Umberto Eco, Paolo Fabbri e la Fotografia

Umberto Eco, Paolo Fabbri e la Fotografia

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Umberto Eco, Paolo Fabbri (fonte: Il Fatto quotidiano, elab. G. Regnani)

Il 5 gennaio 1932, ad Alessandria, nasceva Umberto Eco (morto a Milano il 19 febbraio 2016): semiologo, filosofo, scrittore, traduttore, accademico, bibliofilo e medievalista.

Per ricordarlo, nel giorno del suo “compleanno”, propongo la rilettura di un articolo di “Doppiozero” nel quale lui e Paolo Fabbri fanno alcune considerazioni sulla fotografia (“Umberto Eco e Paolo Fabbri, due riflessioni sulla fotografia”).

Gli autori le hanno condivise in occasione del XXXVIII Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, dal titolo “La fotografia: oggetto teorico e pratica sociale”, tenutosi a Roma dall’8 al 10 ottobre 2010.

L’intervento di Umberto Eco, più nel dettaglio, è avvenuto nel corso della Tavola Rotonda dedicata a: “Fotografia, Memoria, Informazione” (Ara Pacis, 10 ottobre 2010), con la partecipazione di Giovanni Fiorentino, Gianfranco Marrone, Mario Morcellini, Paolo Morello..

Del contributo di Umberto Eco , evidenzio, in particolare, questo passaggio sulla fotografia:

La fotografia non è una forma di segno. La fotografia non è altro che una materia dell’espressione, così come lo è la voce e con la voce si possono poi costruire poi degli oggetti semiotici che sono la parola parlata, il canto, il linguaggio tambureggiato e fischiato. Si fa un sacco di semiosi con la voce, ma la voce non è una categoria di segni, è una materia che poi produce sostanze e forme diverse e così è la fotografia, è una materia che può essere poi, mi scuso per la brutta parola che viene adesso può talora essere ancora presente […], ma ci troviamo di fronte a una graduatoria che va da un’indessicalità minima a un’indessicalità massima.

Di Paolo Fabbri, segnalo, in particolare, un passaggio del suo intervento altrettanto interessante, inerente l’eterno e sempreverde problema della Fotografia quale è quello della “traccia”.

La fotografia digitale è costruzionista, ottiene effetti di realtà, non è impressionista nel senso che ci siano delle impressioni del reale che funzionino come indici. La fotografia digitale fotografa segni, segni di segni, non segni di realtà, fa effetti di reale. Questo è uno dei grandi problemi della fotografia che non sono in grado di porre ma che vorrei sentire discutere con voi. Il problema grosso con la fotografia è, e nel caso di Barthes sembra particolarmente significativo, la  traccia, la presenza irriducibile, il soggetto che è stato davvero davanti alla macchina fotografica, il che mi sembra il risultato di un certo tipo di tecnica della fotografia. D’altra parte la tecnica fotografica è una tecnica evolutiva: si potrebbe dire che dai suoi inizi a oggi, se noi fissassimo a uno stato particolare dell’evoluzione della fotografia un’ontologia della fotografia, ci troveremmo effettivamente in mano soltanto gli indici di Peirce da una parte, e dall’altra parte quello che potremmo chiamare in inglese un master trap che è del cattivo Mc-Luhan, cioè quel tipo di tecnologia ci ha dato soltanto un’idea della presenza del soggetto davanti all’oggetto stesso, e credo che dovremmo in qualche misura liberarcene. Insomma dobbiamo far uscire gli spettri dalle emulsioni se volete dirla in maniera un po’ drammatizzata, l’idea che la fotografia è il luogo dei fantasmi: io direi di far uscire i fantasmi dalle emulsioni e grazie al cielo la tecnica dell’analisi digitale ci aiuta parecchio.

Il suo intervento prosegue poi con ampi riferimenti alla celebre sequenza dei cieli di Luigi Ghirri, del quale propone anche una testimonianza che, rinviando al testo integrale, propongo qui in uno stralcio:

Ghirri è critico rispetto alle foto della natura, secondo lui se c’è il linguaggio fotografico che caratterizza le foto della natura, è dice lui “l’impossibilità di bloccare (il momento naturale) per la contraddizione insanabile con il linguaggio fotografico” che secondo lui comincia già dalla camera oscura rinascimentale e che estenderebbe volentieri alla camera lucida di Barthes, cioè lui dice “neanche il linguaggio fotografico – iterazione, ripetizione progettata, sequenza temporale, fotografia ogni giorno, eccetera – è sufficiente a fissare l’immagine di uno spettro naturale” è lui che sottolinea linguaggio fotografico e immagine, dice:

i momenti fermati fanno parte di una fenomenologia estetica di altri linguaggi visivi – pittura, eccetera – mentre fotografare il cielo in queste condizioni, fotografare non il paesaggio, ma l’atmosfera, non il paesaggio nel senso tradizionale della pittura di paesaggio ma la pittura solo di cielo, “è in questa non possibile delimitazione del mondo fisico della natura dell’uomo che la fotografia trova validità e senso, in questo suo non essere un linguaggio assoluto, nel farci riconoscere la non de limitabilità del reale, qui trova la sua saturabilità e la sua autonomia.

Il testo integrale è disponibile al seguente link: https://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/umberto-eco-e-paolo-fabbri-due-riflessioni-sulla-fotografia.

Buona lettura!

Roma, 5 gennaio 2022

G. Regnani

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Umberto Eco, Paolo Fabbri e la Fotografiaultima modifica: 2022-01-05T00:01:52+01:00da gerardo.regnani
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