La fotografia della “realtà” della pornografia – Un mito sempreverde

La fotografia della “realtà” della pornografia. Un mito sempreverde (recensione)

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G. Regnani, Sex, 1991

Una singolarità nella singolarità, durante la quarantena imposta per la pandemia causata dal virus “SARS-CoV-2” (o “Coronavirus”, “2019-nCoV”, “Covid-19”), è stata l’aumento esponenziale degli accessi ai siti porno. Alcune piattaforme hanno pubblicato dei grafici degli andamenti che, grazie anche alla strategica campagna di accessi temporaneamente gratuiti, mostravano una crescita smisurata degli utenti e della navigazione, con aumenti che hanno talora superato picchi di 50 punti percentuali.

Una news che, a ben vedere, si rivela come una sorta di punta di quell’enorme iceberg formato dalla quantità impressionante di rappresentazioni pornografiche nelle quali siamo – sempre più inconsapevolmente – costantemente immersi. Una marea montante, frammentata e mescolata in una miriade di opzioni culturali “alte” e “basse”. Una mole smisurata di pornografia, che, proprio per le sue dimensioni abnormi, pur essendo dappertutto, tende – come un dio – a “scomparire” o, comunque, ad amalgamarsi e mimetizzarsi talmente bene con il tutto, con il quotidiano, da renderci via via meno sensibili, alzando progressivamente la nostra preesistente soglia di tolleranza.

Roland Barthes aveva definito così la pornografia:

“La pornografia rappresenta di solito il sesso, ne fa un oggetto immobile (un feticcio), incensato come un dio che non esce dalla sua nicchia.”

Un dio – o, se si preferisce, un demone – onnipresente, virulento, eppure non facilmente rappresentabile nella sua essenza più autentica. Un’entità culturale che, come un fantasma, di volta in volta si “incarna” attraverso le immagini che gli “danno forma”, mobili, effimere o fisse che siano. Tra queste ultime, la fotografia è, da sempre, uno strategico medium (“intermedia”). Un medium altrettanto irruento e pervasivo, che Roland Barthes descriveva così:

La Fotografia è violenta: non perché mostri delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi.”

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G. Regnani, Aeroporto Cerrina, 1991

Il termine pornografia (s. f., dal fr. pornographie, der. di pornographe «pornografo») deriva da “Pornikon”, la tassa imposta dal Senato di Atene per l’utilizzo dei postriboli. Un termine antico che riassume un ambito culturale sempreverde, “utile” anche – e soprattutto – in tempi di epidemia e di clausura forzata.

La pornografia, anche nei giorni difficili del Coronavirus ha infatti riconfermato di godere di un livello di penetrazione culturale che non teme confronti. Ovunque, compresa la dimensione fluida e rizomatica della rete.

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Il livello e la stratificazione del porno sono tali da poter sostenere che “dentro”, oramai, ci siamo praticamente tutti. Goduriosi, bacchettoni, giovani, adulti, anime solitarie, coppie e chi più ne ha più ne metta.

La pornografia cerca oggi di vestire i panni di una pratica liberatoria e antirepressiva, ma in verità, secondo l’autore, si tratta di atteggiamenti retorici piuttosto che una realtà concreta, non essendoci oggi una concreta limitazione censoria alla diffusione della pornografia.

La pornografia è una sorta lente di ingrandimento della società e dei suoi costumi che offre un’attendibile “fotografia” anche del mondo contemporaneo. Una specie di finestra – oscena, per antonomasia – attraverso la quale guardare anche in trasparenza, oltre a noi stessi, l’ambiente e il sistema di relazioni reali e simboliche nel quale, come si è detto per la pornografia, siamo tutti attori e/o spettatori. La pornografia rappresenta una sorta di “specchio” nel quale il mondo, a partire dal singolo individuo, si riflette e, al tempo stesso, si plasma e si proietta verso sé e verso l’altro da sé.

Un reticolo di interrelazioni, di storie, di valori e di senso a più dimensioni, che tenterò di tratteggiare con l’aiuto degli spunti offerti dalla rilettura, in particolare, delle analisi e delle riflessioni di due studiosi, ovvero: “Pornografia di massa – Dalla rivoluzione Sessuale alla Porn Culture”, di Marco Menicocci e “Pornografia”, da “Il lessico della comunicazione”, di Alberto Abruzzese.

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G. Regnani, Sex, 1991

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La pornografia circonda, con le sue rappresentazioni, ogni anfratto del quotidiano. Immagini, messaggi, suoni, oggetti che rinviano alla sfera del porno inondano ogni interstizio possibile, circolando attraverso i canali e i circuiti più disparati, veicolati da media vecchi e nuovi, proponendo idee, costumi e prodotti che ci indicano “la” giusta strada da percorrere per raggiungere la meta e appagare i nostri desideri e sentirci davvero in sintonia con i tempi. Un processo pervasivo ed incessante che prende avvio sin dalla c.d. tenera età e, in misura diversa, sembra – e da sempre – non risparmiare praticamente nessuno.

Così come, praticamente tutti, inseguiamo il mito dell’eterna giovinezza. La medicina, la chirurgia, le mode e la cosmesi, a vario titolo, ci offrono continue speranze e/o prove che sembrano in grado, almeno temporaneamente, di far diventare reale questo mito. In ogni caso, non si accetta praticamente mai di invecchiare. Ognuno, a suo modo e con le armi che ha, tenta comunque di resistere e/o di combattere questo mostro mitologico – questa sorta di Hydra di Lerna, il mostro a sette o più teste, che ricrescevano se tagliate – che sono gli anni che passano e il crescere progressivo dei disagi e delle disabilità connessi con l’avanzare dell’età. Ci si veste e ci si comporta, quindi, come si fosse molto più giovani, con esiti che, non di rado, rasentano finanche forme di parossismo e/o addirittura di schizofrenia, alimentate spesso ad arte dagli interessi economici del mercato, ma non solo. L’immaginazione dei singoli nell’era di Internet è stata enormemente amplificata, ma, al tempo stesso, ne è stato potenziato anche il suo ruolo come importante fonte e strumento di profitto. Anche i più giovani non sono più succubi del tabù del sesso che, in passato, rappresentava una dimensione per i più arcana e, pertanto, particolarmente temibile. Conseguentemente, si è abbassata sensibilmente anche la soglia di età a partire dalla quale – e sempre più precocemente e, non di rado, banalizzandole – i ragazzi di oggi vivono le loro prime esperienze sessuali. Si è progressivamente ridotta, se non dissolta quasi del tutto, anche la dimensione fisica del sesso. Straripano sempre più, come accennavo in precedenza, forme di sesso virtuale, di cybersesso, correlate, più che (o non solo) alla sfera fisica, alla dimensione psicologica dell’erotismo. In questa evoluzione, grazie allo sviluppo tecnologico e della rete, chiunque può incarnare i panni di un divo del porno e pubblicare immagini e video con le proprie performance sessuali.

L’altrettanto logora dimensione della privacy sembra ormai incessantemente ed inesorabilmente erosa da una pandemica – quanto, verosimilmente, anche patologica – ossessione della visibilità, che dilaga, trasversalmente, dai più giovani ai più attempati. La privacy, la narrazione della sfera più intima, prima affidata alla discrezione del confessionale, ora, liberata da queste ed altre maglie è sempre più spesso affidata alle orecchie indiscrete dell’indistinta audience che popola i vari media, primo fra tutti il web. In questo scenario, tanto l’offerta, progressivamente sempre più variegata e “specialistica”, quanto il consumo di pornografia crescono incessantemente. E, nonostante l’ampliarsi crescente delle opzioni gratuite, si sviluppa costantemente anche il relativo volume d’affari, con cifre da capogiro. Sintetizzando, il sesso vende o, con un’espressione più allusiva e meno bacchettona, “tira” (e da sempre)!

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G. Regnani, Immagini sulla città (To), 1991

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La pornografia è inoltre divenuta via via un – se non “il” – punto imprescindibile di riferimento culturale del nostro tempo, favorendo anche uno shift culturale epocale. Una tendenza costante che, per fare soltanto un paio di esempi tra i tanti possibili, ha portato nel campo della musica – si pensi, in particolare, alle performance molto esplicite di Madonna – e, senza allontanarsi poi molto, in molti ambiti del mondo della moda ad un progressivo sdoganamento dei costumi e dei divieti del passato. Conseguentemente, indumenti, accessori, comportamenti ed espressioni prima patrimonio (quasi) esclusivo dei set a luci rosse sono passati al quotidiano e a consuetudini di consumo diffuso e popolare. A partire dai giovanissimi, con abitudini, atteggiamenti e modi di vestire – e, in sostanza, di comunicare – che un tempo sarebbero stati certamente stigmatizzati. Si assiste, dunque, a una diffusione, a un divenire “normale” e a una perdita della valenza trasgressiva della pornografia variamente definita come: “pornografizzazione della vita quotidiana”, “sessualizzazione della cultura”, “normalizzazione della pornografia”, etc.

Uno sdoganamento che, per un verso, preoccupa non poco i più conservatori, i quali intravedono nel dilagare della pornografia una corrosione irreversibile della c.d. società civile. Così come preoccupa, su un altro fronte, i movimenti femministi che temono particolarmente l’oggettivizzazione della donna favorita dalla pornografia e, anche attraverso questa fenomenologia, la tendenza, neanche tanto occulta, a continuare a tenere le donne in uno stato di vera e propria sudditanza rispetto all’universo maschile.

Per un altro verso, questa progressiva liberalizzazione, è vista da molti come un atteso superamento dei tabù e dei divieti preesistenti, di norma riconducibili alle rigide morali repressive imposte dalle fedi religiose.

Secondo Marco Menicocci, si tratta di orientamenti differenti che, purtroppo, non riescono ad incidere sulla sostanza dei fatti, restando, in sostanza, poco più che dichiarazioni di principio. Da un lato, infatti, chi teme la progressiva sessualizzazione del quotidiano non ha “armi” per modificare più o meno significativamente questa tendenza. Dall’altro, chi vede positivamente l’affermarsi di questa forma di democrazia sessuale, non tiene presumibilmente conto dello sfruttamento delle persone in tanta parte della produzione pornografica, non di rado preda di veri e propri imperi economici che, solo in apparenza, sembra andare in direzione di forme di democratizzazione del desiderio. La pornificazione del quotidiano non è certo un problema da poco e la soluzione, per lo meno a livello intellettuale, non passerà certamente attraverso delle facili semplificazioni.

La pornografia, ha inoltre aggiunto l’autore, non è sempre esistita così come noi la immaginiamo oggi. Così come non è stata sempre ed esclusivamente sinonimo di rappresentazione di atti sessuali osceni se non quando è stata posta in relazione con una qualche forma di censura e/o quando si è scontrata con altre “forze” nell’ambito dei rapporti di potere tra le classi. Nel rapporto di potere tra le classi, la pornografia, almeno sino alla fine dello scorso secolo, è stata di norma patrimonio delle élite dominanti. Una dimensione esclusiva, che è poi divenuta un problema allorché la tecnologia ne ha permesso la propagazione tra le classi più “deboli” ed influenzabili. La censura è divenuta, quindi, il mezzo per “tutelare” queste categorie di persone e non consentirne liberamente l’accesso e la fruizione al pari delle classi superiori. Ed è proprio “grazie” alla censura, secondo questa linea di pensiero, che è nata la pornografia. In definita, attraverso il controllo esercitato sulla sessualità, il punto cruciale è divenuto il problema del controllo dei corpi. La pornografia è stata dunque traghettata dai media verso la cultura di massa, facendola uscire dalla precedente dimensione (aristocratica) clandestina e di nicchia. La pornografia, benché non sia sempre stata uguale a sé stessa, ha comunque conservato nel tempo una peculiarità distintiva: i suoi elementi iconografici condensano da sempre la volontà di “mostrare” la realtà naturale del sesso. Nella cultura di massa popolare la pornografia rappresenta tuttora un intenso desiderio di visibilità che si fonde con il vorace appetito di reale che connota i media.

La versione virtuale della pornografia proposta dai nuovi media, ha aggiunto l’autore, condensa l’emblematica ambiguità della pornografia: perennemente oscillante tra il desiderio “politico” di liberare il desiderio e le reclusioni mercantili che provano, da sempre, ad ingabbiarlo economicamente.

Il lavoro di Marco Menicocci, attraverso un’articolata e densa disamina politica, storica, sociale ed antropologica, ha illustrato il percorso verso la normalizzazione della pornografia, dalla pubblicità al mondo dello spettacolo, dallo sport all’arte, etc. Un percorso che ha radici più o meno profonde, come nel caso della prima esposizione d’arte dedicata esplicitamente alla pornografia. Si trattava di “Made in Heaven” di Jeff Koons, realizzata nel 1991, epoca in cui era sposato con la celebre pornostar e cooprotagonista nelle opere presentate Ilona Staller (meglio nota come “Cicciolina”). La pornoattrice era allora particolarmente nota anche perché era stata eletta nelle liste del Partito Radicale Italiano – allora guidato dallo storico leader Marco Pannella – divenendo poi un discusso membro del Parlamento italiano. Altri artisti, prima ancora, tra i quali fotografi quali Helmut Newton, avevano sdoganato un certo tipo di nudi. Ma, al di là della cronologia degli, un aspetto strategico di queste opere è stato l’epocale “slittamento” osmotico dei codici della pornografia al campo dell’arte – quella c.d. “alta” – nella quale erano prima assenti e viceversa (aggiungo). In tal modo, la pornografia è stata trasformata nell’oggetto stesso dell’arte. Una sorta di migrazione duchampiana, aggiungo ancora, di un “oggetto trovato”, poi traslato (e in parte risemantizzato) in un’altra e più “nobile” dimensione culturale.

Il livello di normalizzazione della pornografia ha raggiunto quindi un grado di pervasività tale da incidere sul modo di concepire il corpo stesso e i suoi comportamenti. Dal fenomeno della depilazione al sexting, dal fast sex ai sex toys, dalle cavigliere al trucco pesante e alle unghie. Pratiche e cose che di sicuro non sono arrivate a noi dalle aristocrazie del passato, bensì dai film porno. Una fenomenologia che, in un’incessante pratica osmotica, dalla pornografia di massa è poi rimigrata nuovamente verso le c.d. classi “alte” e viceversa.

Nonostante questi riconoscimenti e la pervasività crescente la pornografia, ha continuato comunque a spaziare ambivalentemente dalla violenza mediatica alla sessualizzazione dei più piccoli, dalle critiche dei conservatori alle proteste del femminismo, sino ai collegamenti tra la pornografia e gli interessi dell’industria capitalista e delle sue derive illegali. Un panorama di pratiche e costumi variegato che ha oscillato dall’estremo delle nostre nonne che andavano in chiesa con il velo alle donne attempate di oggigiorno che tranquillamente prendono la tintarella in bikini. Una rivoluzione culturale ormai dissolta, quest’ultima, che è stata talmente metabolizzata e superata dal costume di massa contemporaneo che, oggi, può fare un effetto simile ad un burka. Un panorama evolutivo che, ancora ieri, vedeva resistere la lista dei termini proibiti nel carosello televisivo e sui canali della tv nazionale. La stessa tv che ora propone magari le pubblicità dei condom all’ora di pranzo.

L’autore ha illustrato, con diversi esempi, queste trasformazioni e la diffusa tolleranza e/o la crescente indifferenza, per le diverse e dilaganti forme di pornografia. Un vasto arcipelago di espressioni, che abbraccia una varietà di tendenze e di opzioni tra le più disparate, dalla violenza più disgustosa al sesso più festoso, da motore di vita ad incubo inquietante, dagli studi sulla pornografia intesa come una patologia, a quelli che la reputano al pari di una medicina, da insieme   di  rappresentazioni  erotiche semplicemente finalizzate ad eccitare sessualmente il consumatore a sistema  articolato di codici e subcultura di massa, dal porno artigianale e/o fatto in casa ai prodotti mainstream dell’industria pornografica, dai contenuti artistici alla mera pubblicità, dalla tradizione eterosessuale al mondo omosessuale, dalla pornografia hard core a quella soft core, dalle performance di donne mature a quelle con animali, all’esibizionismo. E, ancora, dalla violenza nei contenuti e sulle persone (sino alle scioccanti “assonanze” con il sadismo sessuale in stile “Dark-porn” perpetrato nella prigione di Abu Ghraib) al coinvolgimento di minori, anche in tenera età (come nel “Child-porn”). Un’infantilizzazione anche dei modelli emergenti rivenienti dal porno, è stato anche evidenziato nel testo, che, per fare un esempio, ha alimentato e consolidato pratiche ormai diffusissime ed unisex come la depilazione anche – e non solo – delle aree pubiche. Un’infantilizzazione, ovviamente, anche della moda, in particolare quella femminile, talora spinta sino al punto da proporre riferimenti anche abbastanza espliciti alla dimensione della pedofilia. Nel testo, al riguardo, viene evidenziata anche la corresponsabilità (attiva/passiva) dei grandi brand.

“I grandi marchi, senza che nessuno avanzi qualche critica ed anzi con la copertura e il sostegno dei media, sono implicati non solo nella promozione di prodotti e di immagini che si richiamano al mondo del porno ma anche direttamente coinvolti nella produzione di materiale pornografico.”

In generale, ha proseguito l’autore, l’incisività della normalizzazione progressivamente ed incessantemente imposta dalla pornografizzazione globale e dalla sessualizzazione della cultura ha reso ormai “digeribile” praticamente anche ai più estranei al mondo del porno il significato erotico di azioni, cose, fatti ed immagini che, in un passato anche recente, avrebbero molto probabilmente fatto rabbrividire tanti e irrimediabilmente ferito il c.d. comune senso del pudore. Si è quindi innalzato significativamente il livello medio di tolleranza e/o di assuefazione, per cui la coscienza comune non reputa più le rappresentazioni erotiche così scandalose come in passato, sebbene ci sia ancora un’esigua minoranza che ancora considera la pornografia del tutto oscena ed intollerabile. Una vera e propria metabolizzazione culturale, dunque, non di rado favorita anche dal confine spesso sfumato delle diverse categorie di pornografia di volta in volta proposte, imposte o, comunque, in qualche modo oggetto di un eventuale esame critico (pornografizzazione, sessualizzazione, etc.).

Un’analisi critica che, secondo Marco Menicocci, è stata improntata preminentemente nella prospettiva dell’antropologia culturale, nella quale il termine “cultura”, di norma, è utilizzato per riferirsi ad una rete variegata di segni, significati, valori e, in definitiva, al modo di interagire di una specifica popolazione o di un determinato gruppo sociale. Sempre in quest’ottica, l’espressione “cultura popolare” è stata invece prevalentemente riferita alla cultura “imposta” agli strati popolari anche attraverso gli apparati (aggiungo) dell’industria culturale.

Il percorso di analisi dell’autore verso quella che ha definito come la “pornografia quotidiana” attraversa vari momenti storici e culturali. A partire dalle rivendicazioni femministe degli Anni ’70 del Novecento per ottenere la parità dei diritti. Una battaglia dove persino la difesa della peluria femminili divenne un’“arma”, un segno di opposizione e di protesta contro il sistema. Infatti, insieme ai roghi di reggiseni, il Movimento di Liberazione della Donna aveva anche promosso l’abolizione della depilazione delle gambe femminili. Dopo il “rogo” dei reggiseni si tornò comunque alla loro rivalutazione, sia per motivi pratici sia “funzionali”, risemantizzandolo da precedente simbolo di sudditanza a strumento di seduzione (più o meno di massa, in relazione alle circostanze). In questo percorso di rivisitazione, sono state quindi riproposte – “rilette” – anche altre figure tradizionali, quali le tradizionali principesse, ovviamente in una prospettiva meno innocente del passato. La stessa femminilità è stata profondamente rivalutata rispetto a prima, con ovvio vantaggio anche degli apparati di produzione mercantili di settore, coincidendo ora prevalentemente con l’idea che essere trendy vale a dire essere sexy. A partire dal corpo delle bambine, che – come vale, più in generale, per i corpi femminili, genericamente intesi come delle “Barbie” umane – sono un “capitale erotico” che occorre far fruttare. L’intreccio inarrestabile tra sesso e successo, ha inoltre sottolineato Marco Menicocci, porta forse in maniera troppo ottimista a pensare che la sessualizzazione della cultura possa agevolare la scalata delle donne nella sfera dell’eros. I1 sesso vende sempre, ha dunque ribadito l’autore, ed è quantomai raro non considerarlo “la” chiave strategica per avere successo.

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La sessualizzazione dei corpi, e generalmente del quotidiano, coinvolge tutto/i, indistintamente, contaminando persino la percezione del reale e dei rapporti umani. Il corpo è divenuto “il” medium identitario per eccellenza e, pertanto, incessantemente offerto in ostensione e reso tanto spesso un vero e proprio oggetto dai media (anche erotico, ovviamente), non ultimo, per scopi mercantili. Si tratta di un autentico torrente in piena, ha evidenziato Marco Menicocci, una marea crescente che ha infiltrato il porno praticamente in ogni interstizio del quotidiano: televisione, cinema, videogiochi, comics, pubblicità, giornali, etc.

Il corpo, in particolare quello femminile, è inesorabilmente sempre più ridotto ad un oggetto sessuale. Lo spartiacque tra la cultura pop e quella che l’autore ha definito “Pornculture”, intesa come l’universo espressivo della pornografia, è ormai in via di rapida ed immutabile dissoluzione.

A spingere in questa direzione, ha aggiunto l’autore, c’è un potente apparato industriale che, nel tempo, ha moltiplicato ulteriormente i suoi introiti plurimilionari e, anche grazie ad Internet, ha sviluppato un mercato pressoché illimitato. La reificazione del corpo favorisce, inoltre, una sorta di definitiva normalizzazione della pornografia, abbassandone la relativa soglia di percezione del livello di potenziale pericolosità. Un fenomeno, ha ricordato l’autore, che può produrre temibili effetti distorsivi della realtà e indurre forme di comportamento anche anomale e violente.

Malgrado ciò, come qualunque cosa che abbia successo, anche la pornografia viene sistematicamente ed inesorabilmente imitata anche in altri ambiti. Gli esperti di marketing stuzzicano quindi l’interesse del target commerciale di riferimento attraverso comunicazioni commerciali ispirate, in maniera più o meno palese, ai codici della pornografia. Le stesse case produttrici di pornografia sono quotate in borsa, a riprova che qualsiasi dubbio o scrupolo morale residuo è ormai definitivamente dissolto e risulta, quindi, del tutto ingenuo e fuori luogo.

Senza dimenticare che, anche nelle sue anse legali, la pornografia non è certo esente da infiltrazioni malavitose, droga e prostituzione.

Ciò detto, oltre che un prodotto sociale, la pornografia, dal punto di vista degli apparati di produzione, resta, in ogni caso, un prodotto culturale, come tanti altri (per lo meno tecnicamente, intendo). Il senso e il “valore” del prodotto non è pertanto determinato e modulato solo dal suo produttore, ma, in relazione al contesto storico e sociale di riferimento, anche dalla tipologia, dall’entità, dal contesto della richiesta e dall’uso che ne farà il destinatario finale.

L’indeterminatezza dei codici morali e giuridici, ha proseguito l’autore, non contribuisce a definire compiutamente e “delimitare” gli ambiti della pornografia, favorendone ulteriormente la produzione. Chiude sostanzialmente il discorso, secondo Marco Menicocci, la storica (colpevole) riluttanza delle democrazie a censurare la libertà di espressione.

L’esito di questa diffusione planetaria della pornografia è stato quindi definito come la pornografizzazione/pornificazione della cultura. Un fenomeno che, è evidenziato nel testo, va considerato anche per i suoi aspetti positivi e trasgressivi, quali, come già accennato, il superamento di vecchi tabù e una sana e democratica liberazione del desiderio. Una liberazione che si inserisce nell’ambito del percorso storico (pure tracciato nel testo) della rivoluzione sessuale, un termine usato per la prima volta nel 1963 negli Stati Uniti. Un fenomeno sostanzialmente evolutivo, piuttosto che rivoluzionario, precisa l’autore, frutto di diverse tendenze ed istanze, talora anche contraddittorie e contrapposte, all’interno del quale la pornografia ha rappresentato un esito estremo. Un’emblematica sintesi, anche riguardo ai contributi ai diversi aspetti della rivoluzione sessuale, è stata offerta da due periodici destinati a fare storia: Playboy, fondato da Hugh Hefner nel 1953 e Cosmopolitan, fondato da Helen Gurley Brown nel 1965.

In relazione al processo di normalizzazione che l’ha vista progressivamente protagonista, la pornografia – non ultimo per ragioni commerciali – si è “stancata” di essere relegata soltanto e unicamente all’ambito sessuale. Ė stata quindi gradualmente interessata da un processo osmotico, concretizzatosi attraverso una reciproca compenetrazione di idee e scambi di codici, riferimenti, soggetti e valenze con altri ambiti culturali. Marco Menicocci, in proposito, ha ricordato che uno storico esempio italiano di questo processo di ibridazione culturale, ma non solo, è stato riconosciuto alle opere di Pier Paolo Pasolini (Decameron, Il fiore delle mille e una notte e I racconti di Canterbury), attraverso le quali ha collegato l’erotismo e la sessualità a valori letterari assoluti e definendo un rapporto solido e condiviso tra il sesso e la c.d. cultura “alta”.

Riprendendo il discorso sulla normalizzazione, l’autore ha rimarcato che non si è certamente trattato di un processo spontaneo e/o “normale”, per quanto tale questo fenomeno possa apparire superficialmente, bensì un esito “imposto” e, quindi, di un vero e proprio prodotto. Michel Foucault, secondo Marco Menicocci, meglio di chiunque altro ha ribadito l’inesistenza di una sessualità autenticamente naturale e priva di possibili condizionamenti culturali, collegandola, piuttosto, alle esigenze di chi detiene ed esercita forme di potere o, più nello specifico, di “bio-potere” (si pensi, per fare un esempio, a certe politiche demografiche).

Il piacere, in questa prospettiva, ha proseguito Marco Menicocci, non esiste in quanto dato naturale in sé. Non è, pertanto, una dimensione biologica universale e costante per tutti gli esseri umani, ma è, purtroppo, influenzata e regolata dal potere. Il potere, secondo questa linea di pensiero, prima “naturalizza” una certa idea di sessualità, autenticandola come l’unica “giusta” e “normale” e poi ci costruisce intorno le relative “regole del piacere”.

«Si tratta della produzione stessa della sessualità […] Questa non deve essere considerata come una specie di dato naturale che il potere cercherebbe di domare, o come un campo oscuro che il sapere tenterebbe, a dir poco, di svelare. E il nome che si può dare ad un dispositivo storico: non una realtà sottostante sulla quale sarebbe difficile esercitare una presa, ma una grande trama di superficie dove la stimolazione dei corpi, l’intensificazione dei piaceri, l’incitazione al discorso, la formazione delle conoscenze, il rafforzamento dei controlli e delle resistenze si legano gli uni con gli altri sulla base di alcune grandi strategie di sapere e di potere».

Ma prima di giungere alla normalizzazione, la pornografia è divenuta tale grazie alla già accennata opposizione dialettica con la censura e alle relative leggi repressive contro le sue rappresentazioni. Leggi tormentate, in particolare nell’Inghilterra dell’Età vittoriana, dall’imperativo di controllare ogni ambito della sfera sessuale (dalla masturbazione alla prostituzione, dalle questioni sanitarie alle gravidanze indesiderate, dalla lussuria alla violenza, etc.). Sebbene, più che gli atti in sé, ad essere particolarmente temuta era la diffusione delle rappresentazioni erotiche – testi, disegni e poi le prime fotografie – presso le classi meno abbienti.

Con l’avvento della fotografia e via via degli altri media visivi moderni e a buon mercato, si è accentuato uno slittamento strategico del senso e delle modalità di fruizione della pornografia. Una trasformazione epocale che ha condotto al passaggio dalla pornografia prevalentemente scritta a quella prevalentemente visiva, sino alle forme di frenesia del visibile della nostra epoca (legate, per quanto ovvio, non solo alla pornografia). Una frenesia del vedere che la pornografia non solo usa ma che, a sua volta, potenzia esponenzialmente. Nel mondo contemporaneo, la pornografia imperante è dunque divenuta quella visiva, in linea con la generale tendenza del nostro tempo di privilegiare il canale visivo per far giungere più velocemente ed efficacemente i messaggi al maggior numero possibile di destinatari. E dato che, forse più di ogni altro genere, la pornografia mira a “penetrare” nei corpi, stimolandone incontrollabilmente i sensi, la pornografia rischierebbe di fallire come genere se non chiamasse in causa proprio il corpo, funzionalmente proposto, quindi, in una teoria infinita di varianti proprio attraverso il visivo.

E, proprio attraverso il visivo, la pornografia ci rivela “la verità” sui corpi, soprattutto femminili, e, più in generale, sulla sessualità. Una conoscenza altrimenti nascosta o, addirittura, ignota ai più. Sulla base di questa “missione istituzionale”, ha riassunto l’autore, la pornografia può quindi essere considerata come una sorta di percorso verso la “verità”. In quest’ottica, si iscriverebbe l’assenza deliberata di trame e di narrazioni articolate, come invece ancora accade nel Softcore. La pornografia, all’opposto, è fissata con il reale e, perciò, asseconda l’imperativo dell’oggettività assoluta: la pura, nuda e cruda fisicità (anche tecnica) dei corpi e della sessualità al grado zero. Così come, per altri versi, questo imperativo della “naturalità” impone tuttora – almeno nel mainstream porn – l’assenza obbligata di DPI, quali il profilattico (la sua presenza su un set porno sarebbe assolutamente inimmaginabile). La nuda e spietata verità, dunque, senza orpelli, senza “filtri” e senza finzioni. In un’apparente assenza di elementi estetici (comunque posti eventualmente sullo sfondo), per lasciare il campo libero al solo brutale piacere, al desiderio biologico di un godimento allo stato puro, universale, naturale.

Natura, piuttosto che cultura.

Nulla di artificioso, dunque, perché, verosimilmente, una scena artefatta non interesserebbe probabilmente a nessuno. Solo amplessi puri, all’insegna dell’autenticità e della spontaneità. Una dimensione enfatizzata in chiave riduzionista dal focus di norma insistito sui genitali, mentre altre parti del corpo ricevono un’attenzione secondaria, minima. In questa prospettiva, ha riassunto Marco Menicocci, l’intera storia della   pornografia, è fondata sul principio della massima visibilità. Nonostante questa apparente obbiettività, ha precisato l’autore, non si può non tenere conto che la pornografia è, come si è accennato precedentemente, largamente condizionata dal potere e da modelli ideologici imposti. Basti pensare, come, di norma, il punto di vista (tecnico e di senso) offerto dalle riprese porno confermi, quasi senza eccezioni, una prospettiva visuale prevalentemente maschile (come, ad esempio, nel caso della fellatio e della penetrazione). Riguardo alla ripetizione dei movimenti, in linea con quanto già affermato tempo addietro anche dal sociologo Alberto Abruzzesse (cfr. il relativo contributo presente in questo testo), ciò che rende possibile la produzione industriale rende visibile i gesti della pornografia. Sul piano tecnologico la ripresa tramite una camera dei movimenti dei corpi è possibile, naturalmente, grazie ai frutti della tecnica e della produzione industriale meccanizzata. In seguito, per superare questa “rigidità narrativa”, la pornografia ha cercato di far convergere verso un climax differente – e “giustificare”, quindi – tutti i gesti dell’atto sessuale, proponendo, in particolare, l’eiaculazione maschile durante l’orgasmo e il ricorso a convenzioni come il “cream pie” e il “money shot” (o “cum shot). Pratiche, queste ultime, divenute – a partire da Deep Throat, nel 1972, il film che costituisce il punto d’avvio della pornografia moderna – un carattere estetico distintivo della pornografia. Paradossalmente, pur essendo delle convenzioni, incarnano “la” prova che attesta, usando un ossimoro, che si tratta di una “finzione reale”. E, sempre riguardo al tema delle convenzioni, Marco Menicocci ha poi precisato ulteriormente, che la pornografia non “documenta” determinati atti sessuali perché sono effettivamente quelli reali, ma rappresenta, appunto, delle convenzioni come se fossero eventi reali. Narrazioni, piuttosto che documentazioni. Narrazioni, aggiungo, che, similmente ad una qualsiasi altra narrazione, è sempre strutturata (almeno) su di un percorso narrativo principale per quanto “minimale”. Attingendo alla semiotica narrativa, anche le rappresentazioni porno (tecnicamente e senza quindi attribuirgli alcun giudizio di valore, intendo) sono sempre contrassegnate da una serie di valori di fondo, di una serie di attanti e (giungendo più in superficie nella narrazione) dalla presenza di figure formali, ovvero i vari personaggi, impersonati dagli attori di turno. Sono questi ultimi che – “in chiaro” – ci raccontano quella che, di norma, è la ricomposizione di un disequilibrio iniziale in vista di un obiettivo (la realizzazione di un amplesso, nel caso del porno), con annessa “sanzione” – o approvazione, premio – finale (l’orgasmo, sempre per restare nell’ambito del porno). Una serie di elementi iconografici da intendersi comunque, per quanto tutto questo possa apparirci quasi comico trattandosi di pornografia, come delle frazioni significanti di una narrazione più ampia ed articolata. Elementi che, come avviene per qualsiasi altra narrazione, ci aiutano a riordinare ed interpretare il mondo (di una ipotetica rappresentazione porno, in quest’occasione).

Un mondo in mutamento, e non solo quello esterno – quello composto anche di altro, andando oltre il porno – ma anche quello della pornografia. Nel testo se ne parla diffusamente. Una delle tendenze emergenti in via di costante ampliamento è stata individuata nella pornografia amatoriale. Un fenomeno che grazie alla sua diffusione potrebbe arrivare a divenire una forma espressiva capace di riconfigurare addirittura il significato stesso della pornografia più tradizionale. Complice lo sviluppo tecnologico, sia nella produzione sia nella distribuzione e nel consumo del porno, si sono aperte nuove strade – siti free, piattaforme pubbliche, forum, chat, etc. – tendono progressivamente a dissolvere i confini tra produttori e consumatori, favorendo l’affermarsi e il diffondersi di forme alternative di pornografia. Un fenomeno articolato, trattato diffusamente nel saggio, che è stato definito “Netporn. Un fenomeno che, contrapponendosi alla più tradizionale pornografia on line – “Cyberporn” – ha portato, tra l’altro, all’esplosione di ulteriori filoni e sotto-generi porno alternativi. Tra questo c’é quello chiamato, appunto, “Alt-porn”, connotato da forme differenti e trasgressive – se confrontate alla pornografia industriale – di erotismo: gotico, fetish, tatuaggi, sadomasochismo, etc.

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Un processo evolutivo che l’autore ha riassunto nel modo seguente:

“Il Netporn sarebbe, nelle sue variegate manifestazioni, espressione di autentica cultura popolare da una parte e di avanguardia dall’altra, mentre il porno ufficiale sarebbe espressione culturale propria della piccola e media borghesia. Il porno amatoriale sarebbe la vera cultura popolare mentre l’Alt-porn corrisponderebbe all’avanguardia radicale. Una critica, a ben guardare, che riecheggia quella dispregiativa verso la cultura di massa di molti intellettuali negli Anni ’50.”

Quello che ne è seguito, è stato un panorama sempre più ibrido e variegato, che, miscelandole, ha (con)fuso in un amalgama ulteriormente variabile la pornografia successiva.

Un esempio, tra gli altri generi e sub-generi via via emersi, potrebbe essere il “Gonzo”: un genere connotato da bassissimi investimenti tecnici e/o di location: vengono infatti prodotti video amatoriali con una struttura narrativa praticamente assente o, comunque, ridotta all’osso e realizzati nei posti comuni più disparati (per strada, in un portone, etc.).

Analogamente, attraverso la produzione e la condivisione nel web di porno casalinghi e sempre con l’ossessione di mostrarsi e/o mostrare “la” realtà senz’altra aggiunta, si è affermato anche il “Realcore”. Realcore che, con la pornografia condivide anche un’altra comunanza, ovvero la ridondanza (delle situazioni e delle immagini prodotte).

Marco Menicocci ne ha riassunto l’essenza nel modo seguente:

“II Realcore ha per scopo unicamente il piacere e si basa sull’assoluta gratuita degli scambi. Certo e difficile immaginare profonde letture, da parte dei soggetti, degli scritti di Marcuse, tuttavia occorre ammettere che il Realcore rammenta molte delle tesi de L’uomo a una dimensione. Piacere e gratuità, infatti, sono fuori da ogni logica consumista e industriale. E una produzione che viene dal basso, seguendo stimoli individuali e non indotti. Il Realcore, l’esibizionismo casalingo, costituiscono un’alternativa creativa al consumismo passivo del porno industriale. Ciascuno libera le proprie fantasie più profonde e mediante questa libera espressione entra in contatto con altri. La condivisione di questi prodotti, e delle fantasie che li permeano, permette di comunicare, di stabilire rapporti spontanei e non mercificati: rapporti disinteressati che hanno una forte incidenza sulla realtà delle persone. […] Il Realcore si e rivelato capace di mettere in crisi i modelli consumisti dell’erotismo proposti ossessivamente dall’industria del porno e, indirettamente, anche di mettere in discussione e indebolire le strategie costrittive dello sfruttamento industriale e consumistico del tempo libero.”

Oltre e trasversalmente a questi e ad altri generi e sotto-generi, via via si è sempre più affermato il “Sexting”, ossia la pratica abituale di autoritrarsi in pose e/o particolari intimi e “spinti” e inviare le relative fotografie via email o smartphone ad amici e conoscenti.

Riguardo alla già citata “fissazione” della pornografia per il reale – cosa che la accomuna alla fotografia – il Sexting sembra esaltare ulteriormente il realismo tanto desiderato e preteso dal porno. Un’impressione accentuata dal fatto che, grazie anche ad una quasi ostentata assenza di professionalità nelle riprese, viene amplificato “l’effetto di realtà” proprio grazie ai “difetti” intrinseci nelle immagini, ricordando quelle ottenute con una qualsiasi telecamera di sorveglianza. La presenza di queste imperfezioni, altera volutamente la dimensione fantastica del porn-script più tradizionale, la (seppur minima) finzione narrativa, negandola proprio attraverso l’enfasi degli errori di ripresa – mosso, fuori fuoco, sgranatura, etc. – connotandole, al pari di un reportage, di un tangibile effetto di vita reale, non ultimo, per la dimensione attiva del produttore quanto del ricevente, la partecipazione di attori amatoriali e per la dimensione di scambio di norma gratuita.

La pornografia industriale, che riempie la rete, al cospetto di queste nuove forme espressive, risulta ripetitiva, costosa, noiosa e copre solo una minima parte – riassumibile nella “norma” sessuale, viene precisato dall’autore – dello spettro della sessualità umana.

L’evoluzione verso la normalizzazione della pornografia, è stato evidenziato nel testo, è avvenuta anche grazie all’impegno di personaggi capaci di portare elementi di variabilità e/o di novità allo scenario preesistente. Un caso, tra gli altri, è stato quello di Jenna Jameson, un’attrice porno poi divenuta imprenditrice, che ha cercato di realizzare una pornografia che fosse gradita anche al pubblico femminile. Una scelta tesa – rispondendo anche a precise strategie di mercato – a differenziarla dal filone maggioritario del porno e creare, così, ulteriori presupposti per la normalizzazione del porno attraverso la depornizzazione della pornografia. Un percorso che non può non passare attraverso quel medium strategico e “trasversale” che è il corpo. E che il corpo venga usato come forma espressiva non è certo una novità ha sottolineato Marco Menicocci.

“Essere uomini non è un dato biologico ma il risultato di un processo continuo che gli uomini svolgono, costruendo, tramite la cultura, un’immagine di sé stessi e dell’universo in cui vivono; tra i materiali privilegiati che ogni cultura utilizza per produrre ciò che costituisce il suo modello di umanità vi è proprio il corpo. Modellato e trasformato, il corpo non è mai accettato per quello che è naturalmente e in tutte le culture del mondo si agisce su di esso per farlo passare dalla mera naturalità ad una dimensione culturale, come tale accettabile. Tutte le società, infatti, considerano il corpo cosi come si presenta nella sua immediatezza culturale in qualche modo carente e bisognoso di completamento; rifiutano di abbandonarlo al suo semplice sviluppo naturale e operano su di esso con azioni che potrebbero essere definite “estetiche”, poiché non hanno un’immediata finalità pratica e nemmeno valore strumentale per il soddisfacimento di bisogni primari.”

L’intervento sul corpo corrisponde, ha aggiunto l’autore, ad una vera e propria costruzione di identità. Il corpo è una sorta di foglio sul quale scrivere chi siamo, al fine di dirlo a noi stessi e agli altri.

E nel mondo contemporaneo dove la comunicazione è “mediata” da una selva di old e new media l’incomunicabilità dilaga sovrana. Questo spiega il perdurare dell’ossessione per il corpo, che resta il mezzo più immediato per esprimere concretamente la propria identità e, concretamente, un percorso obbligato per esprimere la propria personalità.

“Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore o la propria rabbia. In un sistema nel quale, per via delle infinite mediazioni sociali, si è fortemente ridotta la possibilità di conoscere la realizzabilità o i possibili esiti delle proprie azioni, il corpo rimane l’unico materiale certo, permanente, ma anche sensibile all’agire del singolo. Disegnare il corpo consente di guadagnare soggettività, di definire almeno una sfera di controllo, di ritrovare il senso della propria esistenza.”

Il corpo, quindi, è materia identitaria e la pelle diviene una risorsa inesauribile per la costruzione della propria identità, magari liquida, per contenere anche l’eventualità di possibili “emorragie identitarie”.

E il corpo” contemporaneo per eccellenza che – di fronte ad una realtà sempre più complessa, in continua trasformazione e unita ad una fase di diffuso analfabetismo di ritorno alimentata dai media visivi – attesta e condensa tutti le pratiche e i corpi reali della pornografia è l’immagine. La nostra epoca è certamente divenuta un’epoca delle immagini più che della parola, come teorizzava Roland Barthes. La cultura di massa non è il frutto del proliferare dei libri – purtroppo o fortunatamente, non saprei – quanto delle immagini. Lo ha affermato anche Marco Menicocci, riportando quanto osservava George Mosse riguardo alla cultura politica di massa e delle ideologie:

“Il secolo XX, l’epoca della politica di massa e della cultura di massa, ha preferito affidarsi più all’immagine che alla parola stampata. Questa tendenza a servirsi dell’immagine è sempre esistita in mezzo ad una popolazione in gran parte analfabeta ma oggi, in seguito al perfezionamento della fotografia, del cinema, e del rituale politico, essa e diventata una considerevole forza politica.”

In questa prospettiva, la dimensione visiva del porno alimenta l’emergere di veri e propri modelli identificativi, non solo sul piano del consumo, ma, alla lunga, anche – e soprattutto – del quotidiano.

La digitalizzazione delle immagini, è evidenziato nel testo, ha implicazioni per la nostra concezione del sé.

“Sono le immagini, e non i corpi in sé, ad esser diventate il vero oggetto sessuale, l’oggetto del desiderio. I media diventano parte della nostra sessualità: le tecnologie non sono più un’estensione del corpo ma sono incorporate, assimilate in una nuova struttura che contribuisce   a ridisegnare il corpo stesso. La tecnologia non è più neutra e non vale più l’antica distinzione tra strumento e contenuto: media e tecnologie sono diventati in sé stessi sessuali. La sessualità degli adolescenti [ma non solo, N.d.R.] non può esser compresa separatamente dai media con cui la esprimono.”

La virtualizzazione delle immagini favorisce, secondo l’autore, anche la diffusione della pornografia, non ultima, quella più incline ad espressioni estreme e violente. Le relative critiche sono fondate sull’assunto che la visione di immagini pornografiche, radicandosi nella mente, inquinino comunque la libido e le relazioni (sane) verso gli altri, privandole di autenticità e rendendole non di rado anche violente. La visione insistita di immagini porno, ha inoltre aggiunto l’autore, può quindi indurre ad oggettivare l’altro e ridurlo a mero oggetto di piacere sessuale.

La pornografia resta, in ogni caso, una dimensione articolata, complicata ed ambigua. Una varietà stratificata, connotata da aspetti alienanti e degradanti che convivono con quelli più liberatori, che lungi dall’avere un carattere unitario, vengono “tradotti” in una molteplicità di altri fenomeni sociali e, non ultimo, di ulteriori generi e sotto generi proprio del porno.

Dalla “Commodification” al “Porno-chic”, per esempio. Il primo termine, facendo riferimento alle riflessioni di Brian McNair riportate nel testo, è un’espressione di matrice marxista, coniata per definire delle forme di consumismo. La trasformazione, in sostanza, di un oggetto naturale, originariamente senza un valore commerciale predefinito, in un bene connotato invece da un suo specifico valore di mercato. In quest’ottica, la sessualizzazione non sarebbe altro che la risposta/trasformazione – in seguito ad una domanda – di nuovi/ulteriori contenuti (sessuali).

Come nel caso del “Porno-chic”.

Porno-chic was (and continues to he) a further stage in the commodification of sex and the extension of sexual consumerism to a broader mass of the population than have previously had access to it … [P]orno-chic would not have happened in the absence of popular demand for access to and participation in sexual discourse.”.

La “commodificazione” del sesso, dal punto di vista di Brian McNair, è legata alla maggiore opzione di scelta per il consumatore e, per tale ragione, può assumere i contorni di una sorta di democraticizzazione del desiderio. Un processo non esente da critiche, se si considera il rischio di sottovalutare la grave forma di oggettivizzazione, di degradazione e/o di deumanizzazione stordente degli “oggetti”, appunto, del desiderio. Resta da chiarire se la pornografizzazione del quotidiano sia una istanza di democratizzazione che provenga realmente “dal basso”, anche come reazione ad una repressione secolare, oppure no (ipotizzo), nel caso non sia analizzata solo come mera pratica sociale. Il dubbio è che questa sola prospettiva possa risultare fuorviante e distogliere lo sguardo da un fenomeno sociale più articolato che, oltre ad essere diventato “la” lingua con la quale ci “parla” la produzione industriale, deve essere anche considerato – verosimilmente – il più pervasivo strumento di potere per il “controllo sociale”.

Una sintesi conclusiva, ricorrendo un’ultima volta alle riflessioni di Marco Menicocci, potrebbe quindi essere la seguente:

“Gli uomini appassionati di pornografia sono quelli che hanno perso la loro lotta per il potere e la pornografia non è altro che un sostituto della religione come oppio dei popoli”.

 

***

Pornografia

di Alberto Abruzzese

La nudità del corpo, la sua riduzione alla natura di animale (per quanto arricchito da straordinarie protesi meccaniche e sociali) cade vittima di ogni pratica e ogni discorso trascendentale. Tra le poche garanzie di laicità spiccano proprio le zone sempre più emergenti della pornografia, di solito data per emblema dei processi di alienazione della persona, di deviazione della mente, di eccitazione dei consumi, di stimolo alla violenza, di disinteresse pubblico. Si pensi a quanto i territori della pornografia si siano connessi allo sviluppo dell’audiovisivo, di Internet e dei videogiochi; quanto ne costituiscano un motore e quanto, all’opposto, le stesse tecnologie vengano attraverso continui allarmi e divieti, strategicamente usate al fine di ricondurre il controllo sociale sotto l’autorità delle forme culturali tradizionali, quelle dello Stato, della Chiesa, della Famiglia e delle istituzioni pubbliche.

La pornografia non è dolce, non è sentimentale, è un’alterazione del corpo che semmai risulta la più opaca dal punto di vista della passione che la anima. Anche la parola desiderio è troppo culturale per darne il senso.

È massima sensorialità, massima verifica della propria appartenenza psicofisica, somatica, massima espressione di un immaginario senza pensiero e coscienza. Ma non ha senso se non quello che fa. Ha sì derivato le sue forme moderne dalla sostanza divisa e ripetitiva dei rapporti industriali, delle macchine pesanti, ma ha sempre lavorato sul corpo, senza attenuarlo, senza vestirlo con filtri e abiti che impediscano lo sguardo diretto sulle sue funzioni. La progressiva divulgazione della pornografia – nel corpo, appunto, dell’esperienza psicofisica – ha funzionato in chiave anti-estetica, anti-narrativa, anti-statuale, e dunque contro le retoriche dell’arte e della società. La pornografia è il “fuori scena” che tutti siamo. È là – come nella morte – che si annida la risorsa latente, l’incognita, il punto di vista della “nuda vita. La pornografia è la dissipazione estrema di cui dispone e gode il quotidiano. Non godimento sessuale, si badi: questo è semmai un risultato secondario, il tentativo di dare un senso a ciò che non lo ha se non da un punto di vista puramente animale. È cerimonia distruttiva e non costruttiva. Non genera, non familiarizza, non recupera. Non universalizza. Non ha memoria, passato e futuro.

Le mode la sfiorano appena, toccano soltanto qualche tratto accidentale, inessenziale all’evento pornografico, quelli voluti dai mercati del sesso. A differenza delle morbidezze dell’erotismo, la pornografia si mette in scena senza contesto. Dunque di fatto essa non si mette in comune, non mette in comune nulla, neppure i suoi attanti. Essa ri-guarda soltanto l’essere “al contrario” di tutto. Solo l’insicurezza di chi fa video porno spinge a usare sguardi civetta, sguardi in macchina, agganci prospettici. Solo l’assoluta indifferenza (né diversità né solidarietà) che vi accade pone il problema di dovere trovare uno spettatore compiacente. Di fatto, la pornografia resta qualcosa in sé.

La pornografia è anche la fiction in cui sapere se gli atti che vi si compiono sono veri o falsi diventa un problema inutile, che non ha nulla a che vedere con l’oggetto della rappresentazione. Un problema che riguarda solo gli effetti sullo spettatore (veri o falsi?) o la domanda impossibile che questi dovrebbe porre alla muta superficie della fiction in quanto riproduzione (domanda che, in certa misura, risulterebbe altrettanto strana se posta non a un “simulacro” di persona ma a una persona dal vivo, interrogata “a freddo” in quelle stesse posizioni o anche “a caldo”, poiché del vero e del falso si sa poco anche tra i più appassionati partner).

Nella pornografia, venendo esibita l’unica realtà di qualcosa che non è né vero né falso, scompare la sfera etica (con il conseguente depennamento delle questioni estetiche tra ciò che è bello e ciò che è brutto). Qui non si pone il problema della scelta né il problema dell’utilità. Anche in questo caso i film pornografici, che alludono al sesso come forma di liberazione e di trasgressione sociale, sono altra cosa. Altra cosa anche le cornici (o i per altro ridicoli espedienti) con cui l’intento commerciale che dà spazio alla pornografia sente il bisogno di enfatizzare l’immagine attraverso manifestazioni di piacere.

Tanto intense sono tutte queste deviazioni da contenuto essenziale della pornografia da rendere quest’ultima sempre e soltanto un’aspirazione irrealizzabile, qualcosa che occupa non la nostra fantasia ma ciò che noi semplicemente siamo una volta spogliati di tutto. La pornografia non ha simboli e non ha cultura. Non è bisogno psicologico o affettivo dell’altro. E neppure desiderio di socializzare. Tanto meno attraverso la procreazione. È una sorta di vuoto in cui può apparire una cosa sola.

Abruzzese Alberto, Il lessico della comunicazione, Meltemi, 2003

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Roma, 11 aprile 2020

G. Regnani

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La fotografia della “realtà” della pornografia – Un mito sempreverdeultima modifica: 2021-12-08T00:01:11+01:00da gerardo.regnani
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