Its history, theory, and construction – recensione di G. Regnani – 25-02-10 in evidenza
di
gerardo.regnani@tin.it
Autore: David Brewster
Titolo: The Stereoscope
Sottotitolo: Its history, theory, and construction
Editori: Archivio Stereoscopico Italiano, Selvazzano Dentro, Padova: ristampa in facsimile (a cura di Antonello Satta) dell’originale stampato nel 1856
Copyright: 2006
ISBN: 978-88-901874-2-5
Pagine: 235, [52]
Prezzo: € 21 euro (edizione in brossura), € 34 euro (edizione rilegata)
Recensione di G. Regnani
The Stereoscope – Its history, theory, and construction
E il “nuovo” spesso soltanto apparente dei media del nostro tempo
In questo momento di particolare attenzione al cinema in 3D, il carattere di norma soltanto apparentemente “nuovo” dei diversi linguaggi multimediali circolanti nella selva sempre più fitta e spesso “(tele)guidata” di informazioni del nostro tempo, rende forse utile la (ri)lettura un importante testo pubblicato per la prima volta nel 1856 da Sir David Brewster, ristampato dall’Archivio Stereoscopico Italiano e dedicato alla storia, alle teorie e agli apparecchi per la stereoscopia (dal greco: “stereós”, tridimensione, e “skopein”, vedere).
VERSIONE RIDOTTA
Come è stato recentemente posto in evidenza dal Capo pro-tempore di un’importante istituzione nazionale, la crescita esponenziale delle informazioni veicolate a livello planetario, tanto attraverso gli old quanto i new media apre scenari sino a ora inediti, le cui ricadute, sia sul funzionamento dei processi decisionali sia su quelli produttivi potrebbero risultare talora anche rilevanti, con implicazioni non del tutto ben delineate, ancorché in parte ancora tutte da analizzare.
In questa prospettiva, non può non essere accolta con favore anche la ristampa in facsimile, sebbene sia disponibile solo in lingua inglese, dell’originale stampato nel 1856 del testo intitolato The Stereoscope – its history, theory, and construction di Sir David Brewster (curato e introdotto da Antonello Satta, Archivio Stereoscopico Italiano, con un contributo di Alison D. Morrison-Low, Royal Museums of Scotland).
E una prima riflessione che sembra andare a “fare rete” con il suaccennato discorso è quella introduttiva fatta da Antonello Satta che ha posto in evidenza un aspetto emblematico dei media contemporanei, ossia il carattere di norma soltanto apparentemente “nuovo” dei diversi linguaggi multimediali veicolati attraverso i canali e gli strumenti impiegati nel campo della rappresentazione. Secondo Satta si tratta di una questione basilare – e non solo, si aggiunge, per chi si occupa di media e industria culturale – per una corretta interpretazione dei messaggi che circolano nell’intricata selva comunicativa contemporanea.
In linea, oltre che rispetto ai contenuti del testo, appare pure la cautela suggerita da Morrison-Low a proposito della “(re)invenzione” di un ulteriore celebre bestseller ottico legato al nome di David Brewster, ovvero del caleidoscopio.
L’altro “giocattolo” cui è sostanzialmente connesso il nome di Brewster è poi lo stereoscopio.
Il termine deriva dal greco, ossia dalla fusione dei termini “stereós” (che significa solido, a tre dimensioni) e “skopein” (il percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva, ossia il “vedere”).
Il fenomeno della stereoscopia è sperimentabile da chiunque mediante una semplice osservazione “monocola”, alternata, di un qualsiasi (s)oggetto a distanza molto ravvicinata: si tratta di un illusorio effetto mentale generato dalla miscela percettiva originata da una visione da due angolazioni visive leggermente differenti.
Si tratta, come è noto, di un fenomeno conosciuto da tempo che, nonostante la “parentela” di cui si accennerà nuovamente in seguito con la più o meno coeva fotografia, all’avvento ufficiale del medium (1839), anche a causa dell’ingombro dei relativi apparecchi, non riscosse subito il successo che avrebbe poi avuto, invece, successivamente.
L’annuncio della realizzazione del modello creato da Brewster fu dato nel 1849, ma si dovette attendere, per la relativa commercializzazione, sino all’anno successivo e non nel Regno Unito, ma a Parigi – dove l’inventore incontrò, tra l’altro, il famoso ottico parigino M. Duboscq – avendo egli avuto all’inizio delle difficoltà a produrre l’apparecchio in patria. A Parigi, infatti, grazie alla lungimiranza dei suoi referenti francesi, che non considerarono lo stereoscopio come un mero passatempo, ma come uno strategico strumento con diversi potenziali ambiti di utilizzo, cominciò la concreta ascesa verso il successo dello storico apparecchio.
Il vero e proprio salto di popolarità dello stereoscopio giunse però a seguito della sua presentazione all’Esposizione Universale del 1851, al Crystal Palace di Londra – uno dei templi moderni, per dirla con le parole di Alberto Abruzzese, della “fantasmatizzazione della realtà” nonché della ulteriore “spettacolarizzazione delle merci” – dove, cosa non da poco, riscosse addirittura l’interesse di Sua Maestà.
Una pluralità di potenziali fruitori caratterizzava anche la pubblicazione di The Stereoscope che, secondo quanto dichiarato dallo stesso autore, era appunto destinato a una platea differenziata di destinatari, che spaziavano dall’ambito artistico puro (“alto”) a quello delle cosiddette “arti applicate”, dal loisir alla formazione, dalla ricerca scientifica alla sfera professionale. E, probabilmente perché anch’egli convinto della indiscussa obiettività del medium, pensando in particolare ai pittori quali potenziali utilizzatori delle riprese stereoscopiche, Brewster evidenzia come, attraverso queste: “The truths of nature are fixed at one instant of time”.
Quanto alla leggibilità del testo, nonostante esso si presenti ricco di analisi teoriche e descrizioni tecniche inerenti all’evoluzione degli studi sulla stereoscopia e alle sue possibili applicazioni, oltre che di riferimenti storici (anche biografici), non risulta comunque mai particolarmente complessa, risultando di norma sempre chiara e scorrevole. Concorre a ciò anche il corredo illustrativo composto, aspetto non secondario se si considera l’epoca originaria dell’edizione (1856), della riproduzione di ben cinquanta xilografie.
Tornando ancora allo stereoscopio di Brewster, si aggiunge che già nell’introduzione Brewster, dopo le sue prime riflessioni, ha parlato della suaccennata consanguineità dello strumento con la fotografia facendo riferimento, oltre che a uno specifico apparecchio (la fotocamera binoculare), ad altri due storici inventori e alle loro paradigmatiche ideazioni, ossia: Louis-Jacques-Mandé Daguerre (dagherrotipia) e William Henry Fox Talbot (talbotipia, calotipia). E sono proprio le riprese stereoscopiche che l’autore indica come esemplari per un’adeguata rappresentazione in rilievo dei corpi ripresi.
A queste parentele, così come agli altri legami che lo strumento ha, ad esempio, con diverse storiche figure della ricerca scientifica del passato, Brewster fa inoltre riferimento più volte, analizzando anche gli studi, solo per citarne alcuni di: Euclide, Galeno, da Vinci.
Queste ricerche, si pensi in particolare a quelle fondamentali inerenti la dissimilarità della visione binoculare, rinviano, infine, al perenne ed emblematico oscillare della fotografia tra la comunemente ipotizzata obiettività dell’immagine e la connaturata soggettività di ogni raffigurazione, ancorché apparentemente mitigata dall’automaticità dell’apparato di ripresa.
In tal senso, la visione binoculare appare in tutta la sua emblematicità, in particolare se si pensa al momento fondamentale della fusione nella mente delle singole e differenti visioni monoculari. E’ in quella fase del processo interpretativo del (s)oggetto osservato, come si ricorda nel testo, anche in chiave critica, che risulterebbe infatti interessato pure il portato culturale dell’osservatore – quel “common sense” – cui è evidentemente correlato l’inevitabile pericolo di “fallacies of vision”.
Roma, 18 febbraio 2010
G. Regnani
H O M E : http://gerardo-regnani.myblog.it/
VERSIONE ESTESA
Come è stato recentemente posto in evidenza dal Capo pro-tempore di un’importante istituzione nazionale, la crescita esponenziale delle informazioni veicolate a livello planetario, tanto attraverso gli old quanto i new media apre scenari sino a ora inediti, le cui ricadute, sia sul funzionamento dei processi decisionali sia su quelli produttivi potrebbero risultare talora anche rilevanti, con implicazioni non del tutto ben delineate, ancorché in parte ancora tutte da analizzare. Si è di fronte, dunque, a un processo dagli esiti incerti, cui contribuiscono una eterogeneità di soggetti, vecchi e nuovi, che creano e diffondono oggi informazioni per le ragioni più disparate (commerciali, istituzionali, mediatiche, “di parte”, ecc.), senza che ne risulti sempre verificabile la relativa attendibilità. Conseguentemente, risulta fondamentale un’adeguata educazione alla lettura delle informazioni veicolate, sostenuto da un atteggiamento di doverosa cautela – una giusta dosa di méfiance, direbbe forse Ferdinando Scianna – auspicabilmente non “inquinata” da pregiudizi tali da condizionarne tanto l’eventuale scelta quanto il conseguente utilizzo. L’emergere e il propagarsi, infatti, di una realtà altra, di “secondo grado”, parallela o sovrapposta che sia a quella di primo grado, quale conseguenza dell’interpretazione spesso anche “(tele)guidata” delle informazioni veicolate dai media contemporanei concorre, inevitabilmente, a (ri)orientare l’agire del singolo così come anche delle aggregazioni sociali e produttive, persino le più complesse. Si tratta di processi decisionali che, sempre più spesso, sono fondati sull’interpretazione di mondi altri, dalla forte connotazione astratta, di un altrove che può essere anche piuttosto distante, se non addirittura in contraddizione con la concreta realtà fattuale. Un approccio corretto alla problematica e densa produzione informativa contingente, nei limiti del possibile lucido e indipendente, risulta dunque essenziale per favorire un’adeguata ed equilibrata crescita culturale, soprattutto delle nuove generazioni.
In questa prospettiva, non può non essere accolta con favore anche la ristampa in facsimile, sebbene sia disponibile solo in lingua inglese, dell’originale stampato nel 1856 del testo intitolato The Stereoscope – its history, theory, and construction di Sir David Brewster (curato e introdotto da Antonello Satta, Archivio Stereoscopico Italiano, con un contributo di Alison D. Morrison-Low, Royal Museums of Scotland).
E una prima riflessione che sembra andare a “fare rete” con il suaccennato discorso è quella introduttiva fatta da Antonello Satta che ha posto in evidenza un aspetto emblematico dei media contemporanei, ossia il carattere di norma soltanto apparentemente “nuovo” dei diversi linguaggi multimediali veicolati attraverso i canali e gli strumenti impiegati nel campo della rappresentazione. Secondo Satta si tratta di una questione basilare – e non solo, si aggiunge, per chi si occupa di media e industria culturale – per una corretta interpretazione dei messaggi che circolano nell’intricata selva comunicativa contemporanea. Si pensi, in particolare, alla crescente (e talora travagliata) attenzione contingente intorno alla produzione cinematografica in 3D e, insieme, alle relative politiche che “a monte”, quanto “a valle”, ne possono (ri)modulare il sostegno o l’ostilità. Sostegno, ad esempio, che in ragione di supposte “novità” è talora funzionale a giustificare essenzialmente rincari non irrilevanti al botteghino, per fornire “una boccata d’ossigeno” al sofferente sistema produttivo di settore, così come l’ostilità può essere alimentata dalla difesa di interessi nazionali: è apparso emblematico, al riguardo, l’atteggiamento della Cina verso la produzione in 3D d’importazione.
In linea, oltre che rispetto ai contenuti del testo, appare pure la cautela suggerita da Morrison-Low a proposito della “(re)invenzione” di un ulteriore celebre bestseller ottico legato al nome di David Brewster, ovvero del caleidoscopio.
L’altro “giocattolo” cui è sostanzialmente connesso il nome di Brewster è poi lo stereoscopio.
Il termine deriva dal greco, ossia dalla fusione dei termini “stereós” (che significa solido, a tre dimensioni) e “skopein” (il percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva, ossia il “vedere”).
Il fenomeno della stereoscopia è sperimentabile da chiunque mediante una semplice osservazione “monocola”, alternata, di un qualsiasi (s)oggetto a distanza molto ravvicinata: si tratta di un illusorio effetto mentale generato dalla miscela percettiva originata da una visione da due angolazioni visive leggermente differenti. Così descrive il fenomeno Morrison-Low nel suo intervento:
“The stereoscope gives an illusion of a three dimensional scene from two slightly different flat pictures which are viewed through the apparatus so that each eye sees only one picture.”
Si tratta, come è noto, di un fenomeno conosciuto da tempo che, nonostante la “parentela” di cui si accennerà nuovamente in seguito con la più o meno coeva fotografia, all’avvento ufficiale del medium (1839), anche a causa dell’ingombro dei relativi apparecchi, non riscosse subito il successo che avrebbe poi avuto, invece, successivamente.
Come ha ricordato Morrison-Low, l’apparecchio con lenti realizzato da Brewster richiamava, sebbene quest’ultimo si sia espresso criticamente al riguardo, l’analogo (voluminoso) strumento ottico, con specchi, precedentemente realizzato da Sir Charles Wheatstone negli anni Trenta dell’Ottocento. Al riguardo, va detto che Brewster stesso nel testo fa un preciso riferimento sia agli studi di Wheatstone presentati nell’agosto del 1838 alla British Association di Newcastle sia alla connessa presentazione di un apparecchio chiamato, appunto, “Stereoscope”, capace di fondere due differenti immagini di un corpo solido riproponendolo proprio nella sua dimensione tridimensionale. Ricerche già illustrate, prosegue l’autore, un paio di mesi prima anche alla Royal Society, benché lo stereoscopio di Wheatstone, ha aggiunto però Brewster, fosse un modello semplificato, un “semplice” apparecchio di legno. E’ stato perciò descritto da Brewster come uno strumento ancora tecnicamente “povero” – era privo, ad esempio, di lenti – con il quale, fra l’altro, non essendo ancora disponibili delle immagini fotografiche appositamente realizzate, l’effetto stereoscopico era ottenuto con la visione di due comuni immagini dipinte di paesaggio (leggermente) differenti.
L’annuncio della realizzazione del modello creato da Brewster fu dato nel 1849, ma si dovette attendere, per la relativa commercializzazione, sino all’anno successivo e non nel Regno Unito, ma a Parigi – dove l’inventore incontrò, tra l’altro, il famoso ottico parigino M. Duboscq – avendo egli avuto all’inizio delle difficoltà a produrre l’apparecchio in patria. A Parigi, infatti, grazie alla lungimiranza dei suoi referenti francesi, che non considerarono lo stereoscopio come un mero passatempo, ma come uno strategico strumento con diversi potenziali ambiti di utilizzo, cominciò la concreta ascesa verso il successo dello storico apparecchio. Dispositivo che, abbinato alla fotografia (binocular camera), Brewster aveva immaginato come particolarmente adatto, se non talora persino insostituibile, oltre che per la realizzazione di sculture, quale indispensabile ausilio in ambito architettonico, così come in: meccanica, ingegneria, zoologia, fisica, ecc. Un elenco che oggi, considerando anche le applicazioni della fotografia già a suo tempo studiate anche dal celebre e quasi coevo letterato, fisiologo e fotografo non professionista americano Oliver Wendell Holmes, si potrebbe ulteriormente arricchire di altri possibili – sebbene in qualche caso ancora futuribili – campi di utilizzo, tra i quali, solo per indicarne alcuni, quelli inerenti alle discipline sportive, la biologia, la medicina, l’informazione e, nell’ambito dell’industria culturale, la sfera del tempo libero.
Il vero e proprio salto di popolarità dello stereoscopio giunse però a seguito della sua presentazione all’Esposizione Universale del 1851, al Crystal Palace di Londra – uno dei templi moderni, per dirla con le parole di Alberto Abruzzese, della “fantasmatizzazione della realtà” nonché della ulteriore “spettacolarizzazione delle merci” – dove, cosa non da poco, riscosse addirittura l’interesse di Sua Maestà.
Una pluralità di potenziali fruitori caratterizzava anche la pubblicazione di The Stereoscope che, secondo quanto dichiarato dallo stesso autore, era appunto destinato a una platea differenziata di destinatari, che spaziavano dall’ambito artistico puro (“alto”) a quello delle cosiddette “arti applicate”, dal loisir alla formazione, dalla ricerca scientifica alla sfera professionale. E, probabilmente perché anch’egli convinto della indiscussa obiettività del medium, pensando in particolare ai pittori quali potenziali utilizzatori delle riprese stereoscopiche, Brewster evidenzia come, attraverso queste: “The truths of nature are fixed at one instant of time”.
Quanto alla leggibilità del testo, nonostante esso si presenti ricco di analisi teoriche e descrizioni tecniche inerenti all’evoluzione degli studi sulla stereoscopia e alle sue possibili applicazioni, oltre che di riferimenti storici (anche biografici), non risulta comunque mai particolarmente complessa, risultando di norma sempre chiara e scorrevole. Concorre a ciò anche il corredo illustrativo composto, aspetto non secondario se si considera l’epoca originaria dell’edizione (1856), della riproduzione di ben cinquanta xilografie. Un corredo visuale che, plausibilmente, è da intendersi come un ulteriore ed efficace supporto alla corretta illustrazione delle leggi ottiche esposte, perché, come ha sottolineato l’autore, se “we allow them [the laws, N. d. R.] to be tampered with to obtain an explanation of physicar puzzles, we convert science into legerdemain, and philosophers into conjurors.”
Tornando ancora allo stereoscopio di Brewster, si aggiunge che già nell’introduzione Brewster, dopo le sue prime riflessioni, ha parlato della suaccennata consanguineità dello strumento con la fotografia facendo riferimento, oltre che a uno specifico apparecchio (la fotocamera binoculare), ad altri due storici inventori e alle loro paradigmatiche ideazioni, ossia: Louis-Jacques-Mandé Daguerre (dagherrotipia) e William Henry Fox Talbot (talbotipia, calotipia). E sono proprio le riprese stereoscopiche che l’autore indica come esemplari per un’adeguata rappresentazione in rilievo dei corpi ripresi. Ma i nomi citati, come si sa, sono anche indelebilmente legati alle riflessioni inerenti alla fluttuazione del medium fotografico dalla dimensione dell’unicum dagherrotipico opposta, invece, alla riproducibilità praticamente illimitata della matrice (negativo-positivo) talbotipica. Alla dagherrotipia, tra l’altro, era inizialmente connessa una visione dell’uso del mezzo apparentemente più “democratica” – il governo francese, infatti, rese libera “a tutti” l’invenzione (benché fossero pochi, in realtà, quelli che potevano permettersi di sopportare i costi della relativa attrezzatura) – rispetto a quella riconducibile all’inventore inglese Talbot. Questi, in effetti, riguardo alla questione della diffusione e disponibilità dei suoi procedimenti ha sempre avuto una prospettiva contrapposta, tenacemente impegnata a difendere ovunque (in Inghilterra così come altrove), e “senza sconti” per nessuno, i diritti legali derivanti dallo sfruttamento da parte di chiunque delle sue scoperte. Il dagherrotipo, inoltre, a causa dell’apparente irriproducibilità che lo rendeva simile a un tradizionale quadro o disegno, essendo un’opera unica, sembrò incarnare anche una sorta di ultimo, emblematico passaggio dall’esemplare unico verso la riproducibilità (la serialità) potenzialmente senza limiti, della nuova matrice talbotipica. Tale processo, inevitabilmente, produsse riflessi non irrilevanti anche sul fronte della percezione simbolica delle immagini fotografiche e alla loro capacità di condensare in sé la transizione da una dimensione prettamente “cultuale”, immanente nel qui e ora insito in ogni opera unica, a una differente dimensione valoriale, quella “espositiva”, che, conseguentemente, avrebbe avuto riflessi anche sul fronte (sociale, ma non solo) dell’utilizzo del medium, in quanto collegati a quella che Jean-Claude Lemagny ha individuato come la prima vera e propria fase di “volgarizzazione” della fotografia. Da ultimo, ma non perché sia meno rilevante, i nomi dei due inventori rinviano alla storica e sempreverde contesa per il primato della realizzazione dell’invenzione che è inevitabilmente collegata all’altra, altrettanto problematica, querelle politica che coinvolse le rispettive nazioni di appartenenza dei due inventori; vicenda che, nel caso specifico della Francia, assunse i contorni di una vera e propria questione nazionale.
E con toni che sembrano non molto distanti da questa prospettiva, sebbene con specifico riferimento alla ritrattistica, Brewster promosse anche la stereografia al rango di “art of great domestic interest”.
A queste parentele, così come agli altri legami che lo strumento ha, ad esempio, con diverse storiche figure della ricerca scientifica del passato, Brewster fa inoltre riferimento più volte, analizzando anche gli studi, solo per citarne alcuni di: Euclide, Galeno, da Vinci.
Queste ricerche, si pensi in particolare a quelle fondamentali inerenti la dissimilarità della visione binoculare, rinviano, infine, al perenne ed emblematico oscillare della fotografia tra la comunemente ipotizzata obiettività dell’immagine e la connaturata soggettività di ogni raffigurazione, ancorché apparentemente mitigata dall’automaticità dell’apparato di ripresa.
In tal senso, la visione binoculare appare in tutta la sua emblematicità, in particolare se si pensa al momento fondamentale della fusione nella mente delle singole e differenti visioni monoculari. E’ in quella fase del processo interpretativo del (s)oggetto osservato, come si ricorda nel testo, anche in chiave critica, che risulterebbe infatti interessato pure il portato culturale dell’osservatore – quel “common sense” – cui è evidentemente correlato l’inevitabile pericolo di “fallacies of vision”.
Roma, 18 febbraio 2010
G. Regnani
Riferimenti
————-
http://www.archiviostereoscopicoitaliano.it/
H O M E : http://gerardo-regnani.myblog.it/
segue I N D I C E :
http://gerardo-regnani.myblog.it/archive/2009/08/10/indice-dei-testi.html
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