La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek e lo sguardo di Medusa della fotografia. L’incomprensibile presenza di un’assenza

La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek e lo sguardo di Medusa della fotografia

L’incomprensibile presenza di un’assenza

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G. Regnani, opera aperta (omaggio a U. Eco), 2020

Nella prima parte del film “La Dea Fortuna” di Ferzan Ozpetek, alle prese con il suo tredicesimo lungometraggio uscito nelle sale italiane il 19 dicembre 2019, il piccolo Alessandro (è il nome attribuito al personaggio interpretato da Edoardo Brandi) ci svela che:

“La dea Fortuna […] ha un segreto, un trucco magico.

Come fai a tenere sempre con te qualcuno al quale vuoi molto bene? Chi lo sa?

Ė facile: devi guardarlo fisso, così rubi la sua immagine. Chiudi di scatto gli occhi, li tieni ben chiusi e lei ti scende fino al cuore.

E, da quel momento, quella persona sarà sempre con te.

Si tratta di un elemento tecnico-narrativo strategico nell’evoluzione della storia raccontata, talmente importante da essere riproposto e, addirittura, “applicato” da alcuni dei protagonisti nella scena finale del film.

Un elemento tecnico-narrativo topico, accennavo, che nel corso del film – per ragioni che ignoro – non mi sembra sia stato affatto evidenziato anche in un’altra accezione, che proverò quindi ad illustrare, spero al meglio, qui di seguito.

Non mi soffermerò, invece, lo premetto, su altri aspetti (narrativi, ideologici, sociali, etc.), che, ipotizzo, potranno eventualmente essere oggetto di ulteriori riflessioni e/o analisi critiche (pro/contro) in altre e magari più opportune e qualificate sedi.

Tornando, in particolare, alla rivelazione del piccolo Alessandro e alla sua caratteristica di elemento tecnico-narrativo, dicevo che mi ha fatto pensare ad una qualità comunemente attribuita alla fotografia come ad una delle sue caratteristiche peculiari. Una qualità immanente in ogni utilizzo del medium – dalle riprese effettuate dai pionieri del mezzo alla fotografia interstiziale e onnipresente della modernità. A prescindere dal livello di pratica/utilizzo e/o dallo statuto contingente (professionale o amatoriale, documentario o artistico, etc.) – ovvero: la presunta possibilità, attraverso la fotografia, di “congelare” la realtà. La possibilità, dunque, di “catturare” gli altri e il mondo e di portarli ovunque e, volendo, comunque sempre con sé.

Ho definito la rivelazione del piccolo protagonista del film anche un elemento tecnico, oltre che narrativo, innanzitutto perché mi sembra evidente il rinvio, tra l’altro, ad una nota dimensione simbolica, ad una celeberrima metafora, ossia: il mito della Gorgone.  Gorgone è il nome che, nella mitologia greca, è collegato a tre divinità – Medusa, Steno ed Eurìale – dalla testa orribile, anguicrinita, capace di impietrire chi la guardasse. Secondo Omero, anche in tempi successivi, la Gorgone era comunque identificabile nella più nota delle tre, Medusa, rivale di Atena. Secondo una leggenda viene fatta uccidere da Perseo; secondo un’altra da Atena stessa, che ne avrebbe poi fissata al proprio petto la testa come trofeo di vittoria. Una nota rappresentazione della testa della Gorgone la raffigura come una maschera con volto circolare, grandi occhi, bocca aperta con lingua pendente, naso schiacciato, capelli ricciuti o misti a serpenti, abbellitasi, dopo il V secolo a.C., acquistando le fattezze di un volto femminile, circondato da una chioma di serpenti, decorativamente intrecciati (fonte: Treccani).

E proprio per la vicinanza e la similitudine della fotografia – primate del cinema, lo ricordo (parentela alla quale accennerò brevemente in chiusura) – con questi inquietanti talenti mortuari della Gorgone, che mi colpisce la mancanza di riferimenti al mezzo fotografico nel film di Ferzan Ozpetek. Al suo essere, nell’immaginario collettivo, una sorta di strumento magico anch’esso, per di più dotato anche di una memoria visiva. Ma tant’è – e, andando oltre – non averne comprese le ragioni sarà forse e più semplicemente un mio limite personale, piuttosto che un difetto dell’opera in questione.

La fotografia/Gorgone, dunque, come strumento per riprodurre la “realtà”. Una riproduzione realizzata “congelandola” in dimensioni spaziali di norma bidimensionali, in un mondo altro fatto di apparenze, ombre, fantasmi, idee. Un’idea, immaginazione, come quella, in fondo, della quale si “alimentano” diversi protagonisti del film La Dea Fortuna. Lo fanno attraverso quella sorta di rito cannibalesco che ho accennato brevemente in precedenza, citando le battute del piccolo Alessandro.

E a cosa rinvierebbe il rituale magico abbozzato dal giovane protagonista, se non alla fotografia, in fondo? Penso, in particolare, al momento nel quale il piccolo Alessandro descrive con precisione la metodologia e, insieme, la corretta tecnica della “ripresa”, ovvero: quando fa riferimento al guardare fisso, così come al fatto di rubare l’immagine dell’altro/a e, non ultimo, all’indicazione di chiudere gli occhi, “ben chiusi” (al pari di un otturatore tradizionale aggiungerei), etc.

In cosa si potrebbe tradurre, in definitiva, questa “cattura” dal vivo, se non in una sorta di tecnica fotografica per consegnare qualcosa/qualcuno alla memoria e, se possibile, anche all’eternità? Come potrebbe esserlo una fotografia di ritratto, un nudo, una natura morta, un paesaggio, etc.

Non attimi, brevi, passeggeri, ma, potenzialmente, prove tecniche di eternità.

E ripensando a Susan Sontag, oltre ad aver precedentemente collegato il rituale magico/fotografia ad una sorta di immaginario rito cannibalesco, è possibile anche aggiungere che realizzare un’istantanea – la quintessenza della fotografia moderna, la fotografia tout court – non è altro, in sostanza, che una specie di “atto predatorio”, un’aggressione, un’appropriazione. Simulata, virtuale per quanto sia, ma, in ogni caso, assimilabile ad una sopraffazione. O, quanto meno, paragonabile ad una sorta di violazione, ad un’intrusione nella sfera privata di qualcun altro/a, ad un’incursione nell’intimità, violandone la privacy. E tutto ciò soltanto per “dare una forma”, definendolo con le parole di Walter Benjamin, a qualcosa che diverrà suo  malgrado una mera “reliquia secolarizzata”. Un “memento mori”, come l’avrebbe chiamato la già citata Susan Sontag, che ci lascia in eredità soltanto il “cadavere di un’esperienza”, come l’ha definito Eduardo Cadava. In ogni caso, una dissoluzione del reale di primo grado al quale la fotografia ha attinto restituendoci, secondo un credo comune, “il” suo referente immobile, ormai comunque “morto”. Resta, comunque, un disperato atto di salvataggio dall’implacabilità degli eventi, dall’ineluttabilità del tempo. In altri termini, un atto conservativo, che, per quanto apparentemente sembri persino crudele, si configurerebbe, invece, come una sorta di gesto d’amore. Una “pietrificazione” della vita, nelle sue diverse espressioni, da prendere o lasciare in cambio di niente. Una fotografia, dunque, meglio che il… nulla! Meglio, dunque, l’Aldilà offerto dalla tanatografia dello sguardo di una fotografia/Gorgone, piuttosto che la dissoluzione di tutto. La scomparsa anche di una minimale traccia residua, come potrebbe esserlo una qualsiasi (di norma) preziosa foto ricordo. Una fotografia capace di caricarsi di una valenza addirittura religiosa.

Metafora per antonomasia, di un’assenza, di qualcosa/qualcuno (situazione, persona, momento, etc.) che, tecnicamente, non esiste più e, come tale, è ormai… irriproducibile.

Una Gorgone che, sebbene sia stata diseredata delle sicurezze positiviste della fotografia degli esordi, dove aveva lo status di un vero e proprio “specchio del reale”, rimane tuttora per il pensare comune un tenace presidio, un baluardo simbolico contro la dissoluzione del “reale”.

Pur avendo smarrito anche buona parte del suo corredo di certezze ideologiche della modernità, la fotografia – e, con lei, il suo “alter egoGorgone, indissolubilmente unite come gemelle siamesi – è stata comunque traghettata, in molti casi con ancora intatta la sua inossidabile aura di strumento di oggettività, anche nella postmodernità liquida dei nostri giorni.

Prima di concludere, come avevo anticipato accenno brevemente anche ad un altro ambito.

Rileggendo un’ultima volta la peculiare rivelazione di Alessandro, della quale ho accennato più volte, ho pensato anche a quanto deve alla fotografia la storia della cinematografia. Faccio riferimento alle prime pionieristiche sperimentazioni di Etienne-Jules Marey (1830-1904) e di Eadweard Muybridge (1830-1914) legate, in particolare, alla cronofotografia. Tecnicamente, per chi eventualmente ancora non lo sapesse, la “Treccani” ci ricorda che: la cronofotografia è la successione di immagini fotografiche per l’analisi del movimento di un oggetto o di un fenomeno, che si eseguono ad intervalli di tempo prestabiliti o l’esposizione in sequenza delle successive fasi di un movimento sullo stesso fotogramma della pellicola; un tipo di cronofotografia è, ad esempio,  quello realizzato utilizzando la fotografia stroboscopica, ottenuta mantenendo aperto l’obiettivo della macchina fotografica e illuminando, in maniera intermittente e con particolari sorgenti di luce, il soggetto in movimento.

Questo breve ultimo accenno tecnico-storico avrebbe forse potuto essere in qualche modo anch’esso funzionale a “rinforzare” ulteriormente la narrazione legata al segreto de La Dea Fortuna. Avrebbe potuto esserlo, ad esempio, suggerendo la potenziale esponenzialità della ripetizione del singolo atto predatorio immanente in ogni fotografia. La possibilità virtuale, dunque, di “catturare” intere sequenze di immagini di persone care, per poterle poi “salvare”, memorizzandole dentro di noi. Un’azione “politica” che avrebbe plausibilmente potuto configurarsi anche come una sorta di indiretta riflessione metadiscorsiva sul medium cinematografico nel suo insieme e, conseguentemente, includere anche questa tredicesima opera del regista di origini turche.

Per queste ragioni nel film di Ferzan Ozpetek, ripensando un’ultima volta a Roland Barthes, mi ha colpito questa singolare certificazione di una lontananza o, in altri termini, l’incomprensibile (per me, ripeto un’ultima volta) presenza di un’assenza.

Roma, 21 dicembre 2019

G. Regnani

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G. Regnani, autoritratto in forma di fototessera (omaggio a F. Vaccari), 2005

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La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek e lo sguardo di Medusa della fotografia. L’incomprensibile presenza di un’assenzaultima modifica: 2018-01-01T00:03:02+01:00da gerardo.regnani
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