del moto, così come limitatamente dare un’idea compiuta del movimento effettuato dal soggetto ripreso nell’immagine proposta. Così come è irreale, continuava Bragaglia, il congelamento del moto – si pensi, ad esempio, a un cronofotogramma che “blocchi” un cavallo al galoppo – perché esso è privo di uno strategico ausilio descrittivo delle tappe precedenti e successive, ovvero è orfano della traiettoria. E’ proprio la traiettoria, in quest’ottica, che permette unificare, fondere insieme e sintetizzare l’azione nei diversi “stati intermovimentali […] di un gesto” rendendone più verosimile il ritmo, la sensazione di dinamicità (Bragaglia 1980: 23-25).

 

E’ la traiettoria, sottolineava Bragaglia, che assicura “il risultato dinamico”, criticando nuovamente e aspramente sia la fredda riproduzione del reale delle istantanee così come il fatto che fossero trascurate le potenzialità delle traiettorie nella cronofotografia, così come nella cinematografia dell’epoca. Alla frammentazione del movimento nelle distinte sezioni dei fotogrammi e alla conseguente perdita del relativo ritmo, con riflessi non positivi, a parere dell’autore, anche in termini di resa estetica (ivi, 27).

 

La fotografia tradizionale può certamente andar bene per vivisezionare analiticamente la realtà, ma non è adatta in una prospettiva interpretativa del medium, ovvero un uso artistico e soggettivo del mezzo fotografico unito al rigore scientifico di una nuova e rivoluzionaria forma tecnica ed espressiva, da non confondere, beninteso, né con l’antecedente cronofotografia né con la conseguente cinematografia. Un’oggettività assicurata, nell’ottica di Bragaglia – sebbene ciò possa apparire, evidentemente, un paradosso – proprio dalla “neutralità” dell’interpretazione del gesto raffigurato nell’immagine fotografica (ivi, 38). Ciò, plausibilmente, perché la Fotodinamica resta comunque un’immagine fotografica, benché ne rappresenti una peculiare e specifica forma evolutiva, ossia: una forma di “fotografia trascendentale del movimento” (ivi, 34).

 

La fusione tra la prospettiva interpretativa e la ipotizzata scientificità del Fotodinamismo è stata immaginata dall’autore come un matrimonio felice ed efficace in grado di rendere in modo unico, trascendente, la vera “essenza interiore delle cose: il puro movimento […] perché, nel moto, le cose dematerializzandosi, si idealizzano, pur possedendo ancora, profondamente, un forte scheletro di verità” (ivi, 35).

 

Al contrario, Bragaglia ha considerato assurda, inappropriata e ridicola l’attribuzione all’istantanea di qualità quali la sua grande potenza scientifica: un’affermazione che può risultare discutibile, benché, nella sua ottica, coerente e funzionale a consolidarne la dimensione estetico-interpretativa e, dunque, l’intento “politico” delle sue Fotodinamiche.

 

Inoltre, la dimensione evolutiva della fotografia rappresentata dalle Fotodinamiche non fu affatto immaginata in una prospettiva antagonista alla pittura futurista – sebbene, come si è detto, autorevoli rappresentati di quest’ultima si siano manifestati apertamente ostili all’opera di Bragaglia – bensì complementare, in ragione, ad esempio, dei seguenti aspetti:

 

1) l’ambito operativo del Fotodinamismo era considerato totalmente diverso da quello pittorico futurista, perché, riprendendo quanto ho accennato precedentemente, si è avvalso di “mezzi linguistici non pittorici”,  e,  

 

2) al tempo stesso, meno distante dall’ideologia futurista di quanto forse poté inizialmente sembrare, proprio perché fondato sulla fiducia riposta nel progresso dei “mezzi  della scienza fotografica [che, n.d.r.] sono così rapidi, fecondi e possenti” e, non ultimo,

 

3) perché, a ben vedere, anche Bragaglia ha osteggiato apertamente e duramente la fotografia nella sua manifestazione più tradizionale e comune – ossia la più volte citata istantanea – nei confronti della quale ha dichiarato di provare “il massimo schifo”, considerando erronea l’autorevolezza generalmente attribuitale in termini di scientificità (ivi, 36-37).

 

Riguardo, ancora, alla contesa tra il Futurismo e il Fotodinamismo è inoltre plausibile che questa sia stata anche favorita da una non chiara coscienza da parte dei pittori futuristi del peculiare e strategico valore aggiunto offerto da questa singolare lingua franca universale.

 

Questo conflitto era alimentato dai presunti “limiti” del mezzo fotografico, incapace di rappresentare il reale in moto perenne. Lo sguardo di Medusa sul mondo e la “pietrificazione” del reale operata dalla fotografia sono dunque apparsi un “difetto” insanabile, creando una distanza incolmabile tra la fotografia e il Futurismo, immaginata, piuttosto, come una tecnologia apparentemente avversa all’intento di fondere arte e vita caratteristico del movimento. L’alone di morte che sembrava connotare la fotografia rappresentava una sorta di avversario potenziale che, in una prospettiva di analisi semiotica, è verosimilmente sembrato assumere le vesti di un ipotetico attante tecnologico ostile al Futurismo  – un vero e proprio Anti-Eroe – un subdolo antagonista capace di creare problemi, piuttosto che aiutare la causa del movimento futurista. In proposito, come ho ipotizzato tempo fa, all’interno di uno specifico percorso narrativo (PN), è plausibile ipotizzare l’esistenza una disgiunzione dall’oggetto di valore (Fabbri, Marrone 2000: 219) della fotografia, dovuta alla presunta incapacità dello strumento tecnico di raffigurare un’efficace espressione artistica della dinamicità. In questo scarto, in questo disequilibrio, il Futurismo potrebbe quindi essere immaginato come un ipotetico Soggetto Destinante che ha visto, probabilmente impotente, imprigionare e dissolversi nella fotografia la rappresentazione dinamica della vita ad opera di un temibile e malevolo attante tecnologico. In questo percorso narrativo, il Fotodinamismo, come si è detto, agli esordi plausibilmente mal compreso ha tentato, inizialmente invano, di vestire i panni di un vero e proprio Eroe, un aiutante, piuttosto che un nemico, la cui relativa performance non era affatto rivolta a osteggiare il Futurismo, bensì a sostenerlo, favorendo il ripristino di quel dinamismo vitale – di quell’equilibrio preesistente – che l’avversario tecnologico rappresentato dalla fotografia classica sembrava aver gelato e, quindi, dissolto. Non un antagonista, bensì una sorta di strumento magico, una vera e propria “arma” nelle mani dell’Eroe futurista: in questo caso in possesso del fotografo fotodinamista, capace di ricongiungere finalmente il Futurismo al suo (s)oggetto di valore, la dinamicità, dal quale l’immagine fotografica tradizionale sembrava invece essere averlo precedentemente e irrimediabilmente separato.

 

Anche in tal modo, la fotografia, attraverso i suoi “sguardi” complementari a quelli di altri media, talora anche con le connotazioni metadiscorsive accennate in precedenza – ha quindi favorito l’emergere progressivo di una serie infinita di recessi del reale, altrimenti poco o addirittura del tutto invisibili. Anfratti del reale che Walter Benjamin, come ho già evidenziato anch’io tempo addietro, ha ben sintetizzato con l’efficace e nota formula di “inconscio ottico”. Un inconscio che sembra ulteriormente emergere, diffusamente, anche negli interstizi visivi del mondo in costante crescita dei social network. Una galassia di relazioni di proporzioni planetarie dove la fotografia continua a rappresentare una componente di interazione simbolica certamente non di poco conto, sebbene, a mio avviso, continui ad apparire in prevalenza, proprio come all’epoca delle critiche futuriste di cui si è detto, e cioè un’entità immobile che, a dispetto della imponente proliferazione e varietà apparente delle immagini presenti, sembra di norma continuare a insistere costantemente nella sua funzione di congelamento in frazioni statiche del reale, piuttosto che evolvere, per lo meno in una piccola frazione, in una prospettiva analoga a quella tracciata dalle Fotodinamiche di Bragaglia, se non altro in quegli ambiti di rievocazione e/o ricerca artistica o ad essa affini o riconducibili.

 

Ciò avviene benché la natura “bizzarra” della fotografia non le impedisca di oscillare più o meno liberamente, anche nella dimensione fluida del web, tra l’apparente specularità del reale raffigurato e la più ampia astrazione intellettuale. Proprio questa emblematica ambivalenza, se per una frazione sembra comprometterne la potenziale funzione documentaria, le offre l’alternativa – in una prospettiva Fotodinamista, ad esempio – di una interpretazione libera e soggettiva del mondo, contribuendo a (ri)definire il “reale” e, in definitiva, la “sua” e la nostra identità.

 

Una funzione che la fotografia, anche nella dimensione magmatica e rizomatica della rete e in un’incessante interscambio con altri media, svolge con pari dignità, contribuendo comunque costantemente alla costruzione di realtà altre, una vera e propria dimensione differente con la quale – si pensi alle relazioni “amicali” nei social network, ad esempio – s’interagisce poi non solo simbolicamente. Questo accade perché l’immagine, anche nella “realtà” del metamedium Internet, superando l’opposizione tradizionale tra il vero e il falso, ci indirizza verso una dimensione simulata del reale dove, comunque, ci si relaziona come nella realtà di primo grado. Una dimensione cangiante dove si mescola il relazionarsi in rete con la realtà concreta, così che l’interazione con la realtà (simulata) del web richiede comportamenti non dissimili a quelli che si avrebbero nelle interrelazioni della realtà concreta.

 

Detto questo, l’eventualità che un’immagine fotografica rappresenti concretamente la realtà rimane, in ogni caso, apparente per quanto verosimile l’immagine possa apparirci, dato che l’immagine è sempre qualcosa di diverso dal (s)oggetto d’origine. Un’emblematica e quotidiana esemplificazione di questo scarto alla portata di tutti sono la pubblicità e la moda: in quella dimensione, infatti, le immagini assumono le fattezze di una realtà di primo grado che tale però non è, trattandosi concretamente di una rappresentazione, una ricostruzione per quanto verosimigliante, come, ad esempio, talora è anche nel caso dell’interpretazione artistica. Riguardo a quest’ultima dimensione, rinvio, ancora una volta, alle memorabili finzioni di Joan Fontcuberta.

 

La propensione verso il virtuale delle immagini connota da sempre la relazione tra la fotografia e il reale, e dunque anche l’oggi dei social network rendendola capace di (ri)disegnare in modo peculiare e talora strategico la relazione con il referente originario.

 

Eppure, tranne qualche apprezzabile eccezione, non molto mi sembra che sia cambiato rispetto a circa un secolo fa: come se la “lezione” Fotodinamista sia in buona misura ormai dissolta. Fatta eccezione, ripeto, per qualche interessante traccia, benché di norma non sistematica e il più delle volte dispersa, sembra infatti tuttora prevalere, anche all’interno dei social network, il classico credo verista di sempre della fotografia, nonostante sia cresciuta nel tempo la consapevolezza del tendenziale nichilismo di ogni immagine.

 

Una tendenza che a mio avviso favorisce, tra l’altro, il dilagare di quel fenomeno che Antonio Saccoccio ha definito con l’emblematica ed efficace formula di “presentismo”.

 

Resiste dunque, sebbene conviva con uno scetticismo maggiore rispetto al passato, quella tenace aura realista degli albori dell’invenzione del medium, che pensa alla fotografia come a un doppio fedele del reale, o, quanto meno, data la schiacciante referenzialità apparente delle immagini, a una protesi dell’entità originaria in esse raffigurata.

 

Osservando questo fenomeno nella prospettiva Fotodinamista si tratta di un esito sicuramente indesiderabile per uno strumento espressivo che grazie al Fotodinamismo sembrava allora aver finalmente vinto, e per sempre, il suo asservimento al reale. Un traguardo raggiunto attraverso un difficile percorso a ostacoli, segnato agli esordi anche dall’astio di Baudelaire che, implacabilmente, l’aveva immaginata come la negazione assoluta dell’arte – definendola la “vendetta imbecille” dell’industria – proprio perché era apparsa “solo” in grado di riprodurre specularmente il reale. Ciò nonostante, da negazione totale dell’espressione autoriale la fotografia, si è poi affermata nel tempo anche in e grazie alla rete proprio quale possibile quintessenza dell’arte contemporanea, anche per merito del consolidarsi della consapevolezza che la fotografia, ben lungi dal riprodurre davvero il reale, ne esemplificherebbe, al contrario, proprio la sua induplicabilità. Un’evoluzione alla quale ha contribuito, ovviamente, il percorso delle Avanguardie storiche, con tutto il suo rivoluzionario portato intellettuale riguardante sia la rilettura del ruolo dell’arte – incluso, nella prospettiva di Benjamin sulla riproducibilità, l’evoluzione del tradizionale valore dell’opera d’arte da “cultuale” in “espositivo” – sia della figura stessa dell’autore, emblematicamente sintetizzata e radicalizzata nei ready made  di Duchamp (Marra 2001).

 

Si consideri, inoltre, la forza simbolica e la centralità strategica che l’immagine fotografica ha assunto nei processi di comunicazione visiva contemporanei, dove la fotografia si afferma insistentemente, anche nelle sue più minute espressioni relazionali, come:

 

“Una fruizione di massa – più che […] una produzione autoriale e auratica – straordinariamente ordinaria, di uno sguardo quotidiano, distratto, sciatto, di un consumo immateriale e interstiziale dello sguardo difficilmente quantificabile che è semplicemente incontro con la protesi oculare artificiale, ma anche con libri e giornali, memorie familiari, album, adesivi, etichette, confezioni e prodotti commerciali, cartelloni pubblicitari, manifesti, cartoline, t-shirt, copertine, figurine, calendari, puzzle, orologi, tessere telefoniche che si insinuano praticamente ovunque, in una dimensione postindustriale che si nutre del frammento visivo (Fiorentino 2003, p. 35).

 

Si pensi quindi, ancora una volta, al web e, in particolare, ai social network e a come appaia emblematica una limitazione d’uso dell’immagine fotografica tuttora diffusamente finalizzata alla sola funzione di mero mezzo di riproduzione del reale, in un gioco di incessanti rimandi tesi alla prevalente costante conferma e al consolidamento del credo di cui si è detto.

 

Una destinazione d’uso paradigmatica, dunque, anche nella dimensione social del web, dove, in ogni caso, la fotografia continua a rappresentare il “corpo” tangibile di un cruciale ed emblematico medium intermedia che richiama alla mente, come si è già accennato, le tuttora attuali riflessioni di Mcluhan riguardo alla interdipendenza tra i media:

 

“Nessun medium esiste o ha significanza da solo, ma soltanto in un continuo rapporto con altri media […] In quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l’uno sull’altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro. […] Non esistono ceteris paribus nel mondo dei media e della tecnologia. Ogni estensione o accelerazione produce immediatamente nuove configurazioni dell’intera situazione. […] E’ quindi praticamente impossibile capire il medium della fotografia senza rendersi conto dei suoi rapporti con altri media vecchi e nuovi. […] L’interdipendenza totale è il punto di partenza” (Mcluhan 1964, 2002, pp. 35, 63, 197, 216, 382).

 

Ed è proprio in ragione anche di questa natura interstiziale e interdipendente che finanche nel mondo dei social network la fotografia, conquistando sempre nuovi spazi, ha comunque (ri)creato nuove e differenti relazioni tra vecchi e nuovi media. Ma, nella prospettiva Fotodinamista, salvo qualche sparsa testimonianza – che mi è apparsa peraltro non molto “solida” – mi sembra sufficientemente fondato poter ribadire che non molto pare mutato rispetto alla tradizionale idea di oggettività del mezzo fotografico, benché la fotografia abbia tuttavia fatto emergere, o per lo meno favorito, ulteriori modalità espressive e nuove reti di relazioni. L’idea classica della fotografia sembra dunque essere rimasta quella ottocentesca, senza registrare particolari progressi sul fronte di una (vera) nuova concezione di questo peculiare strumento espressivo di interazione non solo simbolica.

 

Sulla base di questi presupposti, mi sembrano purtroppo tuttora attuali le valutazioni critiche rivolte a una certa connotazione – in buona misura passatista si potrebbe dire – del mare di immagini fotografiche che circolano e si moltiplicano in quella che i net.futuristi definirebbero paradigmaticamente “retealtà” e il concetto, contrapposto, di una fotografia che sia, invece, “dinamica” – o movimentista – come la immaginò a suo tempo A. G. Bragaglia.

 

In definitiva, da quel punto di vista: non sembra esserci nulla di particolarmente nuovo sotto il sole!

 

Roma, 7 agosto 2013

 

G. Regnani

 

Riferimenti

 

(al 10 aprile 2013)

 

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AA.VV., Dizionario di fotografia, Rizzoli, Milano, 2001

 

Abruzzese A., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003

 

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Social network e Fotodinamismoultima modifica: 2013-08-07T20:57:00+02:00da
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