Umberto Galimberti, i giovani e il nichilismo Una “fotografia” dell’ospite inquietante

Umberto Galimberti, i giovani e il nichilismo

Una “fotografia” dell’ospite inquietante

(recensione)

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G. Regnani, s.t., 1992

gerardo.regnani@gmail.com

Un dramma nel dramma nella fase di propagazione dei contagi causati dalla pandemia generata dal virus “SARS-CoV-2” (o “Coronavirus”, “2019-nCoV”, “Covid-19”) è stato il serio ammonimento, in particolare nei confronti dei giovani, da più parti accusati – per lo meno nella fase iniziale dell’epidemia – di una diffusa irresponsabilità per via dei tanti, imprudenti, assembramenti legati alla c.d. movida (ma non solo) documentati, a più riprese, da vecchi e nuovi media.

Questo fatto di cronaca mi ha portato a rileggere, pur nella consapevolezza che questa pandemia segnerà comunque significativamente questo momento storico così drammatico e che nulla probabilmente sarà più come prima, un denso saggio di Umberto Galimberti (Monza, 1942) intitolato “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”, pubblicato da Feltrinelli nel 2007.

Umberto Galimberti, filosofo, sociologo, giornalista e psicoanalista, ha dedicato questo testo, in particolare, all’analisi dei malesseri dai quali sembrano tuttora assediati tantissimi giovani. Sofferenze, le loro, non di rado poco o per nulla percepite dagli stessi protagonisti, tanto spesso immersi, se non sommersi, dalla marea dilagante del nichilismo (termine attribuito allo scrittore russo Ivan Sergeevic Turgenev).

Un nulla diffuso e dilagante, anche sotto il profilo comunicativo, sul quale Umberto Galimberti, chiamando in causa vari autori tra i quali anche Friedrich Nietzsche, ha riflettuto a lungo nel testo, affrontando manifestamente e da più angolature la dimensione di questo orientamento culturale e filosofico.

Umberto Galimberti, citando in epigrafe il filosofo tedesco Martin Heidegger, ha infatti iniziato così il suo percorso di analisi:

“Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla porta, perché è ovunque, già da tempo e, in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia”.

E, probabilmente, proprio partendo da questa affermazione che Umberto Galimberti è giunto a definire questa ideologia un “ospite inquietante”. Un ospite temibile ed invasivo capace di contaminare prematuramente pensieri e sentimenti di tanti giovani, cancellandone anzitempo prospettive ed orizzonti. E, così facendo, ne svuota le anime, affievolendone inesorabilmente le passioni. Una generazione, ha ricordato l’autore, che impegna quotidianamente psicologi, psicoterapeuti, consultori, incessantemente interpellati da genitori e insegnanti in difficoltà di fronte all’indolenza dei loro figli/alunni, alla loro crescente demotivazione, all’isolamento dilagante, all’incessante stordimento a base di musica, all’aumento quali/quantitativo della violenza, alle pratiche sessuali precoci e/o esasperatamente trasgressive, all’obnubilamento delle droghe “leggere” e/o “pesanti”. Pratiche, queste, non di rado intercalate da ore ed ore di ignavia. Uno scenario fosco e allarmante che, al cospetto di una scuola sostanzialmente disarmata, preoccupa non poco le famiglie e, più in generale, la c.d. società civile. Ad aggravare ulteriormente il quadro, l’autore ha ricordato che c’è, purtroppo, anche da considerare un altro attore particolarmente insidioso, che è sempre più interessato alle giovani generazioni. E non si tratta di una comparsa qualsiasi, ha evidenziato Umberto Galimberti, perché si parla del mercato. Mercato che, ovviamente, è particolarmente interessato anche alle dinamiche e agli orientamenti del panorama giovanile non proprio per ragioni filantropiche, ma per modulare funzionalmente meglio l’offerta delle sue opzioni di consumo e di divertimento. Ma il vero bene che davvero il mercato poi smercia e consuma, ha sottolineato preoccupato l’autore, è proprio la vita degli stessi giovani. Uno scenario generazionale già complicato in sé, che diviene ancor più preoccupante se si considerano anche questi orizzonti utilitaristici. Orizzonti che non fanno brillare particolarmente la luce della speranza. E lo scenario è ancora più temibile se si considera il fatto che si tratta di una dimensione prevalentemente di natura culturale, piuttosto che psicologica ed individuale.

E di fronte a questo predominio ideologico anche per il mondo giovanile non sembra risulti di particolare aiuto neanche l’eventuale ricorso al sostegno della fede: perché Dio, ha sintetizzato lapidario Umberto Galimberti, è ormai davvero morto. Rimane, aridamente a supporto di quel residuo barlume di speranza che eventualmente sopravvive, soltanto una motivazione di tipo “strumentale” fondata sul progresso tecnico, sebbene in una situazione di sostanziale e progressiva rarefazione empatica e critica.

In questo deserto di senso e di speranza, si è chiesto l’autore, è forse possibile immaginare una qualsiasi via d’uscita? La sua risposta è comunque sì ed è legata alla capacità di suggerire e/o insegnare alle nuove generazioni – a quelle future, ormai, più che a quelle attuali – quella che i Greci definivano “arte di vivere”, ovvero l’arte di riconoscere e valorizzare le proprie e le altrui qualità (intendendo non esclusivamente quelle tecniche).

Questo atteggiamento, ha però precisato Umberto Galimberti, non si dovrebbe mai tradurre soltanto in una vita vissuta “al massimo”, nel corso della quale risulti giustificato stordirsi in qualsiasi modo pur di silenziare, almeno momentaneamente, l’angoscia che dovesse eventualmente emergere dal deserto di senso e dall’analfabetismo emotivo che ci circonda.

Una dimensione desolante di solitudine immensa, immersa in un incessante e vuoto brusio di fondo. Un vacuo rumore di fondo affrontato con dosi massicce di musica ascoltata al massimo volume – non di rado condita dall’uso stimolante e, purtroppo, anche “narcotizzante” di droghe di ogni genere (dai sistemi più economici, quali i fumi di benzina e le diverse droghe sintetiche contemporanee, alle più costose esperienze a base di cocaina ed eroina) e da forme di sessualità trasfigurate e distorte – per tentare in qualche modo di affrontare l’isolamento legato all’individualismo esasperato tipico della nostra epoca, alimentato da quel tarlo e valore fondante delle società moderne che è il denaro.

Si tratta, secondo Umberto Galimberti, di un malessere generalizzato, rilevante, che interessa una vasta platea piuttosto che singoli individui. In questo deserto d’insensatezza alimentato da questa “dottrina”, l’essere umano, sempre alla ricerca di un senso, è vittima di un disagio che, come accennato poco prima, l’autore ha sottolineato essere, più che psicologico, individuale, prevalentemente di tipo culturale, inerente intere generazioni. Una tristezza ed una cupezza ampia e diffusa attraversano dunque la nostra società contemporanea, permanentemente caratterizzata da un incessante senso di insicurezza e di precarietà. Ancor più – e non solo per le giovani generazioni – in periodi come questo, aggiungo.

Una crisi caratterizzata da un deciso cambiamento di segno e/o di direzione degli sguardi sul futuro: da un futuro immaginato come promessa ad un futuro inteso, all’opposto, come una minaccia. Ciò, secondo Umberto Galimberti, comporta una sostanziale chiusura proprio verso il futuro, verso una possibile speranza, come potrebbe essere nel caso di una psiche turbata e maniacale, tutta concentrata sul presente o di una psiche depressa ed isolata, prevalentemente proiettata sul passato. O, se non proprio di una tendenza alla chiusura totale, questa crescente crisi di valori sembra comunque lasciare pochi, ristretti spiragli, talora segnati anche dall’incertezza, dalla precarietà, dall’insicurezza, dall’inquietudine. In questa prospettiva, tutto sembra spegnersi ed ogni speranza appare vana. Sembra dunque crescere la demotivazione e la vita si avvia verso un potenziale, quanto non improbabile, stallo. Se non, addirittura, verso un definitivo collasso.

Per tale ragione, prosegue l’autore, eventuali interventi di formazione e/o di sostegno alle giovani generazioni dovrebbero essere indirizzati ad orientarne, costruttivamente – “a monte” – la relativa cultura di massa, piuttosto che curare il singolo malessere individuale. Quest’ultimo, secondo Umberto Galimberti, andrebbe di norma considerato come un esito “a valle”, piuttosto che come originaria e/o esclusiva causa della desertificazione di valori così diffusa, anche tuttora, tra i giovani.

E se il disagio dei giovani non è prevalentemente psicologico, individuale, ma culturale, generazionale, possono risultare dunque poco efficaci e scarsamente funzionali, non solo la religione, come già accennato, ma anche la ragione, se “limitata” al mero sviluppo del progresso tecnologico, piuttosto che all’ampliamento di quegli orizzonti di senso che paiono soffrire della rarefazione del pensiero e del sentimento. Un problema per il quale Umberto Galimberti ha ammesso di non avere affatto una soluzione semplice, tantomeno immediata, per affrontare l’atmosfera nichilista che continua a contaminare l’età giovanile. Un disagio che appare ancor più odioso ed insopportabile perché priva tutto di senso, favorendo una visione negativa della vita. Una prospettiva che, in un’ottica “ecologica”, il nichilismo contribuisce costantemente ad alimentare e, al tempo stesso, anche nutrirsi, “riciclando” ed amplificando ulteriormente la sensazione di insensatezza dell’esistenza.

E se una soluzione, ha ipotizzato quindi l’autore, andasse invece ricercata altrove? Ad esempio, nella valorizzazione sistematica delle qualità/capacità di ognuno? E come andrebbe affrontato e, se possibile, superato il nichilismo e la rarefazione di senso che lo accompagna? E cosa, più di ogni altra, c’è da temere da questo ospite inquietante? L’autore ha risposto ricordando la svalutazione di qualsiasi valore, così come la sistematica mancanza di un fine e, non ultimo, il decentramento – culturale, emotivo, etc. – dell’Umanità. Una dimensione, quest’ultima, mediata dalle “letture” che, via via nel tempo,  hanno proposto la mitologia, le religioni, la filosofia e, non ultima, la scienza. Una frammentazione interpretativa che si inserisce nel contesto articolato del progressivo tramonto della cultura occidentale e del cennato predominio crescente della razionalità della tecnica, correlati da un’incessante implosione del senso e dal radicarsi di una dilagante sofferenza dello spirito.

Ciò detto, ha ricordato Umberto Galimberti, il nichilismo non è certamente una novità dei nostri giorni, perché – sebbene a lungo e, di norma, più silente – è, in realtà, sempre esistito.

Martin Heidegger, citato nel testo, ne aveva parlato in questi termini:

“Che ne è dell’essere? Dell’essere ne è nulla! E se proprio qui si rivelasse l’essenza del nichilismo finora rimasta nascosta?”

Ma, per quale ragione, proprio in questo momento storico, il nichilismo si è palesato in maniera così evidente?

Questa, secondo Franco Volpi, citato nel testo, potrebbe essere una possibile chiave interpretativa:

“Oggi i riferimenti tradizionali – i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori – sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l’indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l’isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo. Sotto la calotta d’acciaio del nichilismo non v’è più virtù o morale possibile.  Il paradigma tecnico-scientifico, infatti, non si propone alcun fine da realizzare, ma solo dei risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini destituisce, fin dalle sue fondamenta, ogni possibile ricerca di senso per quel tipo d’uomo, l’occidentale, cresciuto nella “cultura del senso” secondo la quale la vita è vivibile solo se inscritta in un orizzonte di senso.  A questo tipo di domanda la tecnica non risponde, perché la categoria del senso non appartiene alle sue competenze.  Ma siccome oggi la tecnica è diventata la forma del mondo, l’ultimo orizzonte al di là di tutti gli orizzonti, le domande intorno al senso vagano affannose e senza risposta in una terra ormai abbandonata dal suo cielo che ospita l’evento umano come qualsiasi altro evento.”

In questo scenario, ripensando nuovamente a Friedrich Nietzsche, l’autore ha ulteriormente precisato che il nichilismo rappresenta un condensato spirituale e filosofico che veicola l’idea di un vero e proprio tramonto morale e spirituale. Più nel dettaglio, ha fatto riferimento alla fine della metafisica, del cristianesimo e dei giudizi di valore (fondamentali). In altri termini, tutti i princìpi supremi preesistenti hanno perduto forza, lasciando il posto ad un vuoto dilagante e ad un’inarrestabile povertà di valori. Una dimensione nella quale, l’Umanità, in sostanza, non crede ormai più a niente.

Aggiungo, inoltre, che la dimensione angosciante e surreale creata ed alimentata dalla pandemia causata dal Covid-19 – nella quale anche la scienza e la tecnica sembrano non rappresentare più, come prima, una possibile “forma del mondo” – potrebbe favorire l’emergere di ulteriori espressioni nichiliste volte ad annientare anche qualsiasi altra frontiera residua di senso e di speranza …

La tecnica, come accennato, è stata comunque una costante convitata di pietra del dilagare di questa dimensione di pensiero. Dimensione tecnica che ha segnato la Storia, portando finanche all’annuncio della morte di Dio. Annuncio che, di fatto, ha praticamente dissolto l’ottimismo teologico preesistente che immaginava il passato come male, il presente come redenzione, il futuro come salvezza.

“La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi. La scienza, l’utopia e la rivoluzione hanno proseguito, in forma laicizzata, questa visione ottimistica della storia, dove la triade colpa, redenzione, salvezza trovava la sua riformulazione in quell’omologa prospettiva dove il passato appare come male, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o sociologico) come salvezza.”

E, a proposito dell’idea di un futuro inteso come minaccia, l’autore ha anche rimarcato che, oggi, è definitivamente crollata anche ogni altra possibile visione ottimistica. Dio è davvero morto, ha aggiunto, e i suoi eredi (scienza, utopia, rivoluzione) hanno purtroppo mancato la promessa.

Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare il futuro dall’estrema positività della tradizione giudaico-cristiana all’estrema negatività di un tempo affidato a una casualità senza direzione ed orientamento. E questo perché, se è vero che la tecno-scienza progredisce nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci getta in una forma di ignoranza molto diversa, ma forse più temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di far fronte alla nostra infelicità e ai problemi che ci inquietano e che paurosamente ruotano intorno all’assenza di senso.”

Si è quindi progressivamente aperta la strada al dilagare del relativismo, dello scetticismo e del disincanto, sino all’annuncio, già accennato, della fine della Storia.

All’Umanità è stato quindi tolto ogni (forte) riferimento simbolico preesistente, privandola definitivamente degli “strumenti” per orientarsi e governare, come in passato, il mondo.

In questo scenario, si è quindi inesorabilmente dissolto anche l’uomo pre-tecnologico. Ė, insieme a lui, è scomparso pure il suo – ormai ritenuto inutile – orizzonte di senso, con il relativo bagaglio di idee e di sentimenti e lo scenario umanistico nel quale prima si riconosceva e si alimentava. Una dissoluzione e un interrogativo ai quali la tecnica non sa tuttora dare – sostanzialmente perché non è nelle sue corde – una risposta plausibile.

“La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l’età pre-tecnologica, e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici.  Nata con i Greci per emancipare l’uomo dall’oscurantismo delle credenze infondate, la ragione si era imposta sulle favole dei miti, sull’approssimazione delle opinioni diffuse, sull’infondatezza delle fedi, sul nichilismo degli scettici. In séguito, perfezionandosi, si è contratta nella razionalità tecnico-scientifica che non promuove altro senso se non il proprio potenziamento afinalizzato. E così, in un orizzonte desertificato dove ogni fine ha la consistenza di un ingannevole miraggio, mancano la direzione, il senso, lo scopo.”

E questa landa desolata ed inospitale può favorire l’ulteriore radicarsi della corruzione e della malattia dello spirito. In effetti, scrive l’autore, tutto è così fragile e corruttibile. Persino gli astri celesti, la loro “casa”, il tempo, la sorte, la vita stessa e, non ultimo, il logos:

“Un giorno anche le stelle si sono ammalate. Dopo aver vegliato su un mondo inferiore alle aspettative, alcune di loro si sono ritirate diventando stelle oziose, altre invece si sono immischiate troppo nelle vicende umane mettendo definitivamente a rischio la loro natura celeste, altre infine si sono date troppe determinazioni diventando più rispondenti ai calcoli degli astronomi che agli dèi. Le stelle si sono ammalate. Anche il cielo è malato. Gli antichi credevano nell’incorruttibilità delle sfere celesti, così come credevano nell’incorruttibilità divina […] Oggi si è giunti a identificare delle malattie galattiche. Nel cosmo è nascosto un tarlo. Anche il tempo è malato. Il tempo assoluto, omogeneo, uniforme si è rivelato meno maestoso dal momento che è divenuto semplice tempo locale, tempo solidale con lo spazio, che a sua volta si è ridotto a semplice coesistenza delle cose, talvolta a realtà regionale con limiti ai confini. Anche la vita è malata con le approssimazioni e le incertezze segnalate dalla biologia contemporanea, per la quale la vita è una semplice tumefazione della materia, un caso trasformato in necessità. Malato è anche il logos frantumato in lingue regionali quando dovrebbe portare con sé, come dice il suo nome, l’unità della ragione.”

Con un simile “quadro clinico”, caratterizzato da una diffusa sofferenza costituzionale di tutte le grandi entità, quale potrebbe essere, si è chiesto Umberto Galimberti, lo sguardo più adatto per “osservare” ancora il cielo? Certamente non uno sguardo inquinato dall’irrazionalità, perché potrebbe forse contaminare ulteriormente gli interrogativi ricorrenti riguardanti il senso del tempo e la sorte futura.

E lo scenario (non solo) culturale contingente non contribuisce certo alla formulazione di risposte certe, per lo meno non come poteva accadere in passato. Dissolti i riferimenti assoluti del passato, oggi siamo una teoria di anime individuali apparentemente in balia del caso, disperse, spente, divise ed incapaci di correlare il proprio malessere con quello del mondo.

Di fronte alla perdita di questo bagaglio di solide certezze del passato, vaporizzate dalla tecnica e dalla Postmodernità, proviamo comunque ancora una volta a guardare verso il cielo, benché, ormai, orfani dell’innocenza di un tempo. Quello attuale, infatti, è, piuttosto, uno sguardo obliquo, sostanzialmente funzionale all’esito possibilmente immediato dei nostri piani, dei nostri “affari da 100 lire”, come forse li definirebbe Pierpaolo Pasolini.

Tutto, in ogni caso, è ormai cambiato e per sempre!

Non ci resta neanche l’aristotelico “cielo delle stelle fisse”, perché anche quello, purtroppo, è definitivamente tramontato.

In quest’epoca di “passioni tristi”, la crisi è la regola e non più, come in precedenza, l’eccezione.

La percezione della mancanza di un futuro inteso come promessa, ha inoltre sottolineato l’autore, può gelare il desiderio – e non solo nei giovani, aggiungo – fossilizzando il mondo su un perenne presente. In assenza di una promessa di futuro la tendenza diffusa è dunque quella – pragmatica – di cercare possibili gratificazioni nell’oggi, meglio ancora se nell’immediato, piuttosto che in un domani più o meno lontano. E, in questo scenario, non solo nell’adolescente tende a prevalere una “libido oggettuale” – (una prospettiva utilitaristica dei rapporti, finalizzata alla sopravvivenza, con un implicito “ci si salva da soli” e l’affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali) – piuttosto che una “libido narcisistica” (fondata, invece, sull’amore di sé).

“Ma l’insicurezza che ne deriva non deve portare la nostra società ad aderire massicciamente a un discorso di tipo paranoico, in cui non si parla d’altro se non della necessità di proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto che la società si sente libera dai princìpi e dai divieti e, per effetto di questa libertà, la barbarie è alle porte.”

Secondo Umberto Galimberti, un aspetto strategico del futuro percorso di formazione e/o di sostegno delle nuove generazioni dovrà essere prioritariamente la costruzione della loro identità, a partire dal riconoscimento del/nell’altro, delle sue qualità e specificità. Allorché manchi questo riconoscimento, in particolare da parte della scuola e della famiglia, questo può/deve essere ricercato altrove. La strada, ha avvertito l’autore, è, purtroppo, uno dei temibili luoghi alternativi alle tradizionali “agenzie di socializzazione” (casa, Chiesa, scuola). Là vengono sovente ricercati questi riconoscimenti, non di rado in forme anche deviate e parossistiche, quali possono essere quelle connesse con esperienze sessuali e la droga, entrambi santuari per antonomasia dell’anestesia stordente ricercata incessantemente da tanti, forse troppi, giovani. Un’esperienza da vivere senza soluzione di continuità, una sorta di full time job, come quello estremo vissuto da Mark Renton, il protagonista di Trainspotting.

Il piacere di queste forme di anestesia, ha inoltre aggiunto l’autore, è forse il piacere più sottile e, fatalmente, anche quello più subdolo ed insidioso tra quelli più popolari e diffusi (anche in questi giorni drammatici, aggiungerei).

Non credo, ha poi aggiunto Umberto Galimberti, che chi faccia uso di droghe desideri soltanto colmare un vuoto o una forma di evasione – per quanto estrema – che gli faccia perdere persino la memoria di sé.  L’autore, piuttosto, è dell’avviso che chi utilizza droghe lo faccia per esplorare ben altri orizzonti, come la morte, per esempio. Non propriamente come evento biologico, quanto come un anestetizzante “viaggio di andata e ritorno” nei paradisi estremi della droga e del sesso. Per tornare poi a (ri)vivere – attraverso una sorta di resurrezione laica – dopo quell’esperienza della morte negata o, per lo meno, esorcizzata dalla società contemporanea.

A proposito dell’idea della morte, Luigi Zoja, citato nel testo, ha detto:

“Occorre ripristinare una cultura che non si ponga, rispetto alla morte, in un rapporto di semplice opposizione, che non la percepisca solo come la massima patologia del corpo, ma anche come una esperienza di trasformazione dell’anima, e che non cerchi di negarla, sentendola solo come fine, ma la valuti anche, simbolicamente, come inizio. La società in cui l’iniziazione aveva un ruolo istituzionale era anche una società in cui la morte aveva un posto ufficiale.”

Si tratta di condizioni, ha sottolineato l’autore, ormai venute meno e non per caso. E non c’è da sorprendersene, nella logica di una possibile conseguenza della rigida razionalità imposta dalla tecnica nella società moderna.

Una deriva, in particolare quella della droga, molto più dilagante rispetto ad altre devianze che l’hanno preceduta nella nostra società contemporanea. Società contemporanea che ha sviluppato un individualismo esasperato grazie anche a delle opzioni, comprese le diverse forme di libertà e di espressione possibili, che le precedenti società non avrebbero forse neanche potuto lontanamente immaginare. Si trattava, infatti, di società segnate da mille disagi, povertà e rigidità. Queste ultime, in particolare quelle imposte dalla religione, fungevano, di fatto, da vere e proprie strutture di contenimento. Ma, di fronte al “bicchiere mezzo pieno” dello sviluppo sociale, tecnologico, etc., ci sono evidentemente i riflessi negativi di questa “evoluzione” e il relativo conto (salato!) da pagare, che non esclude forme di devianza, di violenza e, non ultimi, i suicidi (tentati e/o realizzati) da tantissime persone anche in età giovanile. Per questo, ha scritto Umberto Galimberti, si rende necessario un lavoro non da poco sul fronte dell’educazione preventiva dell’anima. Un lavoro arduo che aiuti i giovani ad essere all’altezza della nostra epoca, e non solo sul piano fisico e intellettuale. Lo richiede la dissoluzione pressoché totale degli spazi della riflessione e, più in generale, anche della comunicazione (quella più autentica ed empatica, intendo, dove si realizzino vere forme di comunione e di condivisione). Una fenomenologia che, purtroppo, ha inaridito ulteriormente il cuore di questa generazione. E il cuore, ha aggiunto l’autore, è, in fondo, l’organo per mezzo del quale, prima ancora di sapere, si comprende dov’è lo spartiacque tra il bene e il male. E, tra le conseguenze del dilagare di queste forme di desertificazione emotiva, si possono non di rado registrare casi di vera e propria follia, eccessi di passione, che emergono improvvisi, imprevedibili, prima neppure immaginabili, come le cronache ci hanno, purtroppo, sovente testimoniato. Atti eclatanti, senza apparenti sintomi premonitori, avvenuti in contesti insospettabili, caratterizzati di frequente – ed è questa una connotazione ulteriormente preoccupante – da una inusitata freddezza e razionalità.

Per concludere, ricordo che un’ampia riflessione di Umberto Galimberti è dedicata ai suicidi giovanili, sottolineando nel testo (che, ricordo, è stato pubblicato nel 2007) che sono arrivati ad essere la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici. E, per dare un’adeguata evidenza e concretezza a questo fenomeno, l’autore riporta la drammatica confessione di un’adolescente:

“A che serve tutto questo? Mi guardo intorno e tutto quello che riesco a vedere è una scuola e un mondo che possono andare avanti senza di me. Sono venuta al mondo per caso. La mia morte, ne sono sicura, non tarderà. Ho cercato tutti i giorni di capire il senso di tutto questo, ma non c’è senso. Anche se le guerre sono state già combattute, la mia battaglia deve ancora venire. Quando chiudo gli occhi il dolore si scioglie, quando li riapro di nuovo il dolore riemerge. Ho cercato di non strillare, non sarebbe comunque servito a nulla, sono persa in questa folla. Non potete far finta di non vedere. Ma sopravvivrò finché la mia vita mi rimarrà appiccicata addosso.”

L’autore nel suo testo ha dunque provato a capire come sia dilagato il deserto affettivo che sembra sia divenuto il paesaggio abituale di molti giovani. Un deserto che si propaga a partire da un presente muto, disabitato per l’invivibilità di ogni evento, triste esito di un passato altrettanto desertificato, nella quale l’altra faccia della verità è l’insignificanza dell’esistere. L’autore ha anche aggiunto che non si può parlare neppure di disperazione, perché l’anima di tanti giovani non è quasi più attraversata da alcuna speranza. E, per loro, appaiono come una sorta di rumore senza senso anche tutte le parole – per quanto sincere  possano apparire o essere – che tentano di alimentare la speranza. Così come quelle che invitano, con insistenza, a tentare di farcela e, in ogni caso, a resistere. Incluse, infine, le parole che promettono, così come quelle che vorrebbero attenuare il malessere intimo di tanti giovani.

Giovani dai volti spesso irrigiditi e pietrificati di fronte alla “verità” dell’esistenza, al suo dolore, alla sua insensatezza. I giovani del nostro tempo, ha quindi sottolineato Umberto Galimberti, sono consapevoli del fatto che il confine di questa dimensione, come l’orizzonte, è sempre oltre quello che via via sembra mostrarsi come il momentaneo confine apparente. I giovani sono inoltre accomunati dalla sensazione che non ci sia né gioia nell’esserci né, tanto meno, felicità nell’avvicendarsi (inutilmente) affannato del quotidiano contemporaneo. Da ultimo, ma non ultimo, i loro volti di pietra percepiscono un’eccessiva progettualità nello sguardo degli uomini e un eccesso di speranza che tenta (non di rado inutilmente) di distrarli dalla loro disperazione. Un intento eccessivo, quanto vacuo, di tradurre la fine in un fine. Un silenzio, il loro, che deve essere davvero ascoltato perché evidenzia la “verità” seppellita dalla nostra vita euforica e frenetica. Un silenzio tumultuoso, al quale proporre non parole inutilmente consolatorie, ma sentimenti che siano vicini alle lacerazioni delle ferite di anime che le vivono come ferite mortali.

Una dimensione, questa, come ha scritto Eugenio Borgna citato nel testo, sovente segnata anche dalla depressione, sempre più diffusa tra questi giovani senza speranza, dove il tempo si trasforma in un deserto. In questa landa desolata senza la speranza di un futuro, si riafferma, inevitabilmente, la micidiale virulenza dell’ospite inquietante. In questo scenario può quindi (ri)emergere la tentazione di farla finita, di conquistare, finalmente, il silenzio assoluto. Tuttavia, la speranza non muore del tutto neanche nel suicida. Non si potrebbe desiderare il suicidio se la fine della propria esistenza non fosse immaginata, paradossalmente, come… l’unica ragione di vita!

“Non importa se la gola è strozzata da un laccio

o se l’acqua soffoca il respiro

o se è il duro terreno a spezzare il cranio di quel che vi si schianta a capofitto

o ancora se sia una boccata di fuoco a mozzare il fiato.

Sia come sia:

la fine è veloce.”

Seneca, Ad Lucilium de providentia, 6, 9

Roma, 21 marzo 2020

G. Regnani

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Umberto Galimberti, i giovani e il nichilismo Una “fotografia” dell’ospite inquietanteultima modifica: 2021-12-08T00:02:39+01:00da gerardo.regnani
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